11
2. LO STATO DELL’ARTE
2.1 La selezione agisce a livello genetico
Mantenendo come impegno guida del nostro lavoro l‟obbiettività e la chiarezza come
unici riferimenti possibili, la teoria proposta da Richard Dawkins nella sua opera più
importante, Il gene egoista
31
, costituisce uno strumento di grande utilità, nonché una
base teorica imprescindibile, per lo studio dell‟evoluzionismo morale. È infatti
necessario, in quest‟ottica, occuparsi della comparsa in natura di comportamenti e
atteggiamenti che rispondano in maniera diretta alle linee guida racchiuse all‟interno di
quei componenti minimi che costituiscono i nostri elementi base di trasmissione
dell‟informazione genetica. In accordo con la “Teoria del gene egoista”, una proposta
che pone questioni scientifiche la cui risoluzione appare decisamente meno improbabile
e difficoltosa rispetto alle complicazioni incontrate da altre teorie, considereremo i geni
come veri protagonisti della nostra comune storia evolutiva. Ci schiereremo dunque con
quella parte della pur spaccata comunità scientifica, la maggiore, che pare tendere per
un ipotesi prossima a quella proposta da Dawkins, a discapito delle teorie direttamente
in competizione della selezione di gruppo
32
o individuale
33
.
Intendiamo altresì dichiarare che il fatto stesso di schierarsi a favore di un tipo di
selezione che agisca a livello di unità biologiche “molto piccole” rientri in un più ampio
approccio nei confronti dello studio della natura. Prediligiamo insomma l‟intenzione
riduttiva verso i fenomeni naturali, ritenendo che un simile modo di rapportarsi agli
eventi non precluda la possibilità di fornirne una descrizione ricca e adeguata. Pensiamo
sia comunque importante proporre un breve excursus della storia del confronto tra
questi differenti tipi di selezione naturale, in modo da rendere più chiara la base da cui
intendiamo muoverci nella nostra proposta descrittiva.
Come spiegato brevemente nell‟introduzione al lavoro, intendiamo fornire una
descrizione dettagliata della questione dell‟egoismo genetico, cioè della problematica
31
Richard Dawkins, Il gene egoista, Bruno Mondadori Editore, Milano, 1992
32
Wynne-Edwards, Intergroup Selection in the Evolution of Social System, in” Nature”, 200, 1963, pp. 623-626
ID., Evolution through Group Selection, Blackwell Scientific, Oxford, 1986
ID. A Rationale for Group Selection, in “Journal of Theoretical Biology”, 162, 1993
D.S. Wilson, Levels of Selection. An Alternative to Individualism in Biology and the Human Sciences, in “Social
Networks”, 11, 1989, pp. 257-272
33
Edward O. Wilson, Sociobiology. The new Synthesis, Harvard University Press, Cambridge, 1975
ID., Eusociality. Origin and Consequences, in Proceedings of the National Academy of Sciences-USA, 38, 102,
2005, pp. 13367-13371
12
iniziale posta dallo scarto osservabile in natura tra la nostra conformazione biologica in
senso stretto, e le nostre attitudini comportamentali. Per questo dobbiamo innanzitutto
capire come si comportino i nostri geni, e come abbiano lavorato nel lungo processo
evolutivo, che ruolo abbiano insomma ricoperto nel complicato corso della selezione
naturale.
Emanuele Coco propone nel suo Egoisti, malvagi e generosi
34
una posizione
interessante rispetto all‟argomento trattato, auspicando la possibilità di sviluppare una
teoria sintetica della selezione naturale che verta su questi tre specifici aspetti: il fatto
che la selezione debba agire a più livelli (individuo e gruppo); che distingua bene i
soggetti tassonomici su cui la selezione agisce; e che specifichi e riconosca
adeguatamente gli oggetti della selezione. Questi oggetti rientrano secondo Coco in tre
categorie: <<geni, individui e culture>>
35
.
Durante la nostra ricerca faremo spesso riferimento a questo autore riconoscendo la
bontà della sua proposta che, rispetto alla nostra originale convinzione, si discosta
proprio nell‟identificare specificatamente l‟oggetto che “subisce” il processo evolutivo,
senza però precludere considerazioni e conclusioni affini. In questo senso intendiamo
infatti specificare che il punto di vista proposto dalla “teoria del gene egoista” non nega
in alcun modo la possibilità che la selezione possa operare anche ad altri gradi, come
appunto a livello individuale o di gruppo, pur considerando il piano genetico come il
primo e originario livello di azione della selezione.
