7
INTRODUZIONE
Il Monte Amiata (1738 metri) è situato nella Toscana meridionale. A sud dell‟Arno
infatti, tra il mar Tirreno, la Valdichiana, e il Tevere, si trova una serie di rilievi con
forme più dolci e meno elevate rispetto ai monti appenninici. “In luogo delle catene
regolari ed allineate dell‟Appennino, gruppi montuosi sparsi emergono qua e là su basse
colline, raggiungendo solo nell‟isolato Monte Amiata i 1700 metri di altitudine”
1
.
“Di paesaggi veramente montani, in questo Antiappennino toscano, non vi è che il
vulcanico cono dell‟Amiata, quasi al confine laziale, che domina le valli dell‟Orcia, del
Paglia e del Fiora”
2
. L‟Amiata è quindi la „montagna per eccellenza‟ della Toscana
meridionale. Formatasi all‟inizio dell‟era quaternaria, si tratta di un “imponente cono
trachitico, sorto per violenza vulcanica su di un basamento arenareo e argilloso, castagni
e faggi lo rivestono sino alla vetta. Alla base della grande cupola trachitica,
permeabilissima, a contatto col piano impermeabile d‟argilla, sgorgano sorgenti,
abbondantissime e in gran numero, per tutta la fascia montana. La maggiore, diretta
verso mezzogiorno, forma il fiume Fiora; altre, per l‟Orcia, scendono nell‟Ombrone, e,
per la Paglia, nel Tevere”
3
.
Vicino alla fascia sorgiva, lungo un percorso di circa 50 chilometri, a un‟altitudine
variabile dai 600 agli 800 metri, sono collocati gli antichi paesi, i quali hanno appunto
sfruttato la ricchezza incomparabile delle sorgenti: Seggiano, Castel del Piano e
Arcidosso nel versante ovest, Santa Fiora nel versante sud, Piancastagnaio e Abbadia
San Salvatore nel versante est. Nei monticelli circostanti, “su poggi staccati ma non
molto distanti dalla montagna”
4
, si ergono piccoli paesi come Montegiovi,
Montelaterone e Monticello.
L‟Amiata è ricco di vegetazione: nella parte inferiore della regione amiatina, fino a
circa 600 metri, incontriamo la vite, l‟olivo, e qualche seminativo; salendo di altitudine,
dai 600 ai 1000 metri, troviamo il bosco di castagno; infine verso i 1000 metri possiamo
vedere il faggio, che occupa tutto l‟orizzonte superiore fino alla vetta. Faggete di grande
bellezza si trovano specialmente nel versante di tramontana. “Il manto verde
dell‟Amiata assicura produzione di ossigeno, acqua potabile, assetto idrogeologico e
rappresenta la più importante area forestale dell‟intera Toscana meridionale […]. La
successione delle fasce vegetazionali è nota:
- le faggete coprono il cono terminale, a partire dai 1000-1100 metri, per occupare
tutto l‟orizzonte superiore fino alla vetta;
- i castagneti si sviluppano tra i 600 ed i 1000 metri, prevalentemente su rocce
vulcaniche, anche se l‟areale naturale è stato spostato dall‟uomo su terreni non
vulcanici;
- i boschi misti di latifoglie ed i querceti occupano due distinte serie a partire da
900-1000 metri. La prima serie si estende su suoli non vulcanici, grosso modo nella
stessa area di espansione altimetrica del castagno, fino a 600 metri, e la sua
vegetazione naturale è rappresentata da boschi misti di latifoglie e decidue a
soprassuolo legnoso. In passato questi boschi apparivano fortemente degradati dal
pascolo, dal legnatico, o dalla utilizzazione per gli impianti minerari; la crisi delle
1
G. BARBIERI, Toscana, Utet, Torino, 1964, pag. 58.
2
Ibidem.
3
Z. CIUFFOLETTI e P. NANNI (a cura di), Ildebrando Imberciadori. Studi su Amiata e Maremma,
Accademia dei Georgofili, Firenze, 2002, pag.7.
4
Ibidem.
8
miniere e contemporaneamente della legna da ardere, ha facilitato un‟evoluzione di
alcuni boschi verso le fustaie di alto fusto. Il passaggio alla serie successiva dei
querceti a roverella avviene gradualmente, sotto i 700 metri, negli spazi lasciati
liberi dall‟agricoltura e dalle colture arboree (olivo e vite). Il bosco a roverella
appare generalmente piuttosto degradato dai tagli troppo frequenti e dal pascolo che,
particolarmente in passato, vi è stato esercitato con notevole intensità;
- nella fascia di alta collina (600-700 metri) incontriamo la vite, l‟olivo e qualche
seminativo”
5
.
“Il faggio dà legname per l‟artigianato e legna per il fuoco; il castagno, legname da
costruzione, marroni da vendere, castagne per la polenta che, d‟inverno, sostituisce
molto spesso il pane. Qui è l‟olio, il vino, la cui esuberanza fornisce i mezzi per
l‟acquisto dei cereali mancanti; il granoturco si raccoglie fin sopra gli 800 metri, la
patata, sino ai faggi. Qui sono frutti di varia specie: dal pesco al fico, nella parte bassa
delle vigne, al pero, ciliegio, noce, melo: il loro sapore è squisitamente dolce per la
singolare ricchezza potassica del terreno. Qui sono acque solfuree, acidule,
medicamentose; farine fossili, terre gialle, mercurio”
6
.
L‟Amiata è una regione di antichissimo popolamento, grazie alle sue risorse
idrografiche, forestali, e minerarie: già al tempo degli etruschi le circostanti città di
Chiusi, Roselle, Saturnia, e forse Sovana, avevano avviato un‟intensa industria
estrattiva, in primo luogo per quanto concerneva sostanze coloranti; sicuramente
vennero sfruttate anche le acque termali di Bagni Vignoni e Bagni San Filippo.
