PARTE I.
Introduzione.
Karl Polanyi, gi à negli anni cinquanta, sosteneva l'importanza e la necessit à di uno studio dei fenomeni economici che ne considerasse l'intreccio con i fenomeni pi ù specificamente sociali, affermando che
«l’economia umana […] è incorporata e inglobata nelle istituzioni sia economiche che non economiche ».
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L'esame di questo intreccio non ha mai, tuttavia, rappresentato un riferimento sistematico nell'analisi dello sviluppo economico.
Lo studio dei distretti industrali italiani, di cui mi propongo di presentare in questo lavoro alcuni tratti fondamentali, ha, invece, rilevato come il legame tra fenomeni economici e relazioni sociali fosse il fattore chiave per interpretare il funzionamento dei sistemi localizzati di piccole e medie imprese, e per spiegare l'intensa crescita economica di una parte delle regioni italiane del centronord. Una crescita non interpretabile con i modelli solitamente utilizzati dagli economisti dello sviluppo.
Per Becattini, autore cui faccio maggiormente riferimento, l'analisi di queste realt à locali, cominciata negli anni '70 del secolo scorso sullo sfondo di una crisi del modello di organizzazione produttiva fordista, promuove l'affermarsi di uno studio che mette 2 K. Polanyi, C. Arensberg, H. W. Pearson (a cura di), Traffici e mercati negli antichi imperi: le economie nella storia e nelle teorie , Torino, 1978, p. 250. (I ed. originale: Trade and market in the early empires: economies in history and theory), Glencoe, Ill., 1957.
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assieme il contributo di economisti, sociologi, antropologici, storici, politologi e geografi, contribuendo in maniera significativa alla ricomposizione del sapere sociale. Un sapere sociale frammentato, gi à alla fine del XIX secolo, in molteplici discipline distinte, ognuna alla ricerca di una propria autonomia, un proprio metodo d'indagine e dei propri confini. Lo studio interdisciplinare avviatosi sulla forma distretto ha portato anche all’introduzione di nuovi strumenti di analisi, che hanno spinto a una nuova connessione tra le diverse istituzioni e tra i diversi livelli di studio. Ci ò ha permesso di ricostruire il meccanismo di funzionamento della macchina capitalistica nelle sue diverse istituzioni: la fabbrica, la societ à, la citt à, il costume, la famiglia ecc., «considerandola tutta insieme e nel movimento».
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In particolare, questo studio sui distretti comporta il “ritorno al territorio” nell'analisi economica, considerato come sistema socioeconomico, in cui si intrecciano, in maniera dinamica, relazioni sociali, tradizioni culturali e politiche, assetti istituzionali, e che co
abita e coevolve con una comunit à sociale specifica. Un territorio cattaneanamente inteso come «realtà costruita dall'uomo »
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, e non come semplice luogo geografico, fonte di costi di trasporto o economie di localizzazione.
La nascita del filone di studi sulla peculiarit à italiana distrettuale rappresenta, insomma, l'occasione per pensare a un nuovo rapporto tra economia e societ à, che permetta di considerare l'economia non pi ù una “scienza triste”, come affermava l'economista Thomas Carlyle.
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L'occasione per pensare, inoltre, a un approccio pi ù complesso e completo, che vede nel territorio la nuova unit à di analisi di un sapere sociale 3 G. Becattini, L. Burroni, Il distretto industriale come strumento di ricomposizione del sapere sociale, in «Sociologia del lavoro », n. 92, 2003.
4 C. Cattaneo, Scritti economici , a cura di A. Bertolino, Firenze, Le Monnier, 1956.
5 T. Carlyle, An occasional discourse on the negro question , 1849.
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“ricomposto” e che aveva caratterizzato, come mostro nei capitoli seguenti, il lavoro di autori classici come Alfred Marshall.
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I. La nozione di “distretto industriale” e i suoi fondamenti intellettuali: Becattini e Marshall.
«Definisco il distretto industriale come un'entit à socioterritoriale caratterizzata dalla compresenza attiva, in un'area territorialmente circoscritta, naturalisticamente e storicamente determinata, di una comunit à di persone e di una popolazione di imprese industriali. Nel distretto, a differenza di quanto accade in altri ambienti (ad es. la citt à manifatturiera), la comunità e le imprese tendono, per cos ì dire, ad interpenetrarsi a vicenda ››.
