INTRODUZIONE
Il presente saggio nasce dalla convinzione generale che, per comprendere
correttamente i fenomeni sociali – e più estesamente umani, dal momento
che ci occuperemo sia del singolo individuo nella costruzione della propria
soggettività, sia delle dinamiche interne e reciproche dei gruppi cui tale
individuo aderisce, per finire con gli orientamenti che assume la società
occidentale tutta –, non sia sufficiente seguirli e analizzarli nella loro realtà
effettiva di sviluppo con un approccio esclusivamente sperimentale, ma sia
necessario osservarli attraverso la lente interpretativa della filosofia.
Indagare sul proprio contesto di vita e su se stesso e i suoi simili è da
sempre, per l'uomo, fondamentale per vivere consapevolmente e dunque
in maniera più equilibrata possibile i cambiamenti che si verificano
nell'ambiente che lo circonda, e oggi come non mai ci troviamo di fronte a
una enorme rivoluzione determinata dall'evolversi di un mondo
precedentemente dominato da strutture di tipo testuale in uno che si
sviluppa in misura prevalente attraverso la dimensione visiva. In
particolare, è accaduto che in una manciata di anni le tecnologie della
comunicazione siano progredite a tal punto da moltiplicare in proporzione
esponenziale il flusso di stimoli – informativi ma anche promozionali,
piuttosto che relativi allo svago e all'intrattenimento – ai quali ciascuno di
noi si trova esposto, che egli lo voglia oppure no. E si dà il caso che una
gran parte di tali stimoli, grazie soprattutto alla straordinaria diffusione di
internet e delle tecnologie digitali in generale, sia di tipo visuale. Ora,
l'uomo rischia, in questo mare di comunicazione agitato dalle immagini, di
perdere il controllo delle proprie percezioni, non riuscendo più a gestirle,
ovvero non sapendo più scegliere cosa interiorizzare e come farlo, cosa
analizzare in modo distratto, cosa infine lasciar correre senza che sia
necessario dedicargli attenzione. Il risultato è un disorientamento tutto da
interpretare, del cui senso è fondamentale venire a capo innanzitutto da un
punto di vista teorico, per divenire poi in grado di intervenire con
cognizione di causa sulla realtà effettiva della formazione del soggetto e
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delle dinamiche sociali dei collettivi nella contemporaneità. Ecco perché lo
schema in base al quale andiamo a impostare il nostro lavoro cercherà di
sviscerare la tematica che ci interessa dapprima in base al pensiero
filosofico che la riguarda, e soltanto in seguito da una prospettiva
sociologica che descriva e analizzi i fenomeni in atto (da qui il significato
del titolo: “ Teoria dell'immagine e pragmatica della comunicazione”). Per
quanto concerne la prima sezione, si esaminerà in particolare il passaggio
dal concetto cartesiano di immagine, proprio della filosofia moderna,
secondo il quale il rapporto tra soggetto e immagine è determinato
essenzialmente dall'attività percettiva del primo, mentre l'immagine è
qualcosa di statico e passivo nel venir semplicemente fruita, al punto di
vista dei pensatori contemporanei che sostengono che il visuale eserciti
invece un ruolo attivo nel rapporto con l'individuo, che esso abbia cioè un
qualche genere di autonomia secondo il quale muoversi, autonomia che si
configura come una dipendenza diretta dalla tecnologia che gli permette di
svilupparsi in base a logiche sue proprie e non in relazione alle categorie
percettive di cui l'uomo dispone. Tale quadro consente in effetti di trovare
una giustificazione al caos nel quale la soggettività occidentale appare oggi
essere precipitata, nei termini di quello smarrimento del controllo sulle
percezioni che abbiamo rilevato poche righe più su, e la situazione che ne
emerge è da molti interpretata come una perdita di realtà del mondo:
paradossalmente è nel momento in cui tutto diventa visibile e attrae
l'occhio con maggior forza e spettacolarità, che il suo significato svanisce,
che le apparenze si fanno vuoti simulacri. Non si parla più di come un
soggetto si rapporta al visuale, adesso, ma della maniera di confrontarsi
con le immagini del vivente in quanto tale, e questo passaggio determina la
sostituzione della filosofia, ormai incapace di interpretare le evoluzioni in
corso, con la teoria dell'immagine, alla quale sono riconducibili gli autori
contemporanei che citeremo nel secondo capitolo.