In questa terra ricca di risorse agricole e minerali, nell‟VIII secolo giunsero i monaci
Benedettini, e successivamente i conti Aldobrandeschi, che se ne divisero il dominio
fino al principio del XIII secolo.
“La fondazione dell‟abbazia benedettina di San Salvatore al Monte Amiata, avvenuta
verso la metà dell‟ottavo secolo, rispondeva alle necessità strategiche del tardo regno
longobardo, quando il bisogno di collegare stabilmente la Tuscia all‟area padana si fece
più impellente, anche alla luce del progetto di includere una volta per tutte Roma
nell‟area di influenza della corona”
7
(Liutprando, re dal 712 al 744, intendeva infatti
realizzare una strada a lunga percorrenza tra centro e nord Italia). Il monastero di
San Salvatore, collocato sulla pendice orientale del Monte Amiata, sorse dunque in un
periodo compreso negli anni di regno di Rachis (744-749) e Astolfo (749-756)
- successori di Liutprando - in qualità di abbazia regia, sorta su un territorio regio, e con
un fondo economico da parte regia, con lo scopo di sorvegliare lo stretto passaggio tra
le valli del Paglia e del Formone. Dal monastero si poteva inoltre vigilare la strada per
Roma, che diventava ogni anno sempre più importante; senza dimenticare che questa
era terra di confine con lo Stato della Chiesa, presso Acquapendente (al ponte della
Paglia), e più tardi presso Radicofani.
Gli Aldobrandeschi, penetrati gradualmente nel cuore della montagna a partire dai
loro feudi di Roselle e Sovana, conobbero una fase di grande splendore verso la metà
del IX secolo, con la creazione della Contea Aldobrandesca (secoli IX-XIII), e poi
Contea di Santa Fiora (fino al XIX secolo).
Comunque il maggiore sviluppo della regione, sia economico che demografico,
si registrò intorno al Mille, quando l‟abbazia benedettina di San Salvatore e i conti
Aldobrandeschi furono in grado di dominare l‟intera regione giuridicamente e
5
L. NICCOLAI, i Boschi dell’Amiata, in “Amiata, Storia e Territorio”, agosto 1990, anno III, n° 8,
pp. 40-41-42.
6
Z. CIUFFOLETTI e P. NANNI (a cura di), Ildebrando Imberciadori, op. cit., pag. 8.
7
M. NUCCIOTTI, L’Amiata nel Medioevo (secoli VIII-XIV), in Z. CIUFFOLETTI (a cura di),
Il Parco Minerario dell’Amiata. Il Territorio e la sua Storia, Edizioni Effigi, Arcidosso, 2006, pag. 162.
9
patrimonialmente, e furono inoltre in grado di organizzarla economicamente mediante
la creazione di numerose comunità. È proprio in questo periodo che l‟Amiata viene
lambita dalla strada longobarda per antonomasia, la via Francigena o Romea, la più
importante strada europea (tra San Quirico d‟Orcia e il Paglia, al confine con lo Stato
Pontificio).
Con l‟avvento dei monaci Benedettini, e dei conti Aldobrandeschi “l‟Amiata nasce
alla vita moderna”
8
, e il suo popolamento si accentua grazie a opere di disboscamento e
dissodamento agrario, e grazie alla creazione di villaggi, molti dei quali
fortificati (castelli), di chiese e di conventi. L‟ubicazione degli antichi insediamenti
amiatini è comunque sempre da collegare alla presenza delle sorgenti: per Abbadia
San Salvatore quella del Formone; per Piancastagnaio quelle del Pagliola, Minestrone, e
Senna; per Santa Fiora quella del Fiora; per Castel del Piano e Arcidosso quella
dell‟Ente ecc..
Nel XII secolo comparvero sulla scena le due città di Siena, da nord, e di Orvieto, da
sud. Entrambe le città erano attratte dalle risorse e dalle possibilità agricole e minerarie
del territorio, nonché dalla posizione strategica dell‟Amiata sia per il passaggio di
merci, che di uomini e pellegrini diretti verso Roma. Gli stessi Aldobrandeschi, che con
il tempo erano riusciti a sconfiggere la potenza politico-giurisdizionale del monastero
benedettino, tra i secoli XIII e XV furono costretti a riconoscere la sovranità della città
di Siena, con la sola eccezione della Contea di Santa Fiora rimasta agli Aldobrandeschi,
e passata poi agli Sforza, e quindi agli Sforza Cesarini. Siena rimarrà l‟incontrastata
signora dell‟Amiata: “ a tramontana, Siena poteva servirsene per difendere e vigilare la
sua valle dell‟Orcia; ad oriente per dominare, in pace e in guerra, la via di Roma; a
mezzogiorno, per fronteggiare lo Stato della Chiesa, premente ai confini; ad occidente,
per incombere sulla preziosa terra del mare: la Maremma”
9
.
Da allora, mentre la Maremma con la sua economia cerealicolo-pastorale estensiva
rimase estranea - sia per l‟assenza di urbanizzazione, sia per l‟assenteismo del governo
di Siena prima, e di quello granducale in un secondo momento - allo sviluppo che
interessò la parte centro-settentrionale della Toscana (la più fittamente urbanizzata),
invece “l‟Amiata continuò per tutta l‟età moderna ad essere caratterizzata da strutture
economico-sociali riconducibili alle vere e proprie comunità di villaggio, società coese
di piccoli o piccolissimi proprietari che traevano le loro risorse soprattutto dalla
fruizione regolamentata dei beni comuni come boschi e pascoli, castagneti e magre aree
da semina”
10
.
