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Introduzione
“Non si può non comunicare” è il primo Assioma della
Comunicazione enunciato da Paul Watzlawick alla fine degli anni
sessanta, sicuramente il più semplice da ricordare dei cinque, tanto
che si è facilmente diffuso anche al di fuori dell’ambito
accademico e oggi suona come uno slogan onnicomprensivo, un
principio imprescindibile per tutti coloro che gravitano attorno al
mondo della comunicazione.
Partendo da questo presupposto, ho ritenuto necessario analizzare
lo step iniziale che caratterizza quasi tutti i percorsi lavorativi cui
noi studenti universitari siamo destinati, cioè il colloquio di
selezione, e lo farò dalla prospettiva a me più congeniale, quella
comunicativa.
La mia analisi si propone di dimostrare quanto sia determinante e
quanto mai sottovalutata (soprattutto dai candidati, ma spesso
anche dai selezionatori) la comunicazione non verbale nell’ambito
del colloquio di selezione, ed inoltre vorrebbe offrire un contributo
conoscitivo per tutti noi studenti che ci approcciamo per la prima
volta ad un colloquio, e non siamo consapevoli che le
informazioni spesso determinanti per l’esito della selezione non
sono le risposte brillanti alle domande del selezionatore o le
referenze dei nostri curricula, ma il modo in cui ci siamo
presentati, il nostro abbigliamento, la mimica facciale, la gestualità
di gambe e braccia, le pause e i sorrisi smorzati.
Anche molti selezionatori di personale potrebbero trarne
vantaggio, così da poter scegliere i candidati più idonei.
5
Inizierò la mia ricerca con una panoramica sulla comunicazione
non verbale, analizzandone sviluppi teorici e funzioni;
successivamente approfondirò la selezione del personale, con
particolare riguardo al colloquio di selezione.
Nel capitolo tre parlerò delle impressioni pre-colloquio e
dell’importanza del setting per la selezione.
Per facilità d’analisi ho suddiviso in tre parti il colloquio: fase di
apertura, fase centrale e fase di chiusura, all’interno di ognuna di
esse saranno esaminati i diversi comportamenti non verbali tipici.
Infine ci sarà un focus sulla scelta del candidato e l’esposizione
dei questionari compilati da veri selezionatori di personale, cui ho
posto alcune domande.
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1. La comunicazione non verbale
La comunicazione umana è regolata da un complesso normativo
denominato codice che consente di semplificare la realtà,
trasformandola mediante i simboli, in messaggio trasferibile ad un
destinatario.
Tale apparato è talmente versatile che la sua capacità espressiva
può rapportarsi a pressoché tutto quanto avviene dell’esperienza
interiore di un soggetto.
Le parole permettono, opportunamente combinate, di indicare
oggetti, denominare fenomeni, raccontare fatti, ma anche di
esprimere emozioni, fantasie, sentimenti, previsioni, giudizi e
quasi ogni altro tipo di astrazione o esperienza difficilmente
riconducibile alla realtà concreta.
Tuttavia il nostro mondo comunicativo non si compone
esclusivamente di espressioni verbali, ma ha bisogno per
esprimersi compiutamente di intonazioni di voce, gesti, posture
del corpo, espressioni del volto, in una parola: comunicazione non
verbale (Perrone, 2006).
La CNV (comunicazione non verbale) è quella parte della
comunicazione che comprende tutti gli aspetti di uno scambio
comunicativo non concernenti il livello puramente semantico del
messaggio, ossia il significato letterale delle parole che lo
compongono.
Gestualità, postura del corpo, pause e intonazioni della voce,
mimica facciale, distanza interpersonale, aspetto esteriore, sono
7
tutti elementi in grado di assurgere, al pari della comunicazione
verbale, ad un vero e proprio codice di costruzione e trasmissione
di significati.
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1.1 Origini
La ricerca sulla comunicazione non verbale ha origine nel
razionalismo del XVII secolo e si sviluppa nel secolo successivo,
soprattutto ad opera degli enciclopedisti, facilitata dal clima
culturale dell’Illuminismo, favorevole ad una comprensione
dell’origine dei fenomeni psichici e linguistici e scevra da
preconcetti.
Nel corso dell’Ottocento, la disciplina oscillò lungamente tra
scienza e filosofia, trovando in autori come Tylor e Wundt un
tentativo ancora acerbo di redigere una mappa per la
comprensione di segnali extraverbali.