Sempre all‟interno del testo di Emanuele Coco viene proposta una breve ricostruzione
di alcune tra le più importanti posizioni che autorevoli scienziati e insigni biologi hanno
sostenuto negli ultimi trent‟anni di studi. È interessante notare come gli stessi studiosi,
in alcuni casi rappresentativi, abbiano nel corso degli anni abbandonato le proprie
posizioni originarie muovendo verso convinzioni in alcuni casi di natura persino
opposta. Proponiamo un caso emblematico che illustra l‟inattualità di posizioni statiche
in questo dibattito.
Edward O. Wilson
36
è stato per decenni uno dei più agguerriti sostenitori della selezione
a livello individuale. Nonostante il suo curriculum di individualista doc, sembrerebbe
aver improvvisamente mutato la sua posizione rispetto alla controversia che lo ha visto
34
Emanuele Coco, Egoisti, malvagi e generosi, Bruno Mondadori Editore, Milano, 2008
35
Ivi, pag.136
36
Edward O. Wilson, The Ants, Harvard University Press, Cambridge 1991 e Edward O. Wilson, “Eusociality. Origin
and Consequences”, in Proceeding of the National Academy of sciences, USA, 38, 102, 2005
13
protagonista per quasi trent‟anni. In un articolo pubblicato nel 2005 ha ben sintetizzato
questo cambiamento di opinione
37
sostenendo, in ambito animale, che la stretta
parentela tra gli individui di un alveare potrebbe essere una conseguenza, e non una
delle cause che li avrebbe condotti a vivere insieme. In un altro articolo, di ancor più
recente pubblicazione, si è accompagnato nell‟esposizione con David S. Wilson, da
sempre tra i maggiori difensori della teoria della selezione di gruppo, proponendo
osservazioni in merito alla multilevel selection
38
. Un mutamento radicale di opinione,
questo, che sembra testimoniare quanto il dibattito sia aperto e come le posizioni in
gioco siano mutevoli. La ricerca scientifica, con le sue strabilianti scoperte, non sembra
concedere spazio a posizioni statiche e atteggiamenti figli di convinzioni granitiche.
Un‟altra interessante dimostrazione di quanto in fermento sia la discussione sul livello
cui si pensa debba agire la dinamica evolutiva è contenuta nel libro di E. Jablonka e M.
Lamb L’evoluzione in quattro dimensioni
39
. Si propone in questo caso una sintesi tra le
numerose correnti che in tutto il „900 hanno proposto differenti teorie, analizzando a
fondo la complessità degli esseri viventi e in particolare la loro struttura e le connessioni
interne tra i diversi elementi e tra l‟organismo e l‟ambiente.
La teoria proposta prevede un ampliamento del concetto tradizionale di ereditarietà, non
limitandosi a una dinamica tutta interna alla trasmissione dell‟informazione contenuta
nel DNA, ma estendendolo ad altre tre dimensioni. Le quattro forme di ereditarietà che
ne risultano non sembrerebbero escludersi ma piuttosto interagire, pur dimostrando di
avere diversa rilevanza nei vari organismi.
La prima dimensione dell‟ereditarietà e dell‟evoluzione continua a essere costituita dal
sistema genetico, seguendo e mantenendo l‟intuizione originale confermata dagli studi
tardo novecenteschi in campo genetico. Il secondo livello, o dimensione, è
rappresentato dall‟eredità epigenetica, o Epigenetic Inheritance System (EIS), che
riguarderebbe tutti i processi di cambiamento che interessano un organismo le cui
istruzioni non siano direttamente indicate dal DNA. I processi epigenetici possono
trasferire informazioni tra più generazioni non modificando la struttura del materiale
genetico, ma agendo sull‟espressione dei geni. Questo cambiamento sarebbe il risultato
37
Edward O Wilson, Eusociality. “Origin and Consequences”, in Proceedings of the National Academy of Sciences,
USA, 2005, pp. 13367-13371
38
D. S. Wilson e E. O. Wilson, “Rethinking of Theoretical Foundation of Sociobiology”, in Quarterly Review of
Biology, 4, 82, 2007, pp. 327-348
39
E. Jablonka e M. Lamb L’evoluzione in quattro dimensioni, UTET, Torino, 2007
14
dell‟evoluzione di meccanismi che, si ipotizza, avrebbero sviluppato una certa plasticità
attraverso l‟attivazione o repressione dell‟espressione dei geni e della loro eventuale
capacità di trasferire informazione a più di una proteina.
La terza dimensione esplorata è costituita, questa volta con particolare riferimento al
mondo animale, dall‟apprendimento sociale, mentre l‟ultimo livello riguarda la
trasmissione dell‟informazione per mezzo del linguaggio e di altre forme di
comunicazione, indicata dalle autrici del testo come <<sistema di ereditarietà
simbolico>>
40
. Il nostro articolato linguaggio ci consente di trasmettere concetti, di
elaborare immagini della realtà modificandole e attribuendo loro significati soggettivi
derivati dalla nostra stessa elaborazione. In questo senso vanno intesi, per esempio, i
processi di evoluzione culturale che ci hanno consentito di accelerare i nostri
cambiamenti e le nostre capacità adattive. Queste speculazioni dimostrerebbero perché
siamo la specie che più si è dimostrata in grado di adattarsi a vivere praticamente
ovunque, mutando le proprie abitudini in tempi brevissimi, almeno rispetto a quelli
richiesti dai classici meccanismi della selezione naturale che agisce a livello genetico.
Riteniamo comunque che un valido modo di arginare questa discussione, dai confini
estremamente indefiniti, non possa che condurci a fare riferimento all‟ultima parte
dell‟opera di Matt Ridley Il gene agile. In queste pagine l‟autore sintetizza bene ciò che
nel corso della storia della scienza è stato proposto per descrivere l‟unità biologica
costituita dal gene.
La prima definizione riportata da Ridley, che ricostruisce la scansione temporale con cui
ogni protagonista ha offerto il suo apporto alla ricerca, è quella proposta da Gregor
Mendel
41
. Un gene è un‟unità di eredità, un archivio che memorizza l‟informazione
evolutiva.
Una seconda definizione, recentemente riscoperta e reintrodotta nel dibattito scientifico,
è quella di Hugo De Vries
42
di elemento interscambiabile: la proposta nasce dalla
constatazione del fatto che gli esseri umani condividono molti più geni in comune, per
40
Ibid
41
Gregor Johann Mendel (1822-1884), biologo e frate agostiniano ceco considerato il precursore della moderna
genetica, grazie alle sue osservazioni pionieristiche sui caratteri ereditari. È fondamentale arricchire la proposta
darwiniana con le sue scoperte.
42
Hugo de Vries (1848-1935), biologo olandese ideatore della teoria delle mutazioni in ambito vegetale e animale. Le
mutazioni si mantengono o scompaiono per selezione naturale. I suoi studi sono un utile strumento di comprensione
della proposta darwiniana.
15
esempio con la drosofila
43
e il nematode Caenorhabtis elegans
44
, rispetto a quanto
avremmo potuto aspettarci prima di svolgere studi approfonditi come quelli che, dagli
anni Novanta in poi, hanno interessato il genoma.
Una terza definizione di gene, emersa nel 1902 dagli studi del medico inglese Archibald
Garrod, è direttamente legata all‟individuazione della prima patologia genetica dovuta a
un gene singolo. <<È da Garrod che discende la fin troppo comune definizione dei geni
in base alle malattie di cui essi sono responsabili quando sono danneggiati: in altre
parole, la definizione “un gene, una malattia”>>
45
.
Una quarta definizione di gene si fonda sulle sue reali e manifeste funzioni:
[…] con pochissime eccezioni, le proteine svolgono il ruolo concreto,
il DNA immagazzina l‟informazione e l‟RNA rappresenta il legame
fra le due funzioni: esattamente come aveva ipotizzato Watson.
Pertanto, il gene di Watson e Crick è una ricetta
46
Una quinta definizione, riferibile alle rivoluzionarie idee di Jaques Monod e Francois
Jacob
47
, è quella di gene come interruttore, e quindi come unità di sviluppo, avanzata
dagli anni Cinquanta in poi.
Ma sempre secondo la ricostruzione operata da Ridley
Fu Ronald Fisher a stabilire per primo che l‟evoluzione era poco più
che la sopravvivenza differenziale di particolari geni. E furono
George Williams e William D. Hamilton, insieme ai loro irriducibili
difensori R. Dawkins ed E. Wilson, a specificare nei dettagli tutte le
sconcertanti implicazioni di quest‟idea. […] Questa concezione
dell‟organismo dal “punto di vista del gene” segnò un improvviso
spostamento di prospettiva filosofica. […] Ecco una definizione in cui
il gene non è né un‟unità di eredità né un‟unità di metabolismo, e
neppure un‟unità di sviluppo –ma piuttosto un‟unità di selezione. […]
La selezione naturale poteva far agire i geni proprio come se a guidarli
ci fosse un interesse egoistico: certo, era un‟analogia; ma un‟analogia
estremamente utile. Gli individui che venivano spinti dai geni, sia pure
43
Drosofila Melanogaster o moscerino della frutta è un insetto dell‟ordine dei Diptera, organismo modello per la
ricerca in campo genetico.
44
È un verme nematode fasmidarioorganismo modello molto utilizzato nello studio della biologia dello sviluppo.
45
Matt Ridley, Il gene agile, Adelphi, Milano, 2003, pag. 347
46
Ivi, pag. 348
47
Jaques Monod and Francis Jacob, “General Conclusion: teleonomic mechanisms in cellular metabolism, growth,
and differentiation”, Cold Spring Harbor Symposium on Quantitative Biology, 26, 1961
16
indirettamente, a prodigarsi per i propri figli, lasciavano un maggior
numero di discendenti degli altri
48
E proprio da queste considerazioni si può ricavare la sesta definizione di gene: il gene
alla Dawkins, con un‟inclinazione << […] nella sua dipendenza dal superamento della
prova della sopravvivenza attraverso le generazioni>>
49
. Un gene inteso quindi
propriamente come unità di istinto.
La settima e ultima definizione, proposta dalla coppia di studiosi Tooby e Cosmides
50
,
tenta una coraggiosa sintesi tra il meglio dell‟innatismo di Chomsky e il selezionismo,
con l‟innesto di buona parte delle proposte riferibili alla sociobiologia
51
. Una miscela di
eredità e ambiente che ci offre la definizione di gene come dispositivo per estrarre
informazione dall’ambiente.
È interessante osservare come questo excursus storico non sia né fine a sé stesso né
confinato a un approccio esclusivamente teorico: Matt Ridley identifica infatti nel gene
SRY
52
, un gene localizzato sull‟estremità “settentrionale” del cromosoma Y, un perfetto
candidato a rappresentare concretamente questa sintesi di idee teoriche.
SRY può essere benissimo considerato come un archivio, una ricetta,
un interruttore, un elemento intercambiabile o un dispensatore di
salute maschile […]. Ma anche un‟unità di selezione, ossia un gene
egoista alla Dawkins. E, aggiungiamo noi, un dispositivo per estrarre
informazione dall’ambiente
53
In questo modo è possibile considerare il nostro gene non soltanto in relazione alle
tendenze egoistiche che sembra possedere ma anche, per chi ne senta la necessità, come
una valida sintesi di tutte queste proposte. Ciò nonostante intendiamo ribadire la nostra
vicinanza rispetto alle proposte di Dawkins, pur riconsiderando la “portata
rivoluzionaria” della sua proposta. Il gene egoista ha “semplicemente” suggerito un
48
Matt Ridley, Il Gene Agile, Adelphi, Milano, 2003, pag.350
49
Ivi, pag.365
50
L. Cosmides and J. Tooby, “Beyond Intuition and Istinct Blindness: Toward an Evolutionarily Rigorous Cognitive
Science “, Cognition, 50 (1-3), 1994, pp. 41-77
51
Termine introdotto da Edward Wilson in Sociobiology, Harvard University Press, Cambridge 1975
52
In particolare, durante la vita fetale, intorno alla 4-5 settimana, il TDF induce la differenziazione delle cellule del
pro-Sertoli in cellule del Sertoli. Le cellule del pro-Sertoli si sviluppano nei cordoni sessuali presenti nella cresta
genitale. Inoltre il fattore del SRY induce la formazione delle cellule del Leydig nella midollare (ossia nel
mesenchima) della cresta genitale.
53
Matt Ridley, Il gene agile, Adelphi, Milano, 2003, pag. 365
17
approccio alternativo rispetto alla discussione tutta novecentesca tra i livelli a cui la
selezione agisce, preannunciando una soluzione differente alla problematica presenza di
atteggiamenti altruistici in natura e al loro eventuale legame con l‟egoismo genetico. Lo
ha fatto spostando l‟attenzione dagli individui, o dai gruppi di individui, verso i geni.
18
2.2 Charles Darwin e Richard Dawkins: dalla selezione
naturale al “gene egoista”
La selezione naturale e la lotta per la sopravvivenza sono comunemente considerate
crudeli leggi di natura. Se l‟opinione generale è supportata da un certo grado di intuitiva
semplicità, tale da renderla appunto “comune”, il grado di osservazione e descrizione a
cui può aspirare una teoria ben costruita e argomentata può supplire all‟apparente
mancanza di immediatezza e chiarezza. È dunque doveroso ipotizzare che la selezione
naturale non sia il meccanismo tanto crudele che appare e che, per questo, la radice
della disumanità dell‟uomo verso il proprio simile vada ricercata altrove.
Nella nostra ricerca considereremo la teoria dell‟evoluzione una legge naturale di ordine
superiore, in grado di descrivere, e per tutta la prima parte di questo lavoro sarà il nostro
obiettivo, tanto il mutamento quanto la stabilità di un mondo in cui c’è vita. La teoria
dell‟evoluzione, così come la teoria della selezione naturale, non spiega l‟origine della
specie e proprio per questo vogliamo considerare in questa parte iniziale l‟evoluzione
come principio agente su un mondo in qualche modo già formato.
Vorrei introdurre la teoria di Charles Darwin facendo riferimento a un aspetto, magari
non immediato ma capace di quantificare adeguatamente la portata della rivoluzione
scientifica da cui intendiamo cominciare la nostra esposizione. Riteniamo infatti possa
risultare interessante approcciarsi all‟evoluzionismo seguendone una ricostruzione in
qualche modo storica, appoggiandosi in questo caso a ciò che Thomas Kuhn ha
elaborato all‟interno del suo La struttura delle rivoluzioni scientifiche
54
.
Il libro, scritto nel 1962, prende le mosse da un assunto fondamentale: la scienza,
piuttosto che progredire gradualmente verso una presunta verità, è soggetta a rivoluzioni
periodiche di grande portata chiamate dall‟autore slittamenti di paradigma. Proponendo
l‟utilizzo del termine paradigma per indicare l‟insieme di leggi, teorie e strumenti che
definiscono una tradizione di ricerca in cui una proposta è universalmente accettata, si
conia l‟espressione scienza normale per riferirsi al lavoro di routine degli scienziati che
seguono nella loro ricerca un determinato paradigma. Kuhn chiama rivoluzioni
scientifiche i cambiamenti rispetto al paradigma di riferimento, utilizzando il plurale per
54
Thomas Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions, University of Chicago Press, Chicago, 1962; trad.it. La
struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino, 1995
19
differenziare queste fasi dalla grande Rivoluzione Scientifica sviluppatasi durante il
Rinascimento e poi in tutto il Seicento.
La teoria della selezione naturale di Charles Darwin è entrata nel dibattito scientifico in
maniera impertinente, rivoluzionando i paradigmi classici e affrontando con
sfrontatezza e coraggio i limiti imposti da teorie legittimate dal tempo, dalle convinzioni
e persino dal diffuso costume sociale. Ha in questo senso certamente rappresentato un
importante slittamento di paradigma, imponendosi all‟attenzione della comunità
scientifica e rivoluzionando lo stesso modo diffuso di pensare l‟uomo e la sua comune
storia.
Charles Darwin, all‟interno della sua teoria, pur riconoscendo le difficoltà inizialmente
legate a questo differente e originale approccio, ma impossibilitato a superarle non
conoscendo il lavoro del “collega” Gregor Mendel, immaginò che la selezione naturale
potesse agire su una specie particolare in modo analogo a come avrebbe fatto con una
singola unità o un singolo organismo. La difficoltà principale, in questo approccio,
sarebbe consistita in un semplice aspetto, derivante dal fatto che le caratteristiche utili
alla sopravvivenza possono essere trasmesse tra generazioni solamente per riproduzione
di singoli individui. La selezione naturale può, in questo senso, rappresentare il
meccanismo esclusivo dell‟evoluzione solo nel caso in cui favorisca tanto il gruppo
quanto l‟individuo.
Considerando questa iniziale difficoltà che costituì per lo stesso Darwin un difficile
ostacolo, un brillante etologo inglese ha creduto di poter pensare a una diversa dinamica
da proporre come origine del meccanismo di selezione naturale. Richard Dawkins ha
voluto immaginare che la selezione potesse interessare non soltanto unità biologiche
grandi quanto un organismo ma procedendo di riduzione in riduzione e seguendo le
orme di chi prima di lui aveva sviluppato lavori a sostegno dell‟ipotesi della selezione
individuale, unità molto più piccole. Le sue teorie, riportate in The Selfish Gene
(1976)
55
, inizialmente considerate radicalmente estremiste, sono entrate oggi a far parte
degli insegnamenti contenuti nei testi neodarwinisti ortodossi.
Lo stesso Dawkins ha chiarito le sue intenzioni e i suoi propositi in queste righe, poste a
Prefazione dell‟edizione del 1989 della sua opera più nota:
55
Richard Dawkins, The Selfish Gene, Oxford University Press, London, 1976
20
La teoria del gene egoista è una derivazione logica del
neodarwinismo ortodosso, espressa però da una prospettiva diversa:
invece di concentrarsi sul singolo organismo, guarda la natura dal
punto di vista del gene. È un diverso modo di vedere, non una teoria
diversa
56
Nella nostra ricerca privilegeremo l‟ipotesi della selezione del gene, rispetto a quella
dell‟organismo o del gruppo, e l‟unità biologica della selezione naturale sarà quindi
identificata da un‟unità più piccola.
Detto questo Dawkins nasce e opera in qualità di etologo e ha scritto, per sua stessa
ammissione, un libro sul comportamento degli animali seppur arricchito da
<<un‟iniezione di idee fresche che provengono da fonti che non sono considerate per
convenzione etologiche>>
57
, dal quale è nostro interesse prendere in prestito
un‟impalcatura descrittiva che ci permetta poi di tornare a fare il nostro lavoro, nel
coraggioso tentativo di proporre una teoria, questa volta, normativa.
Nel mondo animale il combattimento è uno dei mezzi naturali con cui opera la selezione
naturale, nell‟intento costante di premiare non tanto chi si dimostri “più forte” quanto
chi dia prova di poter maggiormente procreare. Come sappiamo questo avviene anche al
livello base di interazioni tra primati
58
: in questo caso, infatti, la sfida per la
sopravvivenza non si risolve necessariamente per mezzo della forza. È certamente vero
che, seguendo un approccio probabilistico, chi si dimostri più adatto al combattimento
avrà maggiori possibilità di impossessarsi dell‟oggetto della contesa; il più forte è
infatti, almeno solitamente anche colui che gode di un “accesso privilegiato” alla parte
femminile del gruppo. È anche vero però che, una volta “conquistata” la femmina con
cui accoppiarsi, non sarà per forza di cose il più attivo e maggiormente in grado di
figliare.
Le strategie messe in campo dagli animali per uscire vincitori dal “gioco della
sopravvivenza” e dal “gioco delle coppie” sono numerosissime, estremamente raffinate
e incredibilmente elaborate. Non è insomma inimmaginabile che un elemento debole
consegua l‟accoppiamento ingannando il più forte, magari agendo velatamente.
56
Dalla prefazione all‟edizione del 1989 di Richard Dawkins, Il gene egoista, Mondadori, Milano, 1992
57
Dalla prefazione all‟edizione del 1976 di Richard Dawkins , Il gene egoista, Mondadori, Milano, 1992
58
Frans de Wal, Tree of Origin: What Primate Behavior Can Tell Us about Human Social Evolution, Harvard
University Press, 2001
21
Quindi, anche restando in ambito animale, non tutto sembra risolversi seguendo spietate
leggi di natura ma attraverso schemi ben più elaborati. Più avanti, all‟interno della
nostra proposta, daremo conto di queste strategie e di come abbiano potuto consolidarsi
nel corso della storia evolutiva naturale. Per ora ci limitiamo a osservarle e considerarle
all‟interno di un‟analisi della storia dell‟evoluzionismo che prende inizialmente in
considerazione la proposta di Charles Darwin -la selezione naturale- virando durante il
percorso verso le tesi di Richard Dawkins –la selezione a livello genetico.
Per quanto riguarda il nostro approccio e una volta chiarito l‟obiettivo, la lotta per la
sopravvivenza, così diffusa nel regno animale, sarà da intendersi come una mera
competizione di geni nella quale noi tutti saremo “semplicemente” delle macchine che
contribuiranno, nei casi migliori, alla sopravvivenza del nostro patrimonio genetico.
Il gene capace di sistemarsi in una macchina da sopravvivenza superiore sarà destinato
a perdurare; le caratteristiche fisiche e le strategie comportamentali, espressione del
gene, contribuiranno al successo della macchina, fermo restando che la sola ragione di
esistenza del gene è la sopravvivenza, non facile, in un ambiente enormemente
competitivo.
La natura produce in modo continuo nuovi geni -attraverso meccanismi di mutazione,
errori di copiatura, splicing…etc.- e queste unità biologiche di base sono dunque
impegnate nel costante tentativo di guadagnare un posto all‟interno delle migliori
macchine di sopravvivenza.
Da simili constatazioni dovremmo essere in grado di spiegare un comportamento
immediatamente egoistico e il “sacrificio” di un gene che, “salvando” altri organismi
che ospitano copie di se stesso, possa favorire la sopravvivenza del suo stesso tipo di
gene.
Questo gene, così disinteressato all‟eventuale sopravvivenza della macchina che ospita
una specifica particella cromosomica, se stesso, è in realtà completamente impegnato a
far sì che le sue copie continuino a vivere. Il gene egoista sacrifica “se stesso” per
salvare “se stesso”.
È dunque plausibile e lecito, sulla base di questa teoria, immaginare un mondo in cui la
natura sia dominata dagli immediati interessi dei singoli geni, senza perseguire alcun
“più elevato” obiettivo, tanto che la sopravvivenza di una determinata specie possa
22
essere, nella migliore delle ipotesi, una conseguenza incidentale dell‟attività di geni che
perseguono i loro egoistici destini.
23
2.3 Naturalmente in competizione: lo sfondo naturale de
Il gene egoista
Parallelamente alla poca chiarezza in campo etico rispetto a quanto e a che livello
l‟altruismo sia “desiderabile”, corre una pericolosa confusione sul grado a cui, in
biologia, ci si debba attendere comportamenti altruistici in accordo alla teoria
dell‟evoluzione.
Concentrarsi sul livello della selezione del gene, preferendolo alla selezione di gruppo e
individuale in senso stretto, significa considerare il gene come vera unità
dell‟ereditarietà, decidendo di sposare quella linea di studio ipotizzata da August
Weismann (1834-1914), che con la pubblicazione delle sue teorie sulla separazione tra
soma e germoplasma
59
fu il primo vero animatore del rifiuto di una certa idea di eredità
debole (che prevedeva che i caratteri acquisiti nel corso della vita- come l‟accidentale
perdita di un dito- potessero essere trasmessi ai figli).
Egli avviava così quella distinzione tra germen e soma che si
trasformerà poi nell‟odierna separazione tra genotipo e fenotipo. Il
germen, ovvero la sostanza di cui sono fatte le cellule germinali, si
conserva intatto di generazione in generazione e non risente né
trasmette memoria di quanto accade al soma
60
In questo senso, fondamentale fu anche la riscoperta delle leggi di Mendel che
già intorno al 1900 portò a invocare la natura particellare, cioè
discontinua, dei fattori genetici […]. Mendel aveva infatti parlato di
segregazione dei caratteri, considerando le basi dell‟eredità come
unità distinte, discrete, che passano dai genitori ai figli secondo
proporzioni statistiche ben precise da lui registrate. Ovvero, i caratteri
non erano fluidi che potevano miscelarsi e diluirsi, ma effetti dovuti a
mattoncini d‟informazione finiti e indivisibili
61
La forma più precoce di selezione naturale ha certamente agito preferendo forme più
stabili di vita, eliminando gradualmente quelle instabili. È in questa prima fase che si
sono formate le molecole. In un ambiente ricchissimo e vario, in un dato momento e per
intervento del caso, si è formata una particolare molecola che, fedeli al gergo di
59
August Weismann, Über Germinal-selektion, 1896
60
Emanuele Coco, Egoisti, malvagi e generosi, Bruno Mondadori Editore, Milano, 2008, pp. 24-25
61
Ivi, pag. 25
24
Dawkins, chiameremo il replicatore. È necessario chiarire in che senso sia importante,
in questa fase dell‟esposizione, chiamare in causa la casualità.
In seguito agli sviluppi conseguenti al crollo del granitico sistema della fisica classica il
problema del caso, nonostante le perplessità di molti studiosi, si è affacciato
prepotentemente sia sul panorama specificatamente scientifico, che in quello filosofico.
Il caso ha storicamente costituito un concetto estraneo alla scienza, nemico della sua
esigenza di stabilire e proseguire mediante leggi universali e necessarie per le singole
classi di fenomeni. Lo stesso ordine della natura prevede il categorico rifiuto dell‟idea
di un mondo voluto dal caso, dominato da imprevedibilità e indeterminatezza.
Affrontando la questione, il biologo francese Jaques Monod (1910-1976) nel suo
celebre Il caso e la necessità (1970), ha sostenuto che gli iniziali eventi di un processo
evolutivo, le eventuali modificazioni di geni, sono casuali e fortuiti dovuti
prevalentemente a perturbazioni di natura quantistica. A questo parziale
indeterminismo, posto all‟origine delle mutazioni, Monod assocerà poi una concezione
rigidamente meccanicistica affrontando la fase selettiva. Per quanto riguarda la nostra
tesi è invece necessario, soprattutto, chiarire in che modo intendiamo, con Dawkins,
fare riferimento a un‟idea non classica riguardo al concetto di casualità.
La speciale molecola formatasi per intervento del caso -il replicatore- ha permesso
l‟ingresso nel mondo di una nuova forma di stabilità. In seguito alla sua spontanea
formazione deve aver diffuso, rapidamente, un gran numero di sue copie; una copia é
sempre soggetta a errore, non risultando mai completamente fedele all‟originale. È
importante, inoltre, considerare l‟evoluzione come una forza che spinge verso una
“precisa direzione”, nonostante le resistenze opposte da eventuali soggetti, in questo
caso i replicatori.
L‟idea di direzione cui facciamo riferimento, interpretabile in termini di finalità, merita
una precisazione soprattutto considerando ciò che la scienza ha dimostrato in tempi
recenti, giungendo a escludere ogni idea di intenzionalità tra le forze che si considera
possano agire in ambito evolutivo. Vorremmo dunque proporre un passo, a nostro modo
di vedere significativo e molto chiaro, che possa chiarire in che modo ci accostiamo a
una certa idea di moderato finalismo.
Affrontando la ricostruzione delle vicende scientifiche dei primi anni del Novecento, e
in particolare l‟innatismo estremo di alcune posizioni come quelle adottate e difese da
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William James
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, Matt Ridley si abbandona all‟interno del suo Il gene agile a una
digressione sulla teleologia molto interessante. Riportiamo da Il gene agile
Fu il genio di Darwin a ribaltare l‟antico argomento teleologico caro
ai teologi. Fino ad allora, l‟ovvia constatazione che le parti di un
organismo sembrano essere costruite per uno scopo preciso- il cuore
per pompare sangue, lo stomaco per digerire, la mano per afferrare-
pareva logicamente implicare l‟esistenza di un architetto autore del
progetto, proprio come una macchina a vapore implicava l‟esistenza di
un ingegnere. Darwin capì come il processo della selezione naturale,
pur essendo interamente fondato sul passato, potesse dar luogo ad un
progetto dotato di scopo- il concetto dell‟”orologiaio cieco” di
Richard Dawkins. Benché in teoria sia insensato asserire che uno
stomaco abbia una sua finalità, giacché lo stomaco non ha una mente,
in pratica l‟affermazione è assolutamente sensata purché si ricorra alla
forma passiva: gli stomaci sono stati selezionati in modo da sembrare
rivolti ad uno scopo
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Sperando di aver chiarito il nostro ricorso ad un moderato finalismo, riprendiamo la
descrizione dello sfondo naturale teatro della formazione di quella competitività che
pare aver caratterizzato la nascita delle prime forme di vita.
In presenza di alcune condizioni necessarie si crea nella popolazione di molecole una
tendenza evolutiva a una maggiore longevità. Questa fase iniziale è caratterizzata da una
dura lotta per l‟esistenza fra le differenti varietà di inconsapevoli replicatori. Ogni
tipologia di errore che sembrasse spingere verso un più alto livello di stabilità, o che
fosse in grado di diminuire la stabilità avversaria, veniva moltiplicata e dunque
mantenuta. Alcuni di questi replicatori si sono addirittura “preoccupati”, sempre spinti
da un naturale ed egoistico istinto, di costruirsi dei contenitori, o per meglio dire dei
veicoli, che potessero semplificarne l‟esistenza.
Come ci fa “poeticamente” notare Richard Dawkins
I replicatori sono i geni, antichi maestri dell‟arte della sopravvivenza
[…] Adesso sono dentro di noi, ci hanno creato, corpo e mente, e la
loro conservazione è lo scopo ultimo della nostra esistenza. Noi siamo
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William James, The Dilemma of Determinism, in The Writings of William James, a cura di J.J. Mac Dermott,
Univerity of Chicago Press, Chicago, 1884
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Matt Ridley, Il gene agile, Adelphi, Milano, 2005, pag. 72