Non bisogna tuttavia credere che l‟Amiata, con il suo carattere di isola montana,
costituisse un mondo „separato‟ dalla Maremma; anzi una complementarietà sia
economica che umana si può riscontrare sin dai secoli XIII-XIV: soprattutto durante la
prima stagione estiva, la Maremma richiamava da ogni parte operai a mietere e trebbiare
il grano, e allora anche la popolazione amiatina scendeva nella pianura malarica; senza
dimenticare i pastori che in inverno scendevano in Maremma al seguito dei bestiami
transumanti, e ancora boscaioli, e operai specializzati nell‟industria siderurgica e in
quella mineraria.
La popolazione montana, anche quando fu costretta a riconoscere il potere feudale di
famiglie aristocratiche cittadine, riuscì sempre a controllare le sue modeste risorse
ambientali: acque, pascoli, e soprattutto boschi che fornivano legna da ardere e legname
da costruzione, senza tralasciare mai la grande importanza del castagno vero e proprio
8
Z. CIUFFOLETTI e P. NANNI (a cura di), Ildebrando Imberciadori, op. cit., pag. 8.
9
Ibidem.
10
L. ROMBAI, La Geografia del Parco Minerario dell’Amiata e delle sue Comunità, in
Z. CIUFFOLETTI (a cura di), Il Parco Minerario dell’Amiata, op. cit., pag. 104.
10
„albero del pane‟ (la farina di castagne si poteva trasformare in polenta, o barattare in
cereali con i contadini della Maremma). E neppure la conquista dell‟Amiata, avvenuta
tra duecento e quattrocento a opera di Siena, riuscì a turbare gli equilibri sociali ed
economici formatisi in epoca feudale; anzi la sicurezza garantita dal potere cittadino
permise ai comuni rurali amiatini di ottenere statuti locali, che assicuravano loro il
controllo delle risorse ambientali: i comunisti locali potevano così godere dei cospicui
beni collettivi (boschi, castagneti, pascoli, acque).
Anche al momento della conquista dello Stato di Siena (1555) da parte del granducato
mediceo, l‟Amiata mantenne le sue caratteristiche di regione densamente popolata e
dotata di un‟organizzazione agro-silvo-pastorale, con godimento collettivo di vaste
estensioni sode a pastura, di estensioni boschive, e di spazi seminabili; sistema integrato
- come si è già osservato - da migrazioni stagionali verso la Maremma, o al seguito dei
bestiami transumanti, o richiamati dai cicli della cerealicoltura, e integrato anche da
occupazioni artigianali.
In epoca rinascimentale e granducale si assisterà alla formazione della piccola
proprietà coltivatrice. Gran parte dei beni feudali e comunali furono infatti distribuiti fra
le famiglie residenti: nel 1510 a Santa Fiora per volontà del conte Federico Sforza; alla
fine del 1500 a Castel del Piano, dove circa quattrocento ettari di castagni della Selva di
Gravilona furono suddivisi in numerose prese e preselle, e dati a livello ai comunisti,
con l‟obbligo di migliorarli, e di seminare certi generi di prima necessità familiare.
“Altra base del piccolo possesso erano i vasti patrimoni di „signori‟ e di Enti, religiosi o
laici, che concedevano le proprie terre “a linea” a coltivatori diretti”
11
.
Nel corso del 1700 si assisterà poi a un vero e proprio processo di sistemazione della
proprietà. La popolazione amiatina si troverà infatti a risolvere un duplice problema:
aumentare la produzione degli alimenti necessari alla famiglia crescente (nel settecento
crescendo la popolazione, cresce anche la fame), e “diventare sicuri possessori, se non
proprietari, della terra coltivata con le proprie mani, senza esser costretti, possibilmente,
a lasciare il proprio paese in cerca di lavoro e denaro nella vicina, mortale Maremma”
12
.
Quando nei primi decenni del settecento l‟amministrazione centrale di Firenze svolgerà
un‟indagine per valutare le condizioni di vita degli abitanti delle campagne, le comunità
amiatine risulteranno paralizzate sul piano finanziario: c‟erano infatti comunità e luoghi
pii che avevano un debito di oltre 3.000.000 verso l‟amministrazione centrale di
Grosseto, a causa di tasse arretrate da moltissimo tempo e a causa dei lavori pubblici
compiuti; d‟altro canto queste comunità e luoghi pii avevano un ingente credito verso i
comunisti, per lo più miserabili braccianti, che da lungo tempo non avevano più pagato
il canone della loro presella. L‟amministrazione centrale di Firenze decise allora di
intervenire dichiarando estinti tutti i debiti che le comunità avevano verso gli uffici
centrali, e ordinando alle singole amministrazioni comunali di recuperare parte dei loro
crediti verso i privati: il debito fu completamente condonato ai miserabili!
Nel 1732 bisognerà affrontare un altro grave problema: molti capifamiglia coltivavano
in qualità di livellari - sia pure a tempo indeterminato - terreni del comune appresellati.
Queste prese che erano una volta terreno spolto e macchioso, erano ormai divenuti
castagneti, vigneti e oliveti, piantati illegalmente dai possessori su terreno comunale, e
conseguentemente di proprietà comunale. Fu per questa ragione che con rescritto del
27 settembre 1732 S. A. R. risolse il problema del possesso, riconoscendo il diritto di
proprietà di castagni, viti, e olivi, a coloro che li avevano coltivati e piantati, sia pure su
suolo comunale. I castagneti di proprietà comunale venivano dunque concessi ai
possessori e a tutti i loro discendenti maschi all‟infinito, dietro pagamento di un canone
annuo pari a dieci soldi per ogni staio di terreno. “Si fa, così, sempre più stridente un
11
Z. CIUFFOLETTI e P. NANNI (a cura di), Ildebrando Imberciadori, op. cit., pag.275.
12
Ivi, pag. 273.