La prima metà del XX secolo è segnata dal predominio
dell’impostazione comportamentista, estremamente propensa a
considerare emozioni e gesti pur sempre come i riflessi di reazioni
ghiandolari o effetti del condizionamento esterno.
In seguito, soprattutto gli psicologi sociali di scuola americana
optarono per un approccio quantitativo allo studio dell’interazione
diretta tra persone, spesso limitandosi a conclusioni sulla natura di
tale interazione traendole da variabili come la durata degli
incontri, il numero di volte in cui si prende la parola e così via.
La comunicazione non verbale cominciò ad essere considerata
con metodi moderni a partire dagli anni sessanta, quando si
impose un criterio di analisi scientifica, prevalentemente di
matrice antropologica e psicologica basato sull’osservazione
sistematica della distanza interpersonale, dei movimenti del capo,
di quelli dello sguardo, delle mani e del corpo nel suo insieme;
presto ci si accorse della straordinaria somiglianza con il lavoro di
9
etologi e zoologi i quali adoperavano, e da più tempo, quasi le
stesse variabili di indagine.
Oggi tale analogia di ricerca non stupisce più, è chiaro che,
proprio nella dimensione non verbale della comunicazione tra
umani, si esprime al massimo grado la componente animale della
nostra specie
1
.
I primi studi sulla comunicazione non verbale non poterono che
focalizzarsi sulle espressioni facciali.
Il volto, infatti, è ritenuto, la parte del corpo umano di maggiore
salienza espressiva, un canale privilegiato per la comunicazione;
inoltre, lo sviluppo filogenetico dimostra un effettivo aumento
dell’uso della mimica facciale, quanto più si sale nella scala
biologica.
L’aumento dei muscoli mimici facciali (dalla totale assenza negli
invertebrati e nelle specie dei vertebrati inferiori, fino alla loro
comparsa nelle specie superiori) sembrerebbe indicare un
percorso che favorisce il loro evolversi nelle specie che vivono in
gruppo (Ammaniti et al., 2001).
Il maggior esponente della fazione innatista in questo campo fu
Ekman che iniziò a studiare, con l’ausilio di fotografie sottoposte
a numerosi giudici, il grado d’accordo nel valutare le emozioni
provate dagli individui in diverse culture.
Le fotografie raffiguravano volti di persone intente ad esprimere
le emozioni più disparate.
Paul Ekman, assodato che in ogni cultura esisteva un’ampia
percentuale di consensi nel riconoscere le emozioni sottese alle
espressioni dei volti, soprattutto per quelle considerate primarie
(ovvero rabbia, disgusto, paura, sorpresa, felicità, tristezza ecc.)
giunse alla conclusione che dovevano esistere dei programmi
1
Perrone, 2006, pp.115
10
motori innati, che garantivano l’universalità dell’espressione
mimica facciale delle emozioni.
La cultura influirebbe in minima parte nella modulazione delle
emozioni.
Infatti secondo la teoria neuro-culturale da lui elaborata, esiste per
esempio una forma del sorridere comune a tutte le popolazioni per
esprimere gioia.
Ma il quanto, il come sorridere, è vincolato a norme soggettive
culturalmente determinate, e apprese durante la socializzazione
nel contesto d’appartenenza.
Più di un secolo fa Charles Darwin scriveva che l’espressione
delle emozioni è universale, non acquisita diversamente in
ciascuna cultura: è biologicamente determinata, un prodotto
dell’evoluzione della specie; da allora, molti autori hanno
espresso un dissenso radicale, ma di recente la ricerca scientifica
ha risolto il problema una volta per tutte, dimostrando che la
mimica di almeno alcune emozioni è universale, anche se esistono
differenze culturali in cui tali espressioni si manifestano.
Le ricerche condotte da Paul Ekman e Wallace V. Friesen in
laboratorio hanno avuto un ruolo determinante per giungere a
queste conclusioni.
In un esperimento si sono mostrate fotografie di volti che
esprimono le diverse emozioni a osservatori di vari paesi: Stati
Uniti, Giappone, Cile, Argentina e Brasile
2
.
Ai soggetti si chiedeva di scegliere una delle sei emozioni
primarie per ogni volto.
Se l’espressione delle emozioni fosse un linguaggio diverso da
cultura a cultura, allora una mimica che ai nordamericani sembra
2
Ekman e Friesen, 2007, p.42
11
di rabbia un brasiliano potrebbe prenderla per disgusto o paura,
oppure trovarla incomprensibile.
I risultati dimostrarono il contrario: le varie fotografie erano
giudicate espressione delle stesse emozioni in tutti i paesi presi in
esame, indipendentemente dalla lingua e dalla cultura.
Lo stesso esperimento è stato condotto da Carroll Izard con
soggetti di otto culture diverse, ottenendo la stessa dimostrazione
di universalità.
Tuttavia permaneva una lacuna; tutti i soggetti esaminati avevano
esperienze visive in comune, non direttamente, ma attraverso i
mass media.
C’era la possibilità che l’espressione delle emozioni in realtà
fosse diversa da una cultura all’altra, ma che attraverso il cinema,
la televisione e le riviste illustrate le persone avessero imparato a
riconoscere le varie mimiche, oppure che la mimica stessa fosse
identica in tutte le culture proprio perché tutti avevano imparato a
manifestare le proprie emozioni imitando gli stessi attori visti al
cinema o in televisione.
Non si poteva quindi escludere che, in persone che non avessero
avuto occasione di osservare come i mass media rappresentassero
le emozioni, queste potessero mostrarsi attraverso movimenti del
tutto diversi dei muscoli facciali.
L’unico modo per risolvere la questione era osservare persone del
tutto isolate, prive di contatti con i mezzi di comunicazione e con
scarsissimi contatti con il mondo esterno.
Ekman e Friesen organizzarono una spedizione scientifica sugli
altipiani sud orientali della Nuova Guinea, dove viveva una
popolazione che rispondeva a questi criteri di isolamento
3
.
3
L’esperimento in Ekman e Friesen, 2007, p.44
12
Dato che queste persone non erano abituate assolutamente ai test
psicologici o agli esperimenti di laboratorio, e dato che i due
ricercatori non conoscevano la lingua indigena, si rese necessaria
la presenza di un interprete ed un cambio di procedura standard.
Negli altri paesi si presentavano singole fotografie delle diverse
mimiche emotive chiedendo ai soggetti di scegliere in una lista di
parole, indicanti le varie emozioni elementari.
In Nuova Guinea, al soggetto si presentavano tre fotografie
contemporaneamente e si raccontava una storia a contenuto
emotivo, ad esempio: “la madre è morta”, chiedendogli di
indicare quale delle tre facce corrispondesse a quella storia.
I due psicologi si resero conto che anche in quel contesto culturale
le risposte coincidevano con quelle ottenute negli altri
esperimenti, con un’unica eccezione: i soggetti della Nuova
Guinea non distinguevano le mimiche di paura da quelle di
sorpresa.
Benchè l’aspetto del viso per ciascuna emozione primaria sia
comune a tutti i popoli, le culture differiscono sotto almeno due
aspetti.
Anzitutto in ciò che suscita una certa emozione: le persone
proveranno disgusto o paura in risposta a cose diverse nelle
diverse culture.
Secondo, le culture differiscono nelle convenzioni che dettano il
controllo della mimica in situazioni sociali date: alla morte d’una
persona cara tutti proveranno tristezza, ma una cultura può
prescrivere che i dolenti assumano una maschera di sereno
contegno.
Di tutt’altro parere erano i sostenitori della teoria culturalista.
Infatti, l’altro polo, il cui esponente principale è Birdwhistell,
sosteneva, in contrasto con Ekman, che fosse proprio l’influsso
dell’ambiente e l’interazione con esso, l’elemento costitutivo
13
dell’acquisizione di norme e strumenti per lo sviluppo della
comunicazione non verbale.
Come accade spesso quando si scontrano modelli teorici in così
evidente disaccordo, un passo decisivo per dirimere la
controversia si ottiene con l’evolversi delle conoscenze.
Oggi infatti, le due prospettive sono integrate come due facce
della stessa medaglia.
Esattamente ciò che sosteneva Anolli, quando nell’affermare il
bisogno di una prospettiva diversa che sappia render conto della
stretta interdipendenza tra natura e cultura scrive:
“La comunicazione non verbale si fonda su circuiti nervosi
specifici, deputati all’attivazione e alla regolazione dei movimenti
sottesi alle diverse forme di comunicazione non verbale, in
quest’attività nervosa s’integrano processi elementari automatici,
di ordine inferiore, con processi volontari e consapevoli, di
ordine superiore. Le predisposizioni genetiche sono declinate di
volta in volta secondo linee e procedure distinte e differenziate
che conducono a modelli comunicativi diversi e, talvolta, assai
distanti tra loro”
4
.