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Questa definizione, che descrive in maniera esauriente e completa il tipo ideale di distretto industriale, proviene dagli studi compiuti a partire dagli anni sessanta da Giacomo Becattini sul sistema teorico di Alfred Marshall (18421924), affiancati alla rilettura originale che egli ha saputo effettuare del pensiero economico e sociale dell'economista inglese. Il dibattito internazionale a cui questa nozione di distretto ha dato origine ha coinvolto numerosi campi disciplinari oltre a quello economico, data la ‹‹pluralità di significati variamente iscritti nel suo codice genetico ››
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e la dinamica compresenza, all'interno del concetto, di un condizionamento reciproco tra fondamenti economicoproduttivi e socioterritoriali, comportando una vera e propria sfida alla scienza economica standard, che escludeva dal suo campo d'analisi tematiche e fattori extraeconomici.
Occorre, innanzitutto, specificare che Becattini enfatizza la qualificazione di distretto industriale come “marshalliano” non per una semplice e riduttivistica volont à 6 Becattini, Riflessioni sul distretto industriale marshalliano come concetto socioeconomico , in «Stato e mercato », n. 25, 1989.
7 F. Sforzi, introduzione a Il distretto industriale di G. Becattini, Torino, Rosenberg & Sellier, 2000, p. 7.
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classificatoria o descrittiva, ma come strumento analitico e interpretativo dello sviluppo industriale italiano del secondo dopoguerra, facendone l'unità d'indagine dell'analisi economica e mostrando di aver colto, nell'opera dell'economista inglese, la trasformazione della formula “distretto industriale” da concetto puramente descrittivo, indicante una particolare fenomenologia industriale, a paradigma dello sviluppo e categoria della scienza economicosociale a tutti gli effetti.
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Questo grazie alla capacit à dello studioso fiorentino di saper leggere Marshall tra le righe, da una prospettiva nettamente diversa da quella degli interpreti tradizionali, che concentravano la propria attenzione solo sugli aspetti logicoformali, tralasciando quelli ideologici e inerenti alla filosofia sociale. Becattini, invece, considerandolo «un grande economista » proprio «perché non solo economista »,
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secondo la tesi di Mill, sa cogliere l'importanza del concetto di distretto all'interno del sistema teorico marshalliano analizzandolo alla luce delle fondamenta ideologiche e della filosofia sociale posti alla base di tale sistema. Inoltre fa riferimento alla peculiare concezione dell'economia politica esposta dall'economista inglese all'inizio dei Principi, che lo distanzia dall'allora corrente dottrina economica e che definisce la scienza economica come uno studio che si occupa non solo della produzione, dello scambio e della distribuzione della ricchezza, ma anche e soprattutto dell'uomo. Questo significa che, per Marshall, l'analisi economica non pu ò prescindere dalla filosofia sociale, che lo studio dei fenomeni economici pu ò essere 8 Come vedremo in seguito, questo non significa che il modello di sviluppo industriale italiano basato sulle piccole e medie imprese sia una semplice replica di quello inglese del XIX secolo: il riferimento all'originario quadro concettuale marshalliano riguarda lo strumento interpretativo e non i casi empirici.
9 T. Raffaelli, introduzione a Alfred Marshall e le origini della scuola di Cambridge , Firenze, Le Monnier Universit à, 2009, p. 23. La tesi è di Mill, citata dallo stesso Marshall e condivisa da Keynes proprio in riferimento a Marshall: «Non è probabile sia un buon economista chi non sia altro che economista» (Mill, cit. in Marshall, 1972, p. 1010). «In economia il Maestro deve possedere una rara combinazione di doti […] Deve essere in certo modo matematico, storico, statista, filosofo » (Keynes 1974, p. 162, corsivo nel testo).
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effettuato solo se la prospettiva della scienza economica si affianca a quella filosofica. Così egli afferma, infatti, nelle prime pagine dei Principi: ‹‹L'Economia politica o Economica è uno studio del genere umano negli affari ordinari della vita; essa esamina quella parte dell'azione individuale e sociale che è pi ù strettamente connessa col conseguimento e con l'uso dei requisiti materiali di benessere. Cos ì essa è da un lato uno studio della ricchezza; dall'altro, il pi ù importante, è una parte dello studio dell'uomo ››.
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Strettamente collegata a questo elemento portante del sistema marshalliano è la sua concezione del lavoro, inteso non come una mera merce, n é come semplice mezzo di conseguimento di ricchezza, ma come scopo essenziale della vita, che va a coincidere con la vita stessa; il lavoro come opportunit à per formare il carattere dell'uomo, sviluppare e migliorare le sue facolt à morali e intellettive, destare quelle spesso latenti, per il cammino verso il progresso. Dice Marshall: ‹‹Infatti, il carattere dell'uomo è stato plasmato dal suo lavoro quotidiano e dalle risorse materiali che egli ottiene con quel lavoro, pi ù che da qualsiasi altra influenza, salvo quella dei suoi ideali religiosi; […] I moventi religiosi sono pi ù intensi di quelli economici, ma raramente la loro azione diretta copre una parte cos ì grande della vita. Infatti le azioni con le quali una persona ottiene i mezzi di sussistenza occupano generalmente i suoi pensieri per la massima parte delle ore nelle quali la mente d à il suo meglio: in quelle ore il carattere dell'uomo si forma dal modo in cui egli usa delle sue facolt à nel lavoro, dai pensieri e dai sentimenti che il lavoro gli ispira, e dalle relazioni che lo uniscono a coloro che sono associati a lui nel lavoro, i suoi padroni o i suoi dipendenti ››;
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10 A. Marshall, Principi di economia , a cura di A. Campolongo, Torino, UTET, 1972, p. 65.
11 Ivi, pp. 65 –66.
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e ancora:
‹‹l'economica indaga […] sull'influenza che il lavoro esercita sul suo carattere››.
Sulla base di queste premesse è facile capire come lo studio dell'uomo, che Marshall si propone in quanto scopo della sua ricerca economica, non sia centrato sull'individuo considerato come entit à isolata, immobile e statica; non è uno studio dell'uomo fittizio (l'homo oeconomicus milliano o l'agente razionale dei neoclassici), ma uno studio dell'uomo reale, in carne e ossa, radicato nella storia, nella cultura e nel territorio della comunità a cui appartiene, plasmato dalle relazioni che si intrecciano tra lui e il suo ambiente. Un uomo dotato di istinti e passioni, moventi egoistici ed altruistici; un uomo formato, in bene o in male, dall'attivit à economica che esso svolge. Come dice Becattini:
«Le propensioni rilevanti dell’agente economico marshalliano, non sono le preferenze vuote e generiche del soggetto economico degli economisti classici, ma sono sempre propensioni di soggetti rappresentativi di aggregati sociali storicamente e geograficamente determinati ».
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In queste affermazioni, che segnano la distanza tra Marshall e i classici, possiamo scorgere il tema della «coevoluzione uomoambiente »
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, il quale racchiude il significato dei processi evolutivi che interessano sia l'individuo che gli ambiti territoriali, politici e socioculturali con cui interagisce. Di quest'ultimi, quello di maggiore importanza secondo Marshall è evidentemente, sulla base di quanto detto finora, quello della sfera produttiva, che occupa la maggior parte del tempo della vita dell'uomo, non perch é la 12 G. Becattini, Mercato e forze locali: il distretto industriale , Bologna, il Mulino, 1987, p. 26.
13 T. Raffaelli, Il ruolo del concetto di distretto industriale nel sistema teorico marshalliano , in «Sviluppo locale », vol. VIII, n.17, 2001, p. 2.
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ricchezza e la massimizzazione paretiana dell'utilit à siano i suoi obbiettivi principali, ma perché in questa sfera le relazioni economiche condizionano in modo rilevante la sfera extraeconomica (sociale, culturale, politica), condizionando e stimolando la crescita e il cambiamento dell'individuo.
Becattini, sullo sfondo di queste concezioni ideologiche del sistema teorico di Marshall, riesce a interpretare le pagine sull'organizzazione industriale del libro IV dei Principi dal punto di vista della societ à locale e non della mera localizzazione delle industrie; non solo imprese, quindi, all'interno del distretto industriale, ma comunit à di individui, cultura e valori, storia e territorio; non solo luoghi nel senso di spazi geografici, ma luoghi definiti da una storia, una cultura e un insieme di individui guidati da un sistema di tradizioni comuni; non mera agglomerazione industriale (caratteristica che definisce, invece, i “cluster”), ma comunit à industriale.
Dice lo studioso fiorentino: ‹‹Non si tratta […] semplicemente […] di una “forma organizzativa” del processo produttivo di certe categorie di beni, ma di un “ambiente sociale” in cui le relazioni fra gli uomini, dentro e fuori dai luoghi di produzione, nel momento dell'accumulazione come in quello della socializzazione, e le propensioni degli uomini verso il lavoro, il risparmio, il giuoco, il rischio ecc. presentano un loro peculiare timbro e carattere ››.
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Questa originale rilettura becattiniana di Marshall propone un nuovo modello teorico per l'interpretazione della realt à sociale, non basata pi ù sull'impresa come unit à d'indagine dell'economia industriale, ma sull'ambiente socio –territoriale in cui essa s'inserisce, e propone una nuova prospettiva da cui ogni fenomeno e ogni processo 14 G. Becattini, Mercato e forze locali: il distretto industriale , Bologna, il Mulino, 1987, p. 8.
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economico vengono considerati in relazione al territorio in cui si svolgono e alla societ à locale con cui interagiscono, prospettiva spesso ignorata dagli economisti. Un'industria non viene pi ù definita, secondo l'approccio distrettuale, semplicemente dalla tecnologia produttiva che la caratterizza, ma dalla sua comunit à locale, ci ò che quest'ultima produce e il modo in cui ne organizza la produzione; nell'analisi economica non si procede pi ù dall'industria al luogo in cui essa si instaura, ma dal luogo in cui vive ed è radicata la societ à locale al tipo di specializzazione industriale che essa realizza: la comunità locale preesiste all'industria. Dice Becattini, in uno dei suoi studi sulla realt à distrettuale toscana: ‹‹Altopascio si pu ò vedere, alternativamente, o come uno dei luoghi dove si va a localizzare l'industria alimentare, o come una comunit à della piana lucchese, che cerca di provvedersi di ci ò che non produce, specializzandosi in ci ò che sa fare meglio. Nel primo caso l'unit à di analisi è l'industria alimentare, di cui si studia la distribuzione spaziale, imbattendosi cos ì in Altopascio; nel secondo caso l'unit à di analisi è la comunit à di Altopascio, di cui si studia la struttura produttiva, imbattendosi cos ì nell'industria alimentare. Nel primo caso la realt à socio–economica ci appare come una rete di settori interconnessi, nel secondo come un mosaico di luoghi›› ;
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e ancora:
‹‹Prato is not a human appendix to its textile industry but it is the latter which is the productive projection of the citizens of Prato››.
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15 G. Becattini, Industria e territorio: riflessioni su un tema marshalliano , in G. Becattini, Scritti sulla Toscana, vol. I, La ricerca sul campo e la Libera Scuola di Artimino (1969 –2007), a cura di F. Sforzi, Firenze, Le Monnier, 2007, pp. 117 –118.
16 G. Becattini, Cittadinanza onoraria di Prato , note preparatorie al discorso tenuto in occasione dell'ottenimento della cittadinanza onoraria di Prato, unpublished.
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La riflessione teorica di Becattini (che è, allo stesso tempo, una proposta politica), muove, quindi, dalla critica delle categorie classiche dell'economia industriale (industria, settore, ramo), al fine non di eliminarle, ma di ridimensionarle. L'economista fiorentino cerca, nella sua analisi, delle categorie interpretative pi ù forti e appropriate, che siano in grado di considerare anche i fenomeni socioeconomici dello sviluppo industriale. Per questo egli ricorre a definizioni tratte dalla sociologia dei processi di sviluppo:
«[…] Ora è impossibile, io credo, studiare un processo di sviluppo senza tener conto (insieme, per dir cos ì, alle relazioni produttive) di questi fatti di psicologia collettiva. Quindi le definizioni “sociologiche”, che noi possiamo e dobbiamo ricavare a posteriori dall'osservazione della realt à produttiva, in quanto incorporino i succhi culturali di uno specifico itinerario storico, sono unità pi ù adatte (direi meglio adatte) allo studio di un certo, individuato, processo di sviluppo. […] Le definizioni sociologiche catturano un elemento, l'idea dei soggetti di far parte di una certa industria, che scaturisce dall'interno del processo sociale e che si muove, per una specie di viscosit à degli schemi mentali rispetto al moto delle circostanze “esterne”, ad un passo più lento ».
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Concludendo con riferimento alle parole di Sforzi, porre il distretto industriale come l'unità d'indagine dell'analisi economica significa mettere in discussione e ridefinire quelle tradizionali, come l'impresa e il settore, riconsiderandole rispettivamente come la proiezione esterna del progetto di vita dell'imprenditore e come un processo produttivo che ridisegna dinamicamente i propri confini, tecnologicamente stabiliti, con gli altri settori, al passo con la graduale differenziazione del processo produttivo in fasi pi ù 17 G. Becattini, Dal settore industriale al distretto industriale. Alcune considerazioni sull'unit à d'indagine dell'economia industriale , 1979, in G. Becattini, Il distretto industriale. Un nuovo modo di interpretare il cambiamento economico , Torino, Rosenberg & Sellier, 2000, p. 46.
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specializzate e della sua integrazione nella comunit à locale.
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18 F. Sforzi, introduzione a Il distretto industriale di G. Becattini, Torino, Rosenberg & Sellier, 2000, p. 7.
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II. L' Inghilterra dei distretti (XVIII XIX secc.).
In Inghilterra la nascita dei distretti ha giocato un ruolo fondamentale all'interno del processo di rivoluzione industriale (17501914). La formazione e lo sviluppo di questi distretti è stato il risultato di microprocessi verificatisi a livello regionale e subregionale, in continuit à con la tradizione delle gilde di origine medievale e dei piccoli sistemi manifatturieri artigiani preindustriali. È all'interno del contesto economico, politico e culturale dell'Inghilterra del diciottesimo secolo che nasce, quindi, il distretto come forma concreta di organizzazione industriale e come fenomeno socio
economico territorialmente localizzato, cos ì come è l'Inghilterra della fine del diciannovesimo secolo a rappresentare il contesto all'interno del quale si forma il concetto di distretto industriale ad opera degli studi di Marshall. Accanto ai tradizionali modelli di sviluppo industriale, basati sulla produzione di massa e sulle grandi fabbriche, si assiste alla formazione di modelli industriali alternativi, originatisi dal sistema delle piccole botteghe artigiane, basati sulla frammentazione del processo produttivo in fasi differenti e sulla specializzazione flessibile, capaci di introdurre innovazioni e competere sul mercato a livello internazionale. Le principali caratteristiche di un tale favorevole contesto di sviluppo per i distretti inglesi riguardano la posizione dominante dell'Inghilterra nel processo di industrializzazione e tutti i pi ù vasti effetti politici, sociali ed economici associati al suo status egemonico conquistato nell'ambito della politica e del commercio internazionale; nonch é la dotazione di risorse naturali strategiche e la presenza di un potere centrale legittimato e fautore dell'ideologia del laissez faire. Come sottolinea pi ù volte lo stesso Marshall nell'opera Industry and 17
Trade,
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fondamentale importanza riveste anche il carattere dinamico della classe media inglese, insediatasi nelle zone urbane periferiche, dotata di una forte identit à regionale, capace di riconoscere e sfruttare le ricche opportunit à offerte dal contesto inglese del periodo e dalla rivoluzione nei consumi , dotata di una cultura caratterizzata da intraprendenza economica, fiducia in se stessi, forte determinazione e indipendenza, spirito di cooperazione costruttiva, volont à di apprendere e imparare dagli altri.
La scoperta dell'importanza economica di tali distretti industriali da parte di Marshall trae origine da due fonti: le sue letture personali e i suoi viaggi attraverso le aree industriali inglesi a partire dal 1860 (in particolare, egli osserva lo sviluppo industriale degli idealtipi di distretti: Sheffield e Birmingham). Tra le prime possiamo considerare, innanzitutto, il manuale di economia politica dell'economista irlandese W. E. Hearn, Plutology. Theory of the efforts to satisfy human wants del 1864, con il suo capitolo sull'organizzazione industriale, e i First Principles di H. Spencer, anch'essi incentrati sul tema dell'organizzazione industriale. Interessanti ai fini dello studio marshalliano dei distretti inglesi sono da considerarsi anche gli scritti di R.W. C. Taylor sul sistema delle manifatture inglesi. Risulta di fondamentale importanza, tuttavia, sottolineare come nell'Inghilterra del XIX secolo il termine “distretto” fosse generalmente adoperato a scopo puramente descrittivo, per indicare una qualunque area geografica caratterizzata dal raggruppamento di attivit à industriali o professionali dello stesso tipo; un esempio palese di questa pi ù generale accezione di distretto industriale lo troviamo presente nella stessa Plutology. Sulla base di tale precisazione possiamo, dunque, ribadire che l'antecedente storico e intellettuale della trasformazione del “distretto” inteso come termine generico in “distretto” considerato come vera e propria categoria della scienza 19 A. Marshall, Industry and trade , 2th ed., London, MacMillan, 1919, p. 584.
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economicosociale è rappresentato da Alfred Marshall. Con riferimento alle parole utilizzate da Becattini,
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affermiamo che con Marshall il concetto di distretto industriale assume una forte caratterizzazione territoriale, uno «spessore sociale » e una «pregnanza culturale» che ne fanno l'oggetto di un esame in cui confluiscono «le specifiche competenze dello storico, del geografo, dell'economista, del sociologo e via continuando».
§ 1. Predecessori di A. Marshall nello studio dei distretti industriali.
§ 1.1. La “ Plutology” di W. E. Hearn.
Nel cap. XVII del suo scritto Hearn sostiene che, quando una comunit à abbastanza estesa di industrie si sia organizzata spontaneamente, si presenta un nuovo fenomeno: la stessa differenziazione che si verifica tra diverse occupazioni si verifica anche tra differenti luoghi. Le diverse branche di un'industria mostrano una forte tendenza a insediarsi in particolari distretti; ciascuno di questi distretti, in seguito, nel mentre acquisisce un suo carattere distintivo, diventa anche dipendente dagli altri distretti a cui è legato da rapporti commerciali ed economici. Hearn mostra che in Inghilterra questo fenomeno della localizzazione dell'industria sia particolarmente evidente, ancor pi ù per quanto riguarda la citt à di Londra: la manifattura del cotone, della lana, della seta, i lavoratori delle maglierie, delle industrie del ferro e del carbone, delle coltellerie e della terracotta e di molte altre occupazioni sono tutti localizzati nel proprio specifico distretto.
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20 G. Becattini, Mercato e forze locali: il distretto industriale , cit., pp. 4748.
21 W. E. Hearn, Plutology. Theory of the efforts to satisfy human wants , London, MacMillan, 1864, p. 305.
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Hearn nota che questo fenomeno di localizzazione industriale si manifesta anche a livello internazionale, presentandosi come una forma efficiente e spontanea della organizzazione industriale, basata sui vantaggi della divisione del lavoro e della specializzazione: l'abbassamento dei costi di produzione è sicuramente uno dei benefici principali di tale fenomeno industriale, in quanto le materie prime e l'energia ottenuta dal carbone o dall'acqua sono pi ù facilmente e pi ù economicamente ottenibili. Inoltre, il lavoro qualificato adatto ad un determinato tipo di industria tende ad essere richiamato da questi poli industriali localizzati, giovando ai produttori industriali direttamente (per quanto riguarda la presenza di un'adeguata offerta di lavoro specializzato corrispondente ai loro requisiti d'impiego) o indirettamente (per quanto riguarda la presenza di un'adeguata offerta di lavoro specializzato per la riparazione e la manutenzione dei macchinari). Infine, la specializzazione del lavoro all'interno dei distretti industriali favorisce un processo di continuo aumento dell'efficienza generale dell'industria.
§ 1.2. H. Spencer e la formazione dei distretti industriali.
Gli scritti spenceriani sull'organizzazione industriale e la loro matrice evoluzionista hanno esercitato una forte influenza, come vedremo, sugli studi marshalliani esposti nel libro IV dei Principi.
Spencer tratta in maniera dettagliata il tema dell'organizzazione dell'industria nei suoi First Principles , affermando che la formazione dei distretti industriali è un caso esemplare di organizzazione superiore del gruppo e presentando taluni esempi tratti dalla realt à industriale inglese del XIX secolo: Manchester e York con i loro distretti tessili, lo Staffordshire e le sue manifatture della ceramica. Spencer concentra la sua 20