11
contrasto di interessi: da una parte non si vorrebbero togliere generali servitù in favore
di tutti e specialmente dei più poveri; dall‟altra si riconosce che non può una persona,
anche nella sua figura di „comunista‟, proprietario o no di bestiame, danneggiare il
lavoro vivo di un‟altra persona”
13
.
Nel 1764 si giungerà a una soluzione: nelle concessioni a linea rimanevano la servitù
di ruspo e di pascolo, ma i possessori allineati potevano cingere con siepi le vigne, gli
oliveti, e i campi sementati a grano o altro. Insomma, ormai veniva riconosciuta ai
lavoratori la proprietà del frutto del loro lavoro, anche se compiuto su una terra di
proprietà altrui, ma di cui essi avevano il possesso. Ancora non si aveva il dominio
completo di una terra; per averlo dovrà “sparire la distinzione tra la separazione del
pascolo dal suolo e della pianta dal suolo”
14
(in modo da impedire l‟intrusione di
persone e animali nel proprio terreno coltivato), tuttavia la proprietà era ormai in gran
parte privata, sotto forma di possesso livellare, o sotto forma di proprietà vera e propria.
Negli anni ‟70 del settecento sarà soprattutto il granduca Pietro Leopoldo a rafforzare
le piccole aziende familiari, alienando i beni comunali, e quelli degli enti religiosi (per
esempio l‟abbazia di San Salvatore sarà soppressa nel 1782). Con il regolamento
dell‟11 aprile 1778 si ordinerà alle comunità di vendere e distribuire anche le bandite,
che erano sempre state un patrimonio di uso comune, e una delle più importanti fonti
per le finanze comunali: anche questa legge leopoldina andava incontro alla „fame‟ di
terra!
Insomma, alla fine del „700 i paesi amiatini erano organizzati per lo più a piccola o
media proprietà; la popolazione integrava poi le proprie rendite con piccole industrie di
artigianato, con lavori stagionali in Maremma ecc.. E la popolazione montana riusciva a
controllare le sue risorse - come del resto aveva sempre fatto, non soltanto nell‟età
moderna, ma anche in quella medievale - per via della scarsa penetrazione in quest‟area
dei capitali cittadini, “organizzati in investimenti fondiari e agrari, che riguardavano la
costituzione di poche fattorie gestite a mezzadria”
15
(gli unici poderi a mezzadria si
trovavano lungo le strade di Santa Fiora, Abbadia San Salvatore e Arcidosso).
“La struttura produttiva amiatina, fatta di economie familiari precarie alla continua
ricerca di sbocchi occupazionali e risorse per la sopravvivenza, usava, con le piccole
aziende polimeriche, tutte le risorse ambientali stratificate dalle fasce inferiori fino ai
crinali: i terreni ridotti a coltivazione per le modeste produzioni di cereali, legumi ed
alberi da frutta (e dal primo Ottocento della patata), oltre che, ove possibile, della vite e
dell‟olivo, le piantagioni dei castagni da frutto, le foreste di specie decidue come cerri e
faggi e localmente quelle di abeti (sempre e ovunque, almeno fino alla metà del XIX
secolo, sfruttati più per il pascolo che per ricavarne legname da costruzione e da ardere
o carbone), e finalmente i prati-pascolo spesso ricavati artificialmente con il
disboscamento, con svariati appezzamenti di proprietà o possesso enfiteutico o almeno
con diritti d‟uso che gravavano i terreni di terzi”
16
. Sicuramente l‟allevamento ovino, e
la coltivazione del castagno che controbilanciava la scarsità dei cereali, furono i
fondamenti economici della regione, e continuarono a svilupparsi sino all‟inizio del
XX secolo; senza dimenticare che la grande ricchezza delle acque correnti e dei boschi
da legna e carbone, aveva favorito l‟attività siderurgica fin dal basso medioevo: attività
praticata in piccole ferriere a forza idraulica ad Arcidosso, ad Abbadia San Salvatore, al
Vivo, a Seggiano, ecc.. Inoltre, “all‟Amiata dei piccoli proprietari coltivatori spetta la
13
Ivi, pag. 281.
14
Ivi, pag. 284.
15
L. ROMBAI, La Geografia del Parco Minerario dell’Amiata e delle sue Comunità, op. cit. pag. 114.
16
Ivi, pag. 109.
12
tradizionale specificità della coltura intensiva ed esclusiva - oggi si dice specializzata -
della vite e dell‟olivo, specialmente nei territori di Seggiano e Castel del Piano”
17
.
Possiamo dunque affermare che, grazie alla piccola proprietà, grazie alla versatilità
professionale e alla mobilità degli abitanti, fino alla seconda metà del XVIII secolo, la
montagna, pur non essendo ricca, non aveva però bisogno di particolare assistenza
pubblica: aveva si “un ruolo subordinato, ma relativamente autonomo di rifornimento di
materie prime e fonti energetiche”
18
. Proprio per questo carattere relativamente
autonomo, l‟area amiatina si distingueva dalle regioni del latifondo e della mezzadria a
lei prossime, dove precarietà e miseria facevano aumentare a dismisura il ceto dei
sottoproletari: una massa sempre crescente di braccianti, detti pigionali o giornalieri,
spesso caduti dal ruolo di mezzadri, vagava per la campagna toscana in cerca di un
ricovero, senza avere né il denaro per pagare la pigione di una casupola, né di che
campare; tutto ciò determinò sempre più il sovrappopolamento delle zone fertili e
produttive, e l‟abbandono delle zone più desolate, mentre questi poveri vaganti a sciami
nella campagna e cacciati dappertutto, languivano nella miseria.