Come spunto e linea guida per la sezione filosofica del saggio seguiremo
piuttosto fedelmente i ragionamenti elaborati dall'inglese Graham
MacPhee nel suo “The Architecture of the Visible”, opera che pone in
relazione l'avvento della cultura visuale verificatosi sulla scia
dell'evoluzione tecnologica con le dinamiche urbane e sociali in atto nel
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mondo occidentale. Selezioneremo soltanto alcuni degli autori che egli cita
e di questi approfondiremo e porremo in relazione l'una con l'altra le
teorie, a seconda della vicinanza dei temi trattati da ciascuno all'oggetto
specifico del nostro studio. Così facendo giungeremo a delineare la figura
dell'uomo come si è trasformata negli ultimi decenni, passando dal
configurarsi come soggetto pienamente auto-consapevole, padrone delle
sue percezioni e artefice della propria storia, al ritrovarsi incerto su come
reagire a un bombardamento di stimoli e informazioni, precipuamente di
tipo visuale, che ha spesso dimostrato di avere enorme difficoltà a
controllare e gestire per i propri scopi, rischiando di conseguenza di
privarsi della sicurezza necessaria per sviluppare in modo equilibrato la
sua personalità. In seguito, dal terzo capitolo in poi, ci volgeremo ad
analizzare da una prospettiva più puramente sociologica come questo
nuovo individuo si muova nei diversi contesti sociali, focalizzandoci nello
specifico su tre differenti dimensioni fondamentali per la vita dell'uomo,
sul duplice fronte della sua formazione singolare da una parte e della
relazione con chi lo circonda in generale e con i vari tipi di collettivi in
particolare dall'altra, sempre in riferimento all'autonomia dell'immagine
che avremo descritto precedentemente: il rapporto tra visibilità della
persona e potere/libertà, le ripercussioni sull'identità della recentemente
conquistata opportunità di manipolare le immagini nel regno virtuale, le
conseguenze sulle istituzioni politiche e sulla possibilità stessa di esistenza
del sistema democratico comportate dalla confusione che è andata
creandosi nel cittadino comune tra il ruolo di consumatore che aveva nel
passato e quello di produttore di contenuti che egli esercita oggi con una
continuità progressivamente crescente.
Gli studi filo-sociologici sul visuale sono attualmente in forte sviluppo
negli ambienti accademici anglo-americani, dove esiste già una letteratura
sul tema piuttosto approfondita e diffusa, ricca di contributi dai punti di
vista più vari, che sono stati spesso posti a confronto gli uni con gli altri
generando un'interessante arena di dibattito. Le posizioni in gioco vanno
dall'entusiasmo degli ottimisti, che classificano come straordinariamente
positive per l'uomo e la società tutta le innovazioni che l'avanzare della
tecnologia comporta sui meccanismi comunicativi, alle critiche e agli
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avvertimenti degli scettici, che temono che le nuove dinamiche,
specialmente per quanto riguarda la rete internet e il virtuale in generale,
condurranno alla frammentazione sociale, alla solitudine dei singoli, a
derive dittatoriali del controllo sulla vita dei cittadini e all'impossibilità di
portare avanti con continuità un dibattito pubblico autentico che sia tale
da assicurare quantomeno la sopravvivenza del sistema politico
democratico. Tale discussione si è via via allargata fino a raggiungere una
dimensione internazionale, e ha cominciato a coinvolgere anche studiosi
europei e italiani, che da alcuni anni intervengono sull'argomento con
articoli e saggi propri. Tuttavia, ancora adesso molti dei testi più stimolanti
sul rapporto tra immagini, individuo e società rimangono pubblicati
esclusivamente in lingua inglese, in attesa di venire tradotti per altri paesi:
è il caso di alcune delle opere che citeremo in questo lavoro, prima tra tutte
quella di MacPhee dal quale la trattazione prenderà avvio. Ciò che questo
contributo vuole essere, dunque, è innanzitutto un breve ripercorrere
alcune delle molte e differenti teorie presenti sulla scena degli studi sulla
visual culture , e in secondo luogo una raccolta di spunti di riflessione
originali perché generantisi da considerazioni personali sorte dalla lettura
comparata del materiale letterario a disposizione. Con la speranza e
l'augurio che ci si renda conto al più presto, anche nel nostro paese,
dell'importanza di analizzare seriamente e comprendere al meglio i
fenomeni in atto – troppo spesso classificati come oscillazioni senza
significato nelle pieghe della cultura popolare – al fine di gestire nel modo
più opportuno l'innovazione tecnologica che sconvolge l'universo delle
comunicazioni, e dunque la vita stessa della gente, ai nostri giorni.
