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Prefazione
Io e il marketing
Un incontro tardivo, ma per molti versi folgorante, quello tra me e il marketing.
Quando, ormai cinque anni fa, mi iscrissi a Scienze della comunicazione la realtà
aziendale non figurava certo tra i miei interessi. Mi piaceva scrivere: c‟era una
mezza idea di fare il giornalista, o magari il pubblicitario, ma del marketing nean-
che l‟ombra. Le mie prime esperienze con le materie economiche (micro e ma-
croeconomia) non fecero altro che rafforzare questa posizione: c‟era già troppa
matematica per i miei gusti e il tutto mi appariva tremendamente fine a se stes-
so, lontano dalla realtà. Così decisi di impostare il mio piano di studi in modo da
tenermi a debita distanza da queste materie.
Si potrebbe dire che la mia carriera universitaria sia stata segnata da una serie
di “innamoramenti” intellettuali. La prima scintilla scoccò con la semiotica: non
saprei dire il perché, forse mi affascinava il tentativo di questa scienza di trovare
le strutture profonde e comuni che stanno dietro alle cose. Mi piaceva provare
ad applicare i suoi modelli alla realtà che mi circondava (libri, film, pubblicità),
anche se non riuscivo a scrollarmi di dosso la sensazione di star intraprendendo
un gioco intellettuale piacevole, ma ancora troppo lontano dall‟avere un‟utilità
pratica.
Lo step successivo fu la passione per la sociologia, quella fatta sul campo, a con-
tatto con la gente. Non a caso la mia tesi di laurea triennale fu una sorta di stu-
dio etnologico dedicato a uno dei miei più grandi hobby: il calcio. Decisi di studia-
re da vicino un fenomeno controverso come quello dei gruppi ultras e, sarò one-
sto, per me fu un po‟ come prendere due piccioni con un fava (o, per usare i ter-
mini del marketing, un vantaggiosissimo “prendi 2 e paghi 1”): mi abbonai allo
stadio, seguii per un anno intero la mia squadra del cuore e intanto ebbi modo di
approfondire (attraverso una serie di dialoghi e interviste) cosa significhi il calcio
per queste frange estreme del tifo. Fu un‟esperienza appassionante e, per molti
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versi, di crescita, che mi aiutò ad affrontare con meno sospetto ambienti e per-
sone all‟apparenza molto distanti da me.
Così arrivai alla scelta del corso di laurea specialistica. Fu una decisione veloce,
forse, guardandola a posteriori, affrettata: optai per la continuità rispetto al piano
di studi impostato durante il triennio e la scelta cadde su Comunicazione multi-
mediale e di massa. La verità è che non avevo un‟immagine chiara del mio futu-
ro: la vocazione giornalistica mi sembrava alquanto flebile e la passione per la
sociologia troppo estemporanea per darmi la forza di tentare la “scalata” a una
cattedra universitaria.
Fu a partire da queste condizioni e attraverso una serie di ragionamenti che, alla
fine, approdai al marketing. Innanzitutto, la “strada della continuità” da me scel-
ta si rivelò più che altro una “strada della ripetizione”. Troppo spesso mi trovai ad
ascoltare lezioni già sentite e a studiare concetti già ampiamente approfonditi
durante il triennio, senza riuscire a togliermi dalla testa che tutto ciò fosse uno
spreco di tempo e denaro. Dunque, una prima importante spinta che mi fece av-
vicinare al marketing fu la volontà di trovare nuovi stimoli e ampliare il mio baga-
glio di conoscenze.
Ma ci fu anche una seconda e determinante ragione: il fatto di dover cominciare
a interrogarmi seriamente su dove sarei andato a finire una volta terminati i miei
studi. La risposta la andai a cercare ancora una volta tra le mie passioni. In-
somma, quando una persona deve figurarsi cosa farà nei suoi, su per giù, pros-
simi quarant‟anni di vita è naturale che, almeno in principio, si immagini
un‟esistenza in cui può lavorare su ciò che più la appassiona. Bene, al di là del
calcio, le mie passioni si concentravano (e si concentrano tutt‟ora) in un ambito
ben specifico: l‟industria dell‟intrattenimento. Cinema. Musica. Soprattutto vide-
ogiochi.