La riorganizzazione amministrativa delle comunità, l‟abolizione dei vecchi residui
feudali, e in primo luogo l‟alienazione dei beni boschivi e pascolativi degli enti religiosi
e comunali - provvedimenti attuati nella seconda metà del XVIII secolo - poco a poco
introdussero innovazioni nel tessuto sociale, economico, e territoriale dell‟Amiata, pur
avendo qualche effetto negativo come la rottura “degli equilibri territoriali sui quali si
reggeva la quota meno fortunata della società montanina”
19
. Infatti con la
privatizzazione dei demani collettivi e l‟abolizione degli usi civici sui beni privati, si
assiste a un processo di proletarizzazione dei ceti meno abbienti (che fino a questo
momento erano sempre sopravvissuti fruendo dei terreni comuni), e invece a un
aumento di potere di alcuni esponenti del notabilato e della borghesia montanina;
furono favoriti anche i possidenti locali.
Per quanto concerne i beni comunali, bisogna comunque ricordare che, nonostante le
comunità fin dal XVI secolo avessero sempre concesso alle famiglie di agricoltori un
numero cospicuo di terre a livello, anche le appropriazioni indebite ad opera dei
„potenti‟ furono numerose a partire dalla seconda metà del XVII secolo. Queste
usurpazioni furono apertamente denunciate dalle comunità a cominciare dal
XVIII secolo.
Insomma le alienazioni di castagneti, e di terreni a bosco e a pascolo, perpetrate dal
governo pietroleopoldino, indubbiamente avvantaggiarono molti piccoli e medi
proprietari amiatini; d‟altro canto, però, con la riduzione degli usi civici si ridussero
anche i mezzi di sussistenza di molti altri piccoli proprietari.
La società amiatina continuò a essere incardinata sull‟agricoltura e sulla piccola
proprietà (spesso non autonoma) - con il castagno che rappresentava la base primaria
dell‟alimentazione - durante tutta la prima parte dell‟ottocento, ma potremmo dire anche
nella seconda parte del secolo. Dai dati ricavati dal censimento del 1841, risulta infatti
che oltre il 74% dei capifamiglia erano dediti all‟agricoltura, pur essendo sempre
costretti a periodiche migrazioni in Maremma. Tratto quest‟ultimo destinato a protrarsi
nel tempo: la popolazione amiatina scendeva in Maremma durante la breve fase della
mietitura, nel mese di giugno, ma soprattutto in autunno per dicioccare e seminare i
17
Ivi, pag. 108.
18
C. GREPPI (a cura di), Quadri Ambientali della Toscana, vol. II, Paesaggi delle Colline, Marsilio
Editori, Venezia, 1991, pag. 9.
19
L. ROMBAI, La Geografia del Parco Minerario dell’Amiata e delle sue Comunità, op. cit. pag. 114.
13
terreni incolti (la lunga campagna autunnale terminava a dicembre, e rendeva necessario
il ritorno in Maremma al momento della raccolta del grano).
Il popolamento montano sempre più denso, e le scarse possibilità di lavoro, a partire
dalla seconda metà del XIX secolo determinarono un allargamento dell‟emigrazione
stagionale, dirigendola anche verso altre mete italiane, e non solo: Sardegna, Corsica,
Francia ecc.. “Questi trasferimenti si originavano - dai tempi moderni e contemporanei,
fino alla prima metà del XX secolo - soprattutto per taglio e carbonizzazione di boschi,
per semina e soprattutto per mietitura e trebbiatura dei cereali, per raccolta delle olive,
per lavori di bonifica e transumanza armentizia”
20
.
Tra ottocento e novecento, gli equilibri locali furono sempre più messi in crisi dalla
grande crescita demografica (determinata dal forte incremento naturale, che
compensava il movimento migratorio), e infine dalla nascita e sviluppo dell‟industria
mineraria (estrazione di mercurio), che diverrà la più importante fonte di occupazione
per la popolazione amiatina, fino alla chiusura delle miniere avvenuta nel 1976. Bisogna
tuttavia ricordare che la miniera non rappresentò un settore separato dal mondo
agricolo: i minatori continuarono, infatti, a coltivare intensamente i loro piccoli pezzi di
terra - vigne, oliveti, orti - nel tempo libero; mentre l‟estrazione e la lavorazione del
cinabro continuarono a richiedere quantitativi ingenti di legname da costruzione, ma
soprattutto da ardere (con conseguenze anche devastanti).
La saturazione dell‟economia agro-silvo-pastorale (il settore era ormai saturo a causa
del continuo frazionamento della proprietà fondiaria), e la crisi mineraria (la quale dette
le prime avvisaglie negli anni ‟20 del novecento, per esplodere nel 1931-32, e protrarsi
per l‟intero decennio), portarono le amministrazioni locali e quella statale a un tentativo
di diversificazione produttiva incentrato a favorire lo sviluppo turistico. Fu allora che i
paesi principali si dotarono di alberghi e strutture di ristoro, e fu allora che vennero
costruite strade rotabili che da Seggiano, Castel del Piano, Arcidosso, Santa Fiora, e
Abbadia San Salvatore conducevano fino alla vetta della montagna. Negli anni „50-‟70
del novecento con il boom economico, si assisterà poi alla realizzazione di un‟edilizia
turistica tutta attorno ai vecchi centri abitati (costruzione di seconde case).
A partire dall‟ultimo dopoguerra si registrerà comunque un‟inversione di tendenza per
quanto concerne il popolamento: la regione amiatina diventerà area di forte esodo, e
comincerà l‟abbandono delle campagne in cerca di lavoro e di migliori condizioni di
vita. Tutt‟oggi la popolazione amiatina continua a diminuire e a invecchiare.