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CAPITOLO 1
L'immagine e il soggetto La concezione cartesiana del visuale nella filosofia moderna Apparentemente, le immagini potrebbero
esistere anche senza di noi. Ma questa
apparenza è ingannevole, l'immagine ha
bisogno della nostra esperienza per destarsi.
(E. Canetti)
Uno dei caratteri centrali della modernità occidentale – quella della
cultura popolare dei mezzi di comunicazione di massa, delle grandi città, di
ciò che viene sempre più spesso definito “spazio culturale globale” –
sembra essere la pervasiva penetrazione della realtà quotidiana dell'uomo
da parte delle tecnologie del visuale. Le modalità di rappresentazione e di
costruzione del significato si configurano ormai come direttamente
dipendenti dal progresso tecnologico, e le complesse trasformazioni che
questo comporta richiedono nuovi paradigmi in base ai quali pensare la
cultura, la società, la politica e qualsiasi altro ambito che coinvolga la
soggettività.
Graham MacPhee sviluppa questi temi in un saggio del 2002; ciò che vi
sostiene è, in estrema sintesi, che la nuova condizione tecnologica del
visuale tipica della contemporaneità non solo ci costringa a ripensare i
termini dell'esperienza del vedere, riesaminando e rivalutando le
concezioni lasciateci in eredità dalla filosofia moderna, ma riapra la
discussione sulle condizioni trascendentali dell'esperienza percettiva,
ovvero su cosa renda possibile all'uomo la percezione: quello che egli
definisce “l'invisibile architettura del visibile” 1
.
La rottura teorica ha luogo negli anni Sessanta del Novecento, quando una
schiera di critici – i più rappresentativi Guy Debord, Jean Baudrillard,
1 “The invisible architecture of the visible” (MacPhee 2002, 10).
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Paul Virilio e Fredric Jameson – pongono in discussione il concepire
l'esperienza visuale come una funzione dell'attività del soggetto, per
spostarla sotto il raggio d'azione delle tecnologie, che di per se stesse
organizzerebbero lo sguardo e l'immagine-mondo che esso osserva. Si
tratta di un ripensamento totale dei parametri concettuali della visione, da
nozioni di intenzionalità e memoria del soggetto che vede a questioni di
forma e temporalità del visibile in sé: a essere in discussione è la
consistenza di un punto di vista soggettivo, “umano”, ma anche
semplicemente earth-bound (MacPhee 2002, 2), centrato sulla terra. La
prospettiva dalla quale tali concezioni si distaccano è quella moderna, che
ruota attorno al modello di una coscienza soggettiva isolata in grado di
percepire il mondo in modo autosufficiente. Essa ha il suo fondatore e
maggior esponente in Cartesio, le cui teorie saranno oggetto di questo
primo capitolo, seguite dalle linee fondamentali del pensiero di Immanuel
Kant e Charles Baudelaire sugli stessi temi. Il filo da seguire resterà, qui e
nel capitolo successivo, quello delineato da MacPhee, rielaborato e
arricchito da un'ulteriore analisi dell'opera di alcuni dei teorici che egli
tratta: è sul loro pensiero che ci concentreremo nel tentativo di delineare
l'evoluzione del concetto di visuale dalla modernità ai nostri giorni. Molto
spazio sarà concesso alla viva voce degli autori, con la convinzione che
chiarezza espositiva e trasparenza concettuale, quando siano state
raggiunte, non possano altro che venir danneggiate da troppi
rimaneggiamenti. Per i brani in lingua straniera, riporterò sempre in nota
la versione italiana. Quando non segnalato diversamente, è da intendersi
che la traduzione sia mia.
La filosofia di Cartesio è considerata il momento fondante delle concezioni
moderne riguardo alla visione, dato il suo distaccarsi dalla
precedentemente sostenuta uniformità tra visione diretta e conoscenza. La
distinzione che egli introduce tra l'esperienza sensoriale e la formazione
cognitiva delle sensazioni operata dalla coscienza apre la strada a
un'analisi della visione anche dal punto di vista culturale e filosofico,
piuttosto che esclusivamente ottico o neuropsicologico. L'esperienza
visuale, infatti, viene a non essere più causa immediata di conoscenza, e
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ciò comporta una nuova ansia rispetto a quella sicurezza del sapere
derivante dalle percezioni sensoriali che aveva caratterizzato l'Occidente
nelle prime fasi della modernità.