Non essendo io un aspirante regista, un promettente compositore (solo qualche
esperienza da dj alle spalle), né tantomeno un programmatore informatico, mi
incominciai a interrogare su come avrei potuto far fruttare le mie competenze
all‟interno di questi settori. In particolare iniziai a visitare con assiduità i siti
internet delle principali compagnie videoludiche, con un occhio di riguardo per le
pagine delle offerte di lavoro. Bene, una costante caratterizzava queste pagine:
la ricerca di uomini marketing. Il che voleva dire un‟altra cosa: per darmi almeno
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una chance all‟interno di questi ambiti, dovevo imprimere una decisa svolta al
mio piano di studi in direzione “economico-aziendale”. Lo feci e, dopo aver segui-
to due corsi di marketing, posso dire che fu una delle migliori decisioni della mia
carriera universitaria.
Fu folgorazione, dunque. Mi avvicinai al marketing ancora scottato dalle mie gio-
vanili esperienze con micro e macroeconomia e scoprii un mondo nuovo e stimo-
lante. Certo, erano ancora presenti numeri, grafici, relazioni domanda-offerta e
via dicendo, ma il tutto era saldamente legato alla realtà esterna e al raggiungi-
mento di risultati concreti (gli obiettivi aziendali). Non solo, la professione di
marketer sembrava rappresentare il giusto compromesso tra le mie precedenti
passioni intellettuali, perché, al di là delle necessarie basi economiche, richiede-
va una capacità di lettura della società e delle persone e di interazione con que-
ste di stampo decisamente umanistico (una sorta di incontro tra semiotica, so-
ciologia, psicologia, senza dimenticare la fortissima componente comunicativa).
E poi a entusiasmarmi c‟era il continuo gioco di incastri a cui il marketing sotto-
poneva la mia mente: un puzzle fatto di prodotto, prezzo, distribuzione, comuni-
cazione in cui ogni componente perdeva di valore se non era rapportata alle altre
e al contesto esterno (concorrenti, consumatori, mercato). Una sfida che non po-
teva lasciare indifferente un videogiocatore di vecchia data formatosi su Tetris
come me.
L‟idea di scrivere una tesi di laurea specialistica incentrata sul marketing fu il na-
turale coronamento di questo processo. Non restava che trovare l‟argomento
specifico.
La prima volta che sentii parlare di “strategia oceano blu”, la teoria ideata dagli
studiosi W. Chan Kim e Renée Mauborgne e incentrata sull‟idea di rifiutare le
tradizionali regole della competizione per cercare spazi di mercato incontestati,
fu, guarda caso, su una rivista di videogiochi. In particolare si parlava del clamo-
roso successo ottenuto dall‟azienda Nintendo con la console Wii, una macchina
estremamente “semplificata” e meno performante rispetto a quelle proposte dai
colossi Sony e Microsoft, ma in grado di ampliare a dismisura i confini del merca-
to dei videogiochi catturando l‟interesse di nuovi clienti (donne e persone di età
superiore ai 40 anni).
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Subito cominciai a pregustare l‟idea di applicare il mio recente interesse per il
marketing alla mia, quasi ventennale, passione per i videogiochi e così ne parlai
al Professor Enrico Postiglione, docente del corso di “Marketing C” presso
l‟Università di Torino nell‟anno accademico 2008/2009. Incassai un “sì” e un
“no”. Il professore, infatti, si dimostrò molto interessato e disponibile ad appro-
fondire l‟argomento “strategia oceano blu”, ma mi consigliò di cercare un altro
caso di studio, in quanto l‟azienda Nintendo e le sue strategie erano già state
trattate da un suo tesista dell‟anno precedente.
Mi presi un po‟ di tempo e lo dedicai a una lettura approfondita del libro di Kim e
Mauborgne. Man mano che la mia conoscenza dell‟argomento aumentava, mi
rendevo sempre più conto di quante potessero essere le applicazioni e i casi di
studio. Tra le aziende papabili figuravano nomi quali Dell, Swatch, Ikea, Apple,
Starbucks, tutte aziende che, in un modo o nell‟altro, avevano rifiutato la concor-
renza diretta con i propri competitor per ricercare opportunità e spazi di mercato
liberi e dunque estremamente profittevoli. Tuttavia nessuno di questi casi riusci-
va a convincermi al 100%: mi sembravano tutti molto noti, già sentiti, già letti.
Ma, infine, arrivò l‟idea giusta, forse più controversa delle precedenti, ma anche
per questo molto più stimolante: Red Bull.
Perché Red Bull? Semplice, perché inizialmente non riuscivo a spiegarmi il suo
straordinario successo. Insomma, perché una bibita dal gusto non particolar-
mente apprezzato (per ammissione della stessa azienda), venduta in un formato
più piccolo e a un prezzo estremamente più alto rispetto alle altre bevande gasa-
te, sembrava essere l‟unica in grado di crescere in un momento di stagnazione
del mercato beverage? La risposta stava proprio nella strategia oceano blu e in
tutta quella serie di approcci innovativi riassumibili nell‟etichetta di “marketing
non-convenzionale”: Red Bull aveva rifiutato il confronto diretto con i colossi del
mercato, proponendo una bevanda funzionale (energizzante) che si collocava a
metà strada tra i soft drink (da Coca Cola a Pepsi) e gli sport drink (su tutti
Gatorade) e si concentrava su un pubblico giovane e in grado di attivare mecca-
nismi di passaparola dall‟effetto contagioso.
Le pagine che seguono rappresentano, dunque, il tentativo di fare il punto sulle
ultime teorie dell‟innovazione affermatesi nel marketing, attraverso lo studio del-
le strategie e delle azioni di un‟azienda innovativa come Red Bull. Naturalmente
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non mancheranno anche gli interrogativi su quale possa essere il futuro di que-
sta azienda che, dopo aver creato circa 20 anni fa un nuovo settore (quello degli
energy drink appunto), è oggi chiamata a decisioni importanti perché ogni ocea-
no blu è destinato, infine, a tingersi di rosso, il colore della competizione. Sarà,
forse, proprio in queste valutazioni e previsioni del futuro che potrò fornire i miei
contributi più originali. O almeno, questo è il mio augurio.
Buona lettura.
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1. Oceani blu, mucche viola
e tori rossi
1.1 Innovazione: semplice moda?
Per quanto possa sembrare paradossale anche gli uomini di marketing subisco-
no l‟irresistibile fascino delle mode. È così: nonostante siano i principali artefici
dei più grandi “tormentoni” che invadono i nostri mercati, sembrano poi essere
anche i primi a subirli in modo convinto e compiaciuto.
Solo in questo modo si può spiegare, forse, un fenomeno che, negli ultimi anni,
ha coinvolto il pensiero di marketing: il vero e proprio proliferare di teorie e libri
dedicati al tema dell‟innovazione. Che si parli di “oceani blu”
1
, di “mucche viola”
2
o di “marketing non-convenzionale”
3
, dietro a queste bizzarre metafore elaborate
da brillanti studiosi di marketing si cela un concetto comune: “oggi più che mai
l‟azienda che innova, emerge, si fa notare, è l‟azienda che vince”.
La reazione a caldo tende a essere: “bella scoperta!”. Effettivamente si potrebbe
pensare che non servano brillanti studiosi di marketing per arrivare a queste
conclusioni. Insomma, è sufficiente guardarsi attorno, conoscere un minimo del-
la storia del genere umano, per rendersi conto che da sempre, non solo in ambi-
to aziendale, l‟innovatore vince e il pigro resta a guardare. È basandosi su questi
ragionamenti che potrebbe sorgere il sospetto che la sfilza di libri e teorie
sull‟innovazione non faccia altro che cavalcare l‟onda di una moda temporanea
redditizia, ma poco significativa ai fini di un avanzamento del pensiero strategico
di marketing.
Eppure io credo valga la pena di provare a cavalcare quest‟onda. D‟altronde le
reazioni a caldo sono spesso affrettate. E poi, lo ammetto, forse ho semplificato
eccessivamente i termini in gioco riassumendo con una semplice frase le teorie
1
W. Chan Kim, R. Mauborgne, Strategia oceano blu. Vincere senza competere, Etas, Milano, 2005.
2
S. Godin, La mucca viola. Farsi notare (e fare fortuna) in un mondo tutto marrone, Sperling & Kupfer,
2004.
3
B. Cova, A. Giordano, M. Pallera, Marketing non-convenzionale, Il sole 24 ore, Milano, 2008.
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di studiosi ben più esperti e preparati di me. Forse i loro studi meritano una lettu-
ra più approfondita: è per questo che nelle prossime pagine parlerò di innovazio-
ne, di teorie dell‟innovazione e di aziende innovative.
Sarò solo l‟ennesima vittima di una moda?
1.2 Innovazione? Sì, grazie
Un fatto è innegabile: aziende in grado di anticipare i tempi, aprire nuovi spazi di
mercato, individuare bisogni ancora insoddisfatti, in una parola aziende capaci di
innovare, esistono da sempre e quindi da ben prima che si parlasse di “oceani
blu” o “mucche viola”. Ma di questo sono più che mai consapevoli gli autori delle
teorie sopracitate. D‟altronde fin dalle prime pagine del loro libro Kim e Maubor-
gne, ideatori della “strategia oceano blu”, avvertono il lettore: “benché
l‟espressione oceani blu sia di recente invenzione, la loro esistenza non lo è af-
fatto. Essi hanno sempre fatto parte del business […] La realtà è che i settori in-
dustriali non stanno mai fermi: si evolvono continuamente”
4
.
Ma se dunque l‟innovazione è un processo continuo e quasi inevitabile, perché
oggi è diventato così importante studiarla? La risposta è semplice: perché oggi
l‟azienda che non innova non solo non vince, ma, nel medio - lungo periodo, con
buona probabilità non riesce neanche a sopravvivere.
Tale situazione è frutto del convergere di molteplici fattori. Da un lato
l‟accelerazione del processo tecnologico (e il conseguente aumento della produt-
tività industriale) e la sempre più imponente globalizzazione dei mercati hanno
portato a una crescita esponenziale dell‟offerta di prodotti e servizi. Dall‟altro il
calo demografico di molti mercati sviluppati e l‟imporsi di stili di vita dai compor-
tamenti sempre più frenetici sono causa di una stagnazione della domanda a li-
vello mondiale e di una sempre maggiore sfuggevolezza dei consumatori verso
quelle tecniche di marketing che tradizionalmente riuscivano a catturare la loro
attenzione.
4
W. Chan Kim, R. Mauborgne, Strategia oceano blu. Vincere senza competere, p. 6.
14
Seth Godin, padre della “mucca viola”, definisce quest‟ultimo fenomeno “la mor-
te del complesso industriale-televisivo”
5
. Alcune delle aziende e dei marchi di
maggiore successo del XX secolo (da Coca Cola a Procter & Gamble passando
per Volkswagen) non sono altro che frutto di questo sistema ormai agonizzante
che poneva nella pubblicità di massa (in particolare quella televisiva) il motore
del successo di un prodotto. Il principio era molto semplice: acquistare grandi
quantità di spazi pubblicitari in modo da ottenere una distribuzione capillare da
cui derivava un aumento di vendite e profitti da reinvestire poi nell‟acquisto di ul-
teriori spazi pubblicitari.
Il modello funzionava straordinariamente bene. I consumatori venivano educati
fin dall‟infanzia a utilizzare la presentazione televisiva di prodotti e servizi come
principale strumento di analisi della loro qualità. In altre parole, le aziende che
non comparivano in televisione (o sugli altri mezzi di comunicazione di massa)
non rientravano nel ventaglio di scelte dei consumatori e si precludevano dun-
que la possibilità di ottenere una distribuzione soddisfacente e di generare pro-
fitti.
L‟alleanza tra marketing e televisione è stata talmente proficua e duratura da di-
ventare il centro del processo di ideazione e immissione sul mercato di nuovi
prodotti. Le famose quattro P del marketing (product, price, promotion e place)
sono state forgiate proprio a partire da questa alleanza e con la precisa finalità di
rafforzarla e renderla sistematica.
5
S. Godin, La mucca viola. Farsi notare (e fare fortuna) in un mondo tutto marrone, p. 22.
Acquisto spazi
pubblicitari
Aumento
distribuzione
Aumento
vendite
Profitti
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Dunque, gran parte della letteratura di marketing si è concentrata su processi e
meccanismi che tuttavia oggi, dopo quasi mezzo secolo, sembrano non funziona-
re più, o almeno non garantire più i risultati di un tempo. Questa è la verità: i rit-
mi della vita contemporanea non permettono più ai consumatori di prestare a-
scolto a qualunque medium che interrompa il flusso delle loro attività.
Ma c‟è dell‟altro. Con buona probabilità, infatti, anche se i consumatori dispo-
nessero di grandi quantità di tempo libero non avrebbero nessunissima intenzio-
ne di dedicarlo ad aziende che continuano a pensare, comunicare e agire se-
guendo i vecchi dogmi del marketing.
Tuttavia questa resistenza al marketing non è segno di un desiderio improvviso
di smettere di comprare, semplicemente è conseguenza di radicali cambiamenti
della società e delle persone che vivono al suo interno. Con l‟avvento della socie-
tà dell‟informazione, i consumatori scoprono un‟improvvisa voglia di interagire
con le marche, le quali, a causa anche della crisi delle istituzioni tradizionali
(Famiglia, Stato, Chiesa, ecc…), diventano un elemento chiave nella costruzione
della propria identità.
Naturalmente ciò significa che il consumatore non è più disposto a ricoprire un
ruolo passivo, di semplice comprimario: “Lei, la Marca, abituata ad essere cor-
teggiata e desiderata da lontano, si accorge che il suo Lui, il Consumatore, è di-
ventato improvvisamente meno romantico e più intraprendente. Non più platoni-
co e adorante come un tempo, oggi propone avances e chiede un rapporto più
stretto, più coinvolgente dal punto di vista della relazione. L‟aplomb di lei non
basta più e per questo le è necessario un abbandono maggiore. Un concedersi
più intenso e alla pari per tornare – in veste nuova – ai fasti afrodisiaci di una
volta”.
6
Di fronte a consumatori sempre più appassionati, uniti ed esperti (grazie anche
alle nuove opportunità offerte da internet), l‟unica via percorribile sembrerebbe
quella di un nuovo bilanciamento delle capacità di relazione tra impresa e con-
sumatore, del superamento delle tradizionali barriere tra offerta e consumo. Tut-
tavia gran parte delle aziende, intrappolate all‟interno di mercati ultra-competitivi
e incapaci di comprendere i cambiamenti in atto, continuano a rispondere attra-
6
Sono queste le parole usate da Maurizio Sala, vicepresidente del Gruppo Armando Testa, nella prefazione
a B. Cova, A. Giordano, M. Pallera, Marketing non-convenzionale.
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verso le vie tradizionali del marketing strategico. Il che vuol dire essenzialmente:
bombardamenti pubblicitari, che finiscono per generare un rigetto sistematico da
parte dei consumatori, e guerra dei prezzi, in grado di garantire nel breve periodo
la sopravvivenza e il mantenimento delle quote di mercato, ma nel medio - lungo
periodo causa di una perdita di valore dei brand, della trasformazione di beni e
servizi in commodity
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e di una progressiva riduzione dei profitti.
In altre parole, di fronte alle crescenti difficoltà, molte aziende non fanno altro
che riproporre modelli vecchi e stantii, continuando a navigare nelle acque rosse
della competizione, invece di scegliere quelle blu dell‟innovazione. Non si tratta
solo di mancanza di coraggio o di incapacità di assunzione di rischi, ma di una
vera e propria carenza del pensiero strategico di marketing sull‟argomento.
Ecco perché una completa e ricca letteratura sull‟innovazione, più che una mo-
da, a me pare un‟urgente necessità e, per molti versi, un punto di partenza. Un
punto di partenza perché non si può pensare che sia sufficiente scrivere
d‟innovazione per rendere improvvisamente profumata l‟aria muffosa che si re-
spira in gran parte del mondo aziendale. Il problema è più vasto, di mentalità.
Quello che serve è una “cultura dell‟innovazione”, una naturale disposizione al
“non accontentarsi”, al non limitarsi al già detto e al già fatto (tanto a livello di
produzione, quanto di comunicazione e vendita).
È chiaro che per arrivare a ciò non bastano singoli libri, master o corsi universita-
ri. Serve il giusto mix di tutti questi elementi accompagnato da un continuo con-
fronto con la concreta realtà aziendale: una realtà che offre, anche se raramente
e spesso più per necessità che per reale lungimiranza, alcuni casi di aziende
“portatrici sane di innovazione”.
1.3 La cura è il virus
In sostanza, come emerge dalle pagine precedenti, sono due le strade che il
marketing odierno ha abbozzato nel tentativo di trovare una soluzione alla crisi
dei suoi strumenti tradizionali. Da un lato c‟è chi pone l‟accento sui mercati e sul-
la necessità di un approccio innovativo a questi, attraverso un ribaltamento delle
7
Si ricorda che con commodity si intende “un prodotto tanto standardizzato da non poter essere differen-
ziato fisicamente nella mente dei consumatori”. Definizione tratta da P. Kotler, Marketing management,
Pearson Education Italia, 2007.
17
regole della competizione, troppo spesso diventate qualcosa di implicito e scon-
tato quasi fossero dogmi inconfutabili. È la via indicata da Kim e Mauborgne
quando invitano le aziende a spendere il proprio tempo e le proprie risorse nella
ricerca di mercati incontestati (oceani blu) piuttosto che nella serrata competi-
zione dei mercati già conosciuti (oceani rossi).
Dall‟altro lato c‟è chi adotta un approccio più ampio e semio-sociologico, parten-
do da un‟ analisi della società e dei consumatori postmoderni. In questo caso è
più difficile parlare di una singola teoria o di un singolo autore, ma si dovrebbe
parlare piuttosto di una grande varietà di contributi che hanno trovato una buona
sistematizzazione all‟interno del già citato concetto-ombrello di “marketing non-
convenzionale”. Data la maggiore generalità di questo secondo approccio, credo
sia più corretto partire proprio dal suo approfondimento, per poi passare alla più
specifica analisi dei mercati alla base della contrapposizione tra oceani rossi e
oceani blu.
Punto di partenza, dunque, è la constatazione dell‟avvento della società postmo-
derna o “neotribale”. Una società in cui i miti del progresso, dell‟individualismo e
del consumo fine a se stesso si incrinano inevitabilmente ed emerge un nuovo
bisogno di aggregazione, di condivisione delle esperienze, di emotività. Così na-
scono le neotribù: “insiemi di individui non necessariamente omogenei fra loro
[…], ma interrelati mediante un‟identica soggettività, affettività o etica, e capaci
di svolgere azioni microsociali vissute intensamente benché effimere”
8
.
Si potrebbe controbattere che raggruppamenti di questo genere siano sempre
esistiti: solo negli ultimi 50 anni si contano “mods”, “teddy boys”, “hippy”, “skin-
head”, “ultras” e via dicendo. La novità sta nel fatto che i meccanismi tribali oggi
non riguardano più realtà ristrette di giovani, ma l‟intera società.
Ciò, naturalmente, ha degli importanti risvolti a livello dei consumi, dove le co-
siddette “comunità di marchio” assumono un ruolo sempre più centrale. Da un
lato i consumatori, raggruppandosi intorno a un certo prodotto o brand, trovano
un modo agevole di costruire o rafforzare la propria identità, dall‟altro le aziende,
se offrono i giusti “rituali” alle tribù (oggetti, abiti, luoghi, parole, immagini) e in-
8
B. Cova, A. Giordano, M. Pallera, Marketing non-convenzionale, pp. 14-15.