I caratteri strutturali della regione amiatina - tra seicento e ottocento - emergono in
maniera nitida dalle relazioni effettuate in tutte le comunità dello Stato Senese dal
Senatore Auditore Bartolomeo Gherardini (1676-1677), conservate manoscritte presso
l‟Archivio di Stato di Firenze nel Fondo Mediceo del Principato, filze 2072-2073; dalle
relazioni dell‟Auditore Generale Stefano Bertolini (1761), conservate manoscritte
presso l‟Archivio di Stato di Firenze nel Fondo Segreteria di Finanze-Affari ante 1788,
filze 1009-1010-1011; dalle relazioni del Visitatore Generale Giovanni Cristiano
Miller (1766-1769), conservate manoscritte presso l'Archivio di Stato di Firenze nel
Fondo Segreteria di Finanze-Affari ante 1788, filze 720-721-722-725-726; dalle
relazioni del Funzionario Granducale Francesco Dini (1786-1787), conservate
manoscritte presso l‟Archivio di Stato di Firenze nel Fondo Segreteria di Finanze-Affari
ante 1788, filza 1020; e dagli atti preparatori del Catasto Particellare Toscano (1825),
conservati manoscritti presso l‟Archivio di Stato di Firenze nel Fondo Catasto Generale
20
Ivi, pag. 123.
14
Toscano. Serie Rapporti di Stima, e Serie Repliche dei Gonfalonieri ai quesiti agrari,
filze 853-854-855-857-858-886-887-888.
Tutti questi documenti relativi la zona amiatina vengono presentati in Appendice: la
trascrizione dei testi è integrale, senza tagli, né modifiche. Vi può essere qualche errore
di interpretazione a causa della grafia talvolta poco comprensibile.
La storia delle „visite amministrative‟ nello Stato Senese prende avvio intorno alla
metà del XVI secolo, pochi anni dopo la conquista di Siena da parte dei Medici (1555).
“Fin dal 1572-73, infatti, il granduca Cosimo I dei Medici, che da pochi anni aveva
fondato il Granducato (1569), aggiungendo lo Stato Nuovo di Siena allo Stato Vecchio
di Firenze, dette il via alle „visite amministrative‟ nella nuova e poco conosciuta realtà
senese che - condotte ad intervalli assai irregolari fino alla seconda metà del XVIII
secolo - costituirono per il nuovo potere granducale uno strumento essenziale di
conoscenza e di controllo sulla vita di quel lontano (dalla capitale Firenze, anche per lo
stato disastroso della viabilità) territorio”
21
.
Insomma, cominciando da Cosimo I, le „visite amministrative‟ furono commissionate
dai granduchi a funzionari politici, e costituirono per il governo uno strumento
fondamentale per conoscere la situazione politica, economica e sociale dello
Stato Senese. Difatti le visite erano volte “a riconoscere lo stato e grado nel quale le
comunità si ritrovavano”, come dice un‟anonima informazione seicentesca; in alcuni
casi esse si limitarono a semplici ispezioni sui sistemi e sugli uffici amministrativi
locali, e sulle condizioni delle fabbriche pubbliche (come mulini, granai, cisterne,
fontane, palazzi potestarili, chiese ecc.), ma in altri casi i visitatori rivelarono anche dati
più prettamente economici, come la qualità del suolo e il suo uso, la quantità dei
raccolti, il numero dei faccendieri, lo stato della viabilità, e più in generale i bisogni
delle varie comunità. Insomma, le relazioni delle visite che ci sono pervenute
costituiscono una fonte assai interessante per ricostruire la storia delle comunità
maremmane e più in generale senesi, prima sotto i Medici e successivamente sotto i
Lorena, poiché esse caratterizzano gli anni della Reggenza (1737-1765) e i primi anni
del granducato di Pietro Leopoldo. Soprattutto nel XVIII secolo “numerose furono le
deputazioni che per ordine dei granduchi o del Consiglio di Reggenza si recarono a
visitare la Maremma con l‟obbligo di descriverne lo Stato in dettagliate relazioni.
Proprio il contatto diretto con i luoghi e le osservazioni presentate al governo sui lavori
effettuati e da fare, stimolarono più d‟uno ad esporre le proprie idee sul possibile
miglioramento di quel paese in un corpo organico di memorie, leggi e proposizioni”
22
.
In un primo tempo le commissioni di visita furono composte esclusivamente da
funzionari amministrativi, ma con la visita di Francesco Cantagallina e Alessandro
Bartolotti nel 1639, entrarono a far parte di tali commissioni anche tecnici, ossia
ingegneri, architetti, e matematici, “per prendere diretta cognizione delle mediocri realtà
fisico-umane e per prospettare al governo i rimedi più idonei, onde garantire lo
sfruttamento razionale delle risorse territoriali, e insieme per favorire il loro
„risorgimento‟ sociale e civile. Da queste indagini dirette sul terreno scaturì
l‟acquisizione di un corpo monumentale, e in genere approfondito e originale, di
conoscenze sull‟organizzazione globale del territorio e sui più importanti nodi
problematici. Queste inchieste e relazioni furono utilizzate, in buona parte almeno, per
21
L. ROMBAI, Geografia e Statistica nell’Italia Preunitaria, in A. LOI e M. QUAINI
(a cura di), Il Geografo alla Ricerca dell’Ombra Perduta, Edizioni dell‟Orso, Alessandria, 1999,
pag. 77.
22
D. BARSANTI, Progetti di Risanamento della Maremma Senese nel sec. XVIII, in “Rassegna
Storica Toscana”, XXV, 1979, pag. 27.
15
l‟elaborazione di numerosi provvedimenti legislativi e per la progettazione di numerosi
lavori pubblici”
23
.
Ad esempio, nella prima visita compiuta in Maremma (1572-73), Francesco Rasi
d‟Arezzo, auditore fiscale dello Stato di Siena, riferisce dell‟organizzazione territoriale
della Maremma nel suo insieme, facendo emergere una realtà arretrata, dominata dalla
cerealicoltura estensiva e dal pascolo brado, rilevando talora la presenza di
un‟agricoltura più sviluppata nelle campagne suburbane e periurbane, destinata però
a venire meno con la grave depressione economica divampata tra cinquecento e
seicento.
Numerose saranno le visite successive: il funzionario Clemente Piccolomini in
Maremma (1588), il funzionario Cosimo Acciaiuoli nello Stato Senese (1592),
Rinuccini in Maremma (1600), Fabiano Spini nello Stato Senese (1604), Carlo
Corbinelli in Maremma (1615), Sebastiano Guidotti e Alessio Beccherini in
Maremma (1621), gli ingegneri architetti Francesco Cantagallina e Alessandro
Bartolotti e i funzionari Guglielmo Gargiolli e Pietro Petruccini in Maremma (1639), il
funzionario Bartolomeo Gherardini e l‟ingegnere architetto Giuliano Ciaccheri nello
Stato Senese (1676-77), il funzionario Leonardo Astudillo Carillo in Maremma
(1694-95), il funzionario Aurelio Sozzifanti e il matematico Guido Grandi in
Maremma (1715), il funzionario marchese Malaspina e l‟ingegnere architetto Giuseppe
Montucci in Maremma (1723). Importanti - sotto i Lorena - saranno, anche le visite di
Stefano Bertolini nello Stato Senese (1761), del „visitatore generale di Maremma‟
Giovanni Cristiano Miller nello Stato Senese (1766-69), e di Francesco Dini nello Stato
Senese (1786-87), di cui si parlerà in seguito.
Un ruolo importante, in questo periodo, ebbero anche le visite dei
geografi-naturalisti-viaggiatori: le loro ricerche “mirano con coerenza e lucidità ad un
esame dei rapporti uomo-ambiente e dei rapporti risorse-popolazione, e infine ad una
considerazione sopra i modi d‟intervenire con le istituzioni in atto, per rendere più
razionali questi rapporti”
24
. Tra questi possiamo ricordare Giovanni Targioni Tozzetti
(negli anni „40-‟50 del „700) con le Relazioni di alcuni viaggi fatti in diverse parti della
Toscana, e Giorgio Santi (negli anni ‟90) autore di tre resoconti su viaggi compiuti nel
Monte Amiata e nel Grossetano
25
.
Per concludere possiamo ricordare le visite granducali, prototipo di tutte le „gite
agrarie‟, compiute da Pietro Leopoldo in persona (granduca di Toscana dal 1765 al
1790), e delle quali ci rimangono i Diari dei viaggi e le celebri Relazioni sul governo
della Toscana (edite solo nel 1969-74, a cura di A. Salvestrini, in tre volumi). “Le
Relazioni rappresentano un esauriente rendiconto privato sulla propria opera e sullo
stato del paese che aveva da lui ricevuto una così particolare impronta, dopo 25 anni di
regno. La lettura dimostra che il sovrano possedeva, in misura eccezionalmente
sviluppata (rispetto anche ai più noti geografi coevi), la capacità di osservare e di
giudicare fatti, persone e territorio: il metodo seguito nella loro elaborazione dà
23
L. ROMBAI, Scienza, Tecnica e Cultura del Territorio nella Toscana dell’Illuminismo, in
I. TOGNARINI (a cura di), Il Territorio Pistoiese e i Lorena tra ‘700 e ‘800: Viabilità e Bonifiche, E.S.I.,
Napoli, 1990, pag. 64.
24
L. ROMBAI, Geografi e Cartografi nella Toscana dell’Illuminismo, Pacini Ed., Pisa, 1987, pag. 297.
25
G. TARGIONI TOZZETTI, Relazioni d’Alcuni Viaggi Fatti in Diverse Parti della Toscana per
Osservare le Produzioni Naturali e gli Antichi Monumenti, Cambiagi, Firenze, 1751-1754, voll. 6, e
1768-1778, voll. 12, e G. SANTI, Viaggio al Montamiata e per le Due Province Senesi,Pisa, Prosperi,
1795-1806, voll. 3.
16
importanza fondamentale all‟indagine diretta […], ma non trascura affatto la necessità
di documentarsi storicamente […] negli archivi pubblici”
26
.
26
L. ROMBAI, La Cultura Territorialistica e Geografica degli Scienziati e dei Granduchi nell’Epoca
Lorenese, in D. BARSANTI e L. ROMBAI, Scienziati Idraulici nella Toscana Granducale 2, l’Età
Lorenese, Istituto di Geografia dell‟Università, Firenze, 1993, pag. 101.
17
METROLOGIA
Misure lineari
Miglio toscano: (braccia 2833,312) pari a metri1653.
Pertica: (braccia 5) pari a metri 2,90.
Canna: (braccia 4) pari a metri 2,32.
Braccio toscano: pari a metri 0,58.
Misure di superficie
Braccio quadrato: pari a metri quadrati 0,34.
Deca: (10 braccia) pari a metri quadrati 3,34.
Pertica: (10 deche) pari a metri quadrati 34,06.
Tavola: (10 pertiche) pari ad are 3,40.
Quadrato: (10 tavole, 10.000 braccia) pari ad are 34,06.
Stioro: (1541 braccia) pari a metri quadrati 525.
Lo staio grossetano è composto da 3600 braccia quadrate fiorentine, e corrisponde
all‟incirca a 1/8 di ettaro. 24 staia formano un moggio, pari a circa 3 ettari. L‟ettaro
corrisponde a 19 stiora.
Misure di volume
Braccio cubo: pari a metri cubi 0,199.
Traino per il legname da costruzione: (2 braccia cube) pari a metri cubi 0,398.
Catasta per le legna da ardere: (24 braccia cube) pari a metri cubi 4,771.
Misure di capacità per gli aridi
Moggio: (8 sacca) pari a litri 584,712.
Sacco: (3 staia) pari a litri 74,089.
Staio: (4 quarti) pari a litri 24,363.
Quarto: pari a litri 6,090.
Misure di capacità per i liquidi
Per il vino:
Quartuccio: pari a litri 0,285.
Mezzetta: (2 quartucci) pari a litri 0,570.
Boccale: (2 mezzette) pari a litri 1,140.
Fiasco: (2 boccali) pari a litri 2,270.
Barile: (20 fiaschi) pari a litri 45,584.
Soma: (2 barili) pari a litri 91,168.
Per l‟olio:
Quartuccio: pari a litri 0,261.
Mezzetta: (2 quartucci) pari a litri 0,522.
Boccale: (2 mezzette) pari a litri 1,044.
Fiasco: (2 boccali) pari a litri 2,089.
Barile: (16 fiaschi) pari a litri 33,429.
18
Soma: (2 barili) pari a litri 66,857.
Misure di peso
Libbra: (12 once) pari a grammi 339,542.
Oncia: (24 denari) pari a grammi 28,295.
Denaro: pari a grammi 1,179.
Misure di valore (monete)
Crazia: pari a lire italiane 0,07.
Paolo: (8 crazie) pari a lire italiane 0,56.
Lira toscana: (12 crazie o 20 soldi) pari a lire italiane 0,84.
Soldo toscano: (1/20 di lira, con 20 soldi si fa cioè 1 lira) pari a lire italiane 0,042.
Denaro toscano: (con 12 denari si fa un soldo o baiocco) pari a lire 0,0035.
Quattrino: è 1/4 del denaro e 1/60 della lira.
Scudo: (7 lire) pari a lire italiane 5,88.
Francescone: (10 paoli) pari a lire italiane 5,60.
Piastra: (10 lire) pari a lire italiane 8,40.
Grosso: (1/2 paolo) pari a lire italiane 0,28.
19
CAPITOLO I
L’AMIATA AL TEMPO DELLA VISITA GHERARDINI 1676-1677
(DESCRIZIONE LINEARE)
La visita Gherardini
1
nello Stato Senese è un insieme di piccole monografie di
geografia umana, dalle quali emergono - con chiarezza - le forme e le pratiche
dell‟organizzazione territoriale delle comunità rurali del Senese e della Maremma.
Di ogni comunità si descrivono, infatti, i centri abitati (la loro forma d‟insieme, le loro
fortificazioni, i lastrici, le fognature, le cisterne, le fontane, gli edifici pubblici, le
condizioni igienico-sanitarie, i bisogni di restauri, i dati demografici, le realtà
ecclesiastiche e assistenziali, ecc.), i territori rurali (con i loro insediamenti, i poderi, i
mulini, le strade, le osterie, le risorse naturali, le aree agricole, forestali e pascolative),
l‟organizzazione amministrativa delle singole comunità (le entrate e le uscite, i diritti e
gli usi particolari, i beni, ecc.), e infine i problemi più svariati da sottoporre
all‟attenzione del granduca (problemi edilizi, viari, economici, sociali, amministrativi,
ecc.). Vi sono poi proposte e osservazioni di Gherardini sopra i bisogni di ciascuna
comunità.
Occupiamoci adesso più nello specifico delle comunità prettamente amiatine visitate
da Bartolomeo Gherardini: Abbadia San Salvatore, Piancastagnaio, e Radicofani (filza
2072), Arcidosso, Castel del Piano, Monte Giovi, Montelaterone, Monte Nero, e
Seggiano (filza 2073).
ABBADIA SAN SALVATORE
La terra di Abbadia San Salvatore, situata sulle pendici orientali del Monte Amiata,
nella parte più alta della montagna (oltre 800 metri), sorgeva su una piana coperta di
castagni e irrigata di acque perenni.
Il paese era interamente cinto di mura, che in alcune parti necessitavano di
„risarcimento‟.
La detta terra si divideva in Castello e Borgo: nel Castello c‟erano quattro porte, delle
quali soltanto tre avevano l‟uscio, ma in cattivo stato; nella parte di Borgo c‟erano due
porte anche queste in cattivo stato, e solamente una delle due aveva l‟uscio.
Le strade della terra erano lunghe e diritte, ma piuttosto strette e in cattivo stato, in
alcuni tratti addirittura impraticabili. Non vi erano ponti di sorta alcuna. Non vi erano
1
Bartolomeo Gherardini, abile ed esperto in materia legale, godette subito dei favori del nuovo sovrano
Cosimo III (granduca dal 1670 al 1723), il quale lo nominò Auditore Generale dello Stato di Siena con
patente del 27 ottobre 1670. Egli ricoprì tale carica durante tutto il primo decennio del granducato di
Cosimo III.
La visita Gherardini nello Stato Senese fu realizzata nel 1676-1677, ossia a sei anni di distanza dalla sua
nomina ad Auditore Generale, pur essendo il progetto del viaggio nato alcuni anni prima. Durante tale
viaggio Gherardini poté avvalersi dell‟aiuto di un magistrato dei Quattro Conservatori: il Provveditore dei
Conservatori Bernardino De‟ Vecchi.
D. RAVA, Propositi di Riforma degli Assetti Istituzionali a Siena nelle “Visite” di fine Seicento, in
F. ANGIOLINI, V. BECAGLI e M. VERGA (a cura di), La Toscana nell’Età di Cosimo III, Firenze,
Edifir, 1993, pag. 280.