Alla base delle teorie di Cartesio si trovano importanti innovazioni
introdotte in campi diversi nel diciassettesimo secolo, che conducono a un
vasto ripensamento della visione: innanzitutto la presentazione del primo
telescopio funzionante, ad opera di Galileo Galilei, che dà il via a una serie
di scoperte che confermano i modelli astronomici di Copernico e Keplero,
oltre a incoraggiare uno stile di ricerca che dipenda dalla matematica e
dalla geometria. Quest'ultimo aspetto chiarisce a Cartesio che l'esperienza
visuale di per sé non basta, ma necessita di essere integrata con
elaborazioni concettuali che essa non comprende.
“Nè l'immaginazione né i sensi potrebbero mai assicurarci di nulla, se
non intervenisse il nostro intelletto” (Cartesio 1993 a, 38).
Agli sviluppi dell'astronomia e dell'ottica si accompagnano novità nelle
tecniche di rappresentazione delle arti visuali: la prospettiva con un unico
punto di fuga, e il concetto di punto improprio che da essa viene
introdotto, permettendo di darne un'interpretazione puramente
geometrico-matematica, consente ai pittori di rendere su due dimensioni
un'immagine tridimensionale del mondo, un risultato che evidenzia la
credulità dell'occhio piuttosto che la sua affidabilità come guida per la
conoscenza di verità empiriche. Ugualmente inaffidabile è per Cartesio
l'immaginazione, “poiché immaginare non è altro che contemplare la
figura o l'immagine di una cosa corporea […] e può accadere che tutte
queste immagini, e in generale ogni cosa che sia riferibile alla natura del
corpo, possano essere null'altro che sogni” (Cartesio 1994, 62).
“Da che cosa infatti si riconosce che i pensieri che ci vengono in sogno
sono falsi, mentre gli altri non lo sarebbero, visto che spesso i primi
sono altrettanto vivaci e nitidi dei secondi? […] Per cui, sia nella veglia
che nel sonno, noi non dobbiamo mai lasciarci persuadere se non
dall'evidenza della nostra ragione: della nostra ragione – si badi bene
– e non della nostra immaginazione o dei nostri sensi” (Cartesio 1993
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a, 38-40).
Cartesio interpreta tutto questo come la prova che la manipolazione
tecnologica del mondo visibile rende evidente la distinzione tra dati visuali
(e sensoriali in generale) da una parte, e le operazioni che conducono a
prenderne coscienza dall'altra. Egli è molto chiaro nello spiegare da un
punto di vista scientifico come avvenga il processo della visione, e ripete
tali concetti, per lui fondamentali, in diversi saggi.
“Nella Diottrica ho anche spiegato come tutti gli oggetti della vista si
comunichino a noi esclusivamente perché muovono localmente, con
la mediazione dei corpi trasparenti posti fra essi e noi, i piccoli
filamenti dei nervi ottici collocati in fondo ai nostri occhi, e quindi le
parti del cervello da cui questi filamenti provengono; e li muovono,
dico, in tante maniere diverse quante sono le diverse cose che ci fanno
vedere; e i movimenti che rappresentano all'anima questi oggetti non
sono quelli che hanno luogo nell'occhio, ma quelli che hanno luogo
nel cervello” (Cartesio 1993 b, 12).
Secondo Cartesio, gli oggetti inviano verso l'occhio dei raggi di luce che in
esso toccano l'estremità di uno o più filamenti dei nervi ottici,
completamente liberi e distesi in dei sottili canali lubrificati per tutta la
loro lunghezza da quelli che definisce “spiriti animali”, in modo che
qualsiasi movimento dell'occhio, anche minimo, fa muovere allo stesso
tempo la parte del cervello da cui il filamento proviene. Egli ci aiuta a
comprendere tale processo con la metafora del bastone.
“Qualche volta, procedendo di notte, senza torcia, per luoghi un po'
malagevoli, vi sarà certamente accaduto, per saper dove mettere i
piedi, di dovervi aiutare con un bastone: allora, avrete potuto notare
che percepivate, per l'interposizione di questo bastone, i vari oggetti
che vi circondavano e che potevate perfino distinguere se erano alberi,
pietre, sabbia, acqua, erba, fango o altre cose di questo genere. È vero
che questa specie di sensazione, per chi non ne abbia lunga
consuetudine, risulta un po' confusa ed oscura, ma consideratela in
quelli che, nati ciechi, se ne son serviti in tutta la loro vita e in essi la
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troverete così perfetta ed esatta da poter quasi dire che vedono con le
mani o che il bastone che usano è l'organo di qualche sesto senso
concesso loro al posto della vista. Per trarre da ciò un paragone,
desidero che pensiate che la luce, nei corpi che si dicono luminosi,
altro non sia che un certo movimento o azione rapidissima e vivissima
che si trasmette ai nostri occhi attraverso l'aria ed altri corpi
trasparenti, nello stesso modo in cui il movimento o la resistenza dei
corpi, che incontra quel cieco, si trasmetterebbe alla sua mano
attraverso il bastone. Questo esempio vi impedirà innanzi tutto di
trovare strano che la luce possa in un istante diffondere i suoi raggi
dal sole fino a noi: sapete infatti che l'azione per cui si muove una
delle estremità di un bastone deve in tal modo passare in un istante
fino all'altra e che dovrebbe passarvi nello stesso modo anche se tra
l'una e l'altra vi fosse maggior distanza di quella che c'è dalla terra al
cielo. Neppure troverete strano che per suo mezzo sia possibile vedere
ogni sorta di colori; e forse crederete anche che questi colori, nei corpi
che si dicon colorati, altro non siano che i diversi modi in cui tali corpi
ricevono la luce e la rinviano contro i nostri occhi, se considerate che
le differenze che un cieco nota tra alberi, pietre, acqua e simili cose
mediante l'interposizione del suo bastone non gli sembrano minori di
quelle che per noi sussistono tra il rosso, il giallo, il verde e tutti gli
altri colori e che, tuttavia, queste differenze in tutti quei corpi altro
non sono che i diversi modi di muovere quel bastone o di resistere ai
suoi movimenti” (Cartesio 1983, 191-194).
La comprensione dell'ordine matematico alla base dell'esperienza visuale,
che la identifica come meccanica o “tecnologica”, dimostra che il soggetto
non percepisce immediatamente il mondo così come esso è nella realtà.
“Altro è la luce negli oggetti altro nei nostri occhi” (Cartesio 1986,
127).
Questa consapevolezza conduce Cartesio a cercare cosa ci sia di vero nelle
sue percezioni, impresa che affronta nelle Meditazioni sulla filosofia
prima : per non rischiare di assumere come reale qualcosa che si
rivelerebbe poi ingannevole, egli sceglie di cominciare dal porre in
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discussione tutto ciò che i suoi sensi sembrano trasmettergli.
“Suppongo dunque che tutte le cose che vedo siano false; voglio
credere che non esista nessuna di quelle cose che la mia memoria
ingannatrice riproduce; non posseggo alcun senso; il corpo, la figura,
l'estensione, il moto, il luogo non sono che chimere. Cosa dunque sarà
vero? Forse soltanto questo, che nulla è certo” (Cartesio 1994, 58).
Il dubbio radicale di Cartesio ha tuttavia limiti precisi: l'idea che non
possiamo essere certi che ciò che vediamo esista davvero come oggetto del
mondo – e che, nel caso in cui esista, esso sia simile a ciò che percepiamo
– si accompagna alla certezza che almeno noi, come coloro che pensano
tale oggetto, esistiamo.
“Senza dubbio io esistevo, se mi sono persuaso di qualche cosa. […]
Ecco: il pensiero è; esso solo non può essermi strappato. Io sono, io
esisto; è certo. […] Sono dunque precisamente soltanto una cosa
pensante” (ivi, 59-61).
Dalla certezza della propria esistenza solo in quanto soggetto pensante
deriva la coscienza del fatto che le sensazioni non sono altro che pensiero.
Tutto ciò che l'uomo concepisce sarebbe quindi rappresentato a lui
dall'intelletto, e non dai sensi né dall'immaginazione.
“Non vi è dubbio che mi sembra di vedere, udire, sentir caldo. È
questo per l'appunto che non può essere falso; questo è,
propriamente, ciò che in me si dice sentire; e ciò, assunto
precisamente in questo modo, altro non è che pensare. […] Ora so che
i corpi non sono percepiti propriamente dai sensi o dalla facoltà di
immaginare, bensì dal solo intelletto, e che non vengono percepiti per
il fatto che si toccano o che si vedono, ma soltanto per il fatto che li
concepiamo” (ivi, 63-68).
Tale punto fermo stabilisce l'opposizione tra res cogitans , la sostanza
pensante, composta da anima e cervello, e res extensa , la sostanza estesa,
che costituisce il mondo corporeo. Secondo Cartesio, dalla certezza del
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