Alla luce di queste affermazioni, risulta evidente come nella CNV
siano inestricabilmente legati fattori genetici e culturali, e che
solo l’apporto sinergico di entrambi può, senza riduzionismi
eccessivi, render conto dell’universalità e della particolarità
riscontrata nelle espressioni facciali di popolazioni differenti.
4
Verrastro, 2008, p.95
14
1.2 Tassonomia
Classifichiamo i fenomeni relativi al sistema non verbale in due
branche:
Paraverbale o prosodico (con riferimento agli aspetti vocali
non verbali del parlare: timbro, tono, velocità, emissioni non
grammaticali e istintive);
Extraverbale o cinesico (con riferimento a tutti i segnali
inviati dal corpo umano).
Del tutto speculare al quadro dei fenomeni è quello riferito alle
discipline che se ne occupano.
Cosicchè il “paraverbale” è oggetto di ricerca della
paralinguistica o prosodia, mentre il novero dei fenomeni qui
definti “extraverbali” ( per distinguerli dal non verbale di cui tutti
questi fenomeni nel loro insieme sono parte) è oggetto di ricerca
della cinesica e della prossemica, disciplina che occupandosi della
distanza interpersonale, si è conquistata sul campo una chiara
autonomia scientifica.
Peraltro la tassonomia proposta non intende offrirsi come
conclusiva, anzi, il quadro classificatorio potrebbe ulteriormente
articolarsi se volessimo considerare autonomamente alcune aree
disciplinari come, per esempio, quella relativa al contatto
corporeo (body contact), dominio di un ambito di studi a parte
chiamato aptica.
15
Non a caso diversi autori come Graddol, Chesir, Swann e Anolli
trattano oggi l’aptica distinguendola ormai nettamente sia dalla
prossemica sia dalla cinesica.
Le aree della comunicazione paraverbale
5
sono quelle che fanno
riferimento agli aspetti puramente auditivi della comunicazione
interpersonale:
Il timbro cioè la distintiva caratteristica sonora della voce che
genera in chi ascolta una sensazione auditiva peculiare e
originale. Il timbro molto spesso consente l’agevole
riconoscibilità di una voce in quanto appartenente a Tizio o Caio,
un bambino, un uomo o una donna.
L’intensità è definibile come la potenza dell’emissione vocale:
essa può variare in funzione di necessità pratiche: parlare ad un
interlocutore lontano o in un luogo rumoroso, o in ragione di
determinanti emotive quali nervosismo, stanchezza, esaltazione.
L’intonazione è la modulazione della voce nel pronunciare una
parola o una frase. Tale livello comunicativo è insopprimibile nel
parlato, infatti molte funzioni linguistiche che nello scritto sono
affidate a segni di interpunzione tipici, nel parlato sono
esprimibili e riconoscibili grazie all’intonazione: asserzioni,
domande, esclamazoni, ingiunzioni.
La durata, cioè i tempi di emissione dei suoni, la lunghezza
temporale assegnata all’articolazione delle parole e frasi. La
velocità dell’eloquio è di norma inversamente proporzionale
all’enfasi che si vuol mettere in un dato segmento del parlato.
In altri termini, la velocità nel pronunciare una frase diminuisce
con l’aumentare del livello di importanza o solennità che le si
vuole attribuire.
5
Perrone, 2006, pp.117-118
16
Le pause ossia interruzioni di diversa durata, della normale
velocità d’eloquio. Il fenomeno delle pause, strettamente
connesso con quello del’intonazione da un canto e con quello
della durata dall’altro, si riflette solo in parte nei segni di
punteggiatura tipici (virgola, punto e virgola, punto) a cui lo
scritto si affida.
Nella realtà del parlato come esperienza empirica registriamo
anche altre pause, molto più brevi di quelle indicate dalla virgola,
le cosiddette “cesure” ed altre “pause oratorie”, sicuramente più
lunghe, di quelle indicate nella dimensione scritta, dal punto.
Le emissioni non grammaticali come tutte le vocalizzazioni, non
corrispondenti a parole con senso compiuto, con funzioni
esclamative, dichiarative, dubitative, o semplicemente riempitive
come: “Hmm” “Ah”, assumono un significato se ricondotte allo
stato d’animo di chi parla. Alcuni sospirano costantemente,
tossicchiano, ripetono espressioni tipo “Uhm”, essi senza
accorgersene, rivelano forme di sofferenza psicologica di cui non
hanno individuato le cause.
A questa stessa categoria appartengono anche quei tipi di
intercalare che, corrispondendo a parole dotate di senso, sono
anch’essi posti nella frase a puro scopo riempitivo.
Alcuni dei fenomeni descritti sono del tutto indipendenti dalla
volontà dell’emittente, ad esempio il timbro di voce; altri vengono
impostati sulla base di una più o meno accentuata consapevolezza
da parte dell’emittente: intonazione, durata e pause.
In altri ancora, come nel caso dell’ emissione non grammaticale,
l’atteggiamento dell’emittente è di semi-consapevolezza.
Se invece vogliamo analizzare la comunicazione extraverbale
6
,
identificheremo quelle aree in cui è implicato primariamente il
6
Perrone 2006, pp.118-123
17
sistema visivo, benché a distanza interpersonale molto ravvicinata
siano coinvolte anche percezioni sensoriali di tipo olfattivo,
tattile, termico, gustativo.
D’altra parte va riconosciuta la rilevanza dell’elaborazione visiva
simultanea e analogica delle informazioni che ci arrivano
attraverso la vista nel 90% dei casi, il resto attraverso il canale
uditivo.
La postura del corpo è portatrice di vari significati in merito a
stato emotivo, freschezza o stanchezza psico-fisica, attenzione,
autorità o deferenza nei confronti degli interlocutori. Ad esempio
la postura è un segnale di status: le persone sono più rilassate in
presenza di qualcuno di status inferiore e meno quando si
relazionano con un superiore; la postura varia inoltre con lo stato
emotivo e spesso uno stato di ansia può non trapelare dal viso ma
dalla postura tenuta dal soggetto.
L’orientazione corrisponde all’angolo assunto dall’individuo o da
parti del suo corpo rispetto al proprio interlocutore.
L’orientazione del corpo può dunque essere tendenzialmente
frontale, di fianco e di tre quarti.
Quella delle gambe, da seduti, può essere centrale o laterale. Tutte
queste posizioni possono dotarsi di significato.
La gestualità generalmente attiene ai movimenti e ai micro-
comportamenti del corpo. Schegloff ha osservato come il
gesticolare con le mani sia un movimento tipico di chi parla
piuttosto di chi ascolta. Questa relazione stretta tra il gesticolare
con le mani e il parlare non può estendersi al gesticolare con le
altre parti del corpo come la testa.
I movimenti del capo, pur rappresentando un campo a sé stante,
assumono talvolta il pieno significato di gesto, specialmente
quando prodotti in piena consapevolezza. Su alcuni movimenti
della testa di tipo involontario come dondolamenti o piegamenti
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in avanti e indietro, dettati dalla noia, dalla stanchezza o
dall’avvenuta distrazione, si può forse nutrire il dubbio se definirli
o no gesti.
Altri movimenti sono l’oscillazione verticale e orizzontale, a voler
esprimere il “si” e il “no”; da sottolineare come in alcune zone
dell’area mediterranea come la Sicilia e Cipro, il “no” venga
espresso con un unico movimento verticale, dal basso verso l’alto,
e non orizzontale del capo.
Il nostro volto è una macchina estremamente sofisticata e
complessa con la funzione primaria di comunicare delle emozioni.
Il primo studioso che ha posto l’accento sul valore emotivo della
mimica facciale è stato Charles Darwin, ideatore della teoria
dell’evoluzione.
Il suo saggio “L’espressione delle emozioni negli uomini e negli
animali” del 1872 è stato preceduto da due secoli di speculazione
da parte degli anatomisti e dei fisionomisti di cui Darwin ha
respinto le tesi. La sua teoria principale è che le emozioni
espresse dagli animali hanno svolto varie funzioni, tra cui quella
di aiutare la specie a sopravvivere; tra l’altro era possibile che
certe manifestazioni fossero biologicamente programmate e
soggette al processo della selezione naturale allo stesso modo di
altre disposizioni comportamentali.
Gli studi di Darwin furono ripresi ed approfonditi dallo psicologo
americano Paul Ekman che è arrivato alla conclusione che
l’espressione facciale è meno soggetta alle variazioni culturali
rispetto ad altri tipi di comportamento non verbale.
Come sosteneva Alessandro Dumas padre, nel Paul Jones: “Dio
ha voluto che lo sguardo dell’uomo fosse l’unica cosa che egli
non può nascondere”.
In effetti tra i segnali extralinguistici, lo sguardo occupa una
posizione speciale. L’espressione degli occhi, si realizza grazie al