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INTRODUZIONE
Il presente studio vuol essere un’analisi sull’insediamento degli immigrati
dai paesi a sviluppo avanzato in Italia e, più precisamente, nella regione Toscana.
Prenderò in considerazione soltanto quella fascia d’immigrati d’origine anglofona,
vale a dire Britannici, Irlandesi, Statunitensi, Canadesi, Australiani e Neo
Zelandesi.
Partendo da dati generali inerenti lo stato italiano, cambierò di scala
scendendo a livello regionale e in seguito a livello provinciale e comunale per
analizzare specifiche comunità e agglomerati di madre lingua inglese stabilitesi
nel nostro territorio. Tutti i dati statistici forniti sono ufficiali, pubblicati dagli
istituti CARITAS, ISTAT, EUROSTAT, SOPEMI, DEMOSTAT e relativi agli
stranieri registrati all’anagrafe (i residenti), aggiornati al 1° gennaio 2004
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.
Il mio intento è quello di presentare una tesi geografico-antropologica
inerente questo specifico gruppo umano, immigrato in questa specifica porzione
di territorio italiano, che rappresenta anche la regione in cui ho vissuto e vivo
tuttora. Ho tentato quindi di tracciare un profilo paesaggistico, storico, statistico e
biografico di questo argomento.
Ho suddiviso il presente lavoro in quattro parti principali, ciascuna
composta di tre capitoli, in modo da renderla il più simmetrica, snella e scorrevole
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Sarebbe buona valutazione aumentare i dati ufficiali del 19% circa, per includere gli stranieri
regolari non residenti e, secondo certi organi statistici, anche i tipici e non trascurabili fenomeni di
clandestinità – per altro assai controversi, dato che esistono grandi divergenze nei criteri di calcolo
(basta chiedersi semplicemente come sia possibile contare chi non si può vedere).
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possibile. La prima parte è un tentativo di presentare in maniera sintetica il
fenomeno della mobilità territoriale in generale, nonché la sua evoluzione fino ai
giorni nostri. Ho anche cercato di mostrare il relativamente recente fenomeno
immigratorio in Italia, introducendo un breve “cappello storiografico” e
utilizzando tabelle e grafici.
Nella seconda parte ho tentato di evidenziare la qualità e la quantità di un
particolare tipo d’immigrazione (quello anglofono), in una specifica regione: la
Toscana. Consultando materiale nel British Institute di Firenze, nei dipartimenti di
geografia e statistica di Pisa, sulla rete informatica e infine documentandomi di
persona sul territorio, ho riportato avvenimenti e dati passati e odierni dell’intera
regione tirrenica, scendendo poi a dare uno sguardo alle province più
significative. In questa sezione ho sentito l’esigenza di apporre immagini,
citazioni e brani poetici che reputo curiosi e pertinenti ai fini della ricerca.
Nella terza parte ho illustrato le metodologie di ricerca e gli strumenti di
rilevamento, raccontando anche le problematiche e le facilitazioni che mi si sono
presentate via via sul campo. Riporto poi a consuntivo i risultati della mia
indagine, a seguito dei questionari rilasciati e delle interviste effettuate, senza
omettere l’elenco delle domande del questionario in lingua originale.
Nella quarta ed ultima sezione, ho individuato un caso di studio isolato
all’interno di una provincia (quella pisana). Ho guardato più da vicino il comune
di Palaia e frazioni poiché, a mio parere, raccoglie in scala ridotta tutte – o quasi –
le casistiche delle comunità anglofone immigrate in Toscana. Analizzando la
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variegata comunità di Palaia, emerge poi chiaramente un’altra famosa questione:
quella dello stereotipo del “bel paese” all’estero.
Infine ho riservato l’ultimo capitolo per fare un confronto con una ricerca
effettuata dai geografi King e Patterson che, sebbene trattino solo la categoria dei
pensionati inglesi all’estero, ha rivelato molti tratti comuni con i risultati della mia
tesi – piccola nota di vanto per il mio neofita ego di ricercatore.
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PARTE I: IL FENOMENO MIGRATORIO
1.1 – L’evoluzione del fenomeno migratorio.
Dato che i miei colleghi di lingue hanno sempre prediletto tesi sugli
Italiani all‟estero, io farò il contrario. Dato che di studi sugli immigrati in Italia
ce n‟è a “bizzeffe”, io mi cimenterò sugli immigrati che non si studiano: i
trascurati “benestanti”. – Poverini, qualcuno ci doveva pur pensare!
La storia dell’uomo è caratterizzata da una costante mobilità. Hans
Magnus Enzensberger (1997) scrive: “la sedentarietà non fa parte delle
caratteristiche della nostra specie fissate per via genetica”. Gli spostamenti di
singoli, gruppi o interi popoli alla ricerca di migliori condizioni di vita sono stati
da sempre attivati da cause di tipo economico, ma anche da guerre, conflitti
sociali, intolleranze religiose. Ciò ha comportato il mescolarsi di culture, ma
anche di caratteristiche genetiche, che hanno avuto conseguenze sull’identità degli
individui coinvolti; infatti, la cultura d’origine del migrante interagisce e spesso
influenza la cultura della popolazione che lo accoglie e viceversa. Tutto ciò
naturalmente non avviene senza un costo da pagare per il nuovo arrivato che deve
faticare per sopravvivere in un ambiente nuovo, spesso ostile. Il costo da pagare
grava anche sulla società che l’accoglie: l’aumento della forza lavoro a basso
costo, l’abbassamento dei salari per i lavoratori più qualificati, così come un
peggioramento delle condizioni lavorative, l’aumento del lavoro in nero,
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l’aumento della criminalità ecc… Inutile prendersela con un problema che non è
nient’altro che un fenomeno fisiologico della natura umana e, a tutt’oggi
purtroppo, nonostante molti studiosi considerino i diversi aspetti della mobilità
territoriale un sistema integrato e intercambiabile, non esiste una “teoria generale
delle migrazioni che spieghi e preveda l’intera costellazione dei fenomeni
migratori nelle tendenze passate, presenti e future.” (Bonaguidi, 1992).
Oggi nel mondo ci sono circa 150 milioni d’individui fra rifugiati ed
immigrati, l’Italia ne conta più di 2 milioni e l’incremento medio dall’inizio del
nuovo millennio (2000-2004) è stato del 5%, quindi un evento traumatico forse,
ma del tutto fisiologico.
Proviamo a fare una partenza acrobatica... Fin dalla Preistoria, nell’era
quaternaria, con la fine della glaciazione, aumentano nel nostro continente le
popolazioni provenienti dall’Asia e dall’Africa. Nel II millennio a.C. i Semiti
penetrano in Mesopotamia imponendosi alle popolazioni sumeriche; gli
Indoeuropei provenienti dalle steppe danubiane si mescolarono alle popolazioni
dell’Europa Centrale dando origine a grandi civiltà come quella greca. I Greci a
loro volta presero contatto con le popolazioni italiche lasciando i semi che
avrebbero fecondato il più importante (e non ultimo) popolo imperialista
dell’Occidente: i Latini.
Vi furono poi le invasioni barbariche che portarono conflitti ed instabilità;
più tardi gli Arabi s’insediarono nella Penisola Iberica ed ancor oggi possiamo
ammirare le stupefacenti opere d’architettura da loro lasciate. Dalla seconda metà
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del XIV secolo i Turchi entrarono in Europa arrivando fino a Vienna e più tardi,
in epoca rinascimentale, cosa ne sarebbe stato del Nuovo Continente se i nostri
navigatori europei non fossero partiti con le loro caravelle? Da quel momento in
poi l’uomo avrebbe partecipato alla colonizzazione più maestosa e coercitiva di
tutta la storia delle migrazioni: il tragico esodo di 10 milioni di schiavi africani.
Un massiccio movimento migratorio si ebbe nel XIX secolo dall’Europa di
nuovo verso l’America: dal 1820 al 1914 circa 40 milioni di Europei sbarcarono
negli Stati Uniti d’America. Con il declino della società rurale dovuto allo
sviluppo industriale, la diminuzione del tasso di mortalità, che portò ad una
tendenza al sovrappopolamento, e l’offerta di lavoro nelle città industriali, i
contadini lasciarono le campagne per le grandi città anche americane. Venivano
soprattutto dall’Irlanda, dalla Polonia, dalla Germania, dall’Europa Meridionale.
Nel caso dell’Irlanda il fenomeno fu incrementato da crisi locali: la carestia, le
tasse e le persecuzioni da parte del governo inglese fecero emigrare il 72% degli
Irlandesi. Alla fine dell’ottocento anche l’Italia fu coinvolta in questo flusso;
emigrarono 7 milioni d’Italiani provenienti soprattutto dalle regioni agricole del
sud e del nord-est. Non esistono dati statistici completi sulla composizione
professionale degli emigranti, ma si può ritenere che fossero addetti all’agricoltura
e alla manodopera poco qualificata. Quindi si diressero verso le immense distese
coltivabili dell’Argentina e del Brasile e verso le periferie delle grandi metropoli
statunitensi (New-York, Chigago) creando vasti fenomeni d’insediamento
proletario nei quartieri più poveri (Bacchetta, De Azevedo, 1990).
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Nel dopoguerra, con lo sviluppo dell’economia industriale, si assiste a
migrazioni da zone periferiche a zone di maggior concentrazione d’attività
produttive alla ricerca di un lavoro manuale dipendente. Dunque le migrazioni
sono state da sempre la manifestazione di uno sviluppo ineguale. Da qui i flussi
dalle campagne verso le città e dall’Europa Meridionale verso l’Europa Centro-
Settentrionale: dall’Italia, Grecia, Spagna, Portogallo, Turchia verso la Germania
e i Paesi Bassi. Alla metà degli anni ’60 si riduce questo flusso a favore di quello
proveniente dalle ex colonie. Dopo il 1973 la recessione economica porta
all’assunzione di politiche immigratorie più restrittive; contemporaneamente i
paesi dell’Europa del sud mutano la loro situazione migratoria divenendo meta
d’immigrazione anziché paesi d’emigrazione. Alla fine degli anni ’80, con la
caduta del Muro di Berlino, si è attivato un altro importante flusso migratorio
dall’est europeo (Bonifazi, 1998).
Nell’epoca della globalizzazione e della formazione di poteri
sovranazionali che sfuggono alle tradizionali autorità di governo, lo spazio che
conta non è più quello geopolitico definito dagli Stati Nazionali, ma quello
economico-sociale, definito dallo sviluppo dualistico del sistema economico
(capitalistico) mondiale.
Dal XIX secolo si evidenzia un fenomeno di migrazione dall’Europa –
società urbanizzata ed evoluta – all’America Settentrionale e poi all’Australia –
ambienti destrutturati a vocazione rurale. In questa situazione sono fondamentali
gli apporti socio-economici e culturali che le società d’origine portano in contesti
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immacolati. Più di recente, invece, i flussi migratori vanno da realtà rurali molto
popolate ad aree urbane ad intenso sviluppo tecnologico, ma con un’alta domanda
di manodopera; il fenomeno è un lontano riflesso della rivoluzione agraria
dell’800 e della contemporanea rivoluzione industriale. Nell’ultimo ventennio
sono state in aumento perfino le migrazioni da aree sviluppate ad altre analoghe,
soprattutto per figure professionali altamente qualificate o scelte di vita personali,
nonché all’interno delle aree sottosviluppate stesse, sia per eventi traumatici
(calamità naturali, guerre, carestie), sia per la presenza di poli di relativa
attrazione.
Notiamo che l’attrazione-repulsione e la conseguente migrazione nascono,
nella quasi totalità dei casi, dal divario fra risorse disponibili in un territorio
(ricchezza) e quelle carenti in un altro (povertà). Nelle aree geografiche del sud
del mondo, il divario è relativo, ma esiste comunque il solito fenomeno migratorio
fra stati diversi come fra città e campagna, all’interno dello stesso Stato – ad
esempio la Costa d’Avorio attrae lavoratori dal Burkina Faso e dal Mali, la
Giordania dalla Siria e dall’Egitto, il Gambia dal Senegal (Massey, Jess, 2001).
Allora… che ognuno ritorni a casa sua? Ma sua quale?
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1.2 – L’immigrazione in Italia.
Il fenomeno delle immigrazioni nel nostro paese è iniziato nel corso degli
anni settanta del ’900 ed ha rappresentato un’inversione di tendenza dell’Italia
che, da tradizionale paese d’emigrazione durante i periodi bellici, si è trasformata
in un paese d’immigrazione. Ci fu uno sconvolgimento delle migrazioni
internazionali in parte dovuto all’emissione delle restrittive leggi anti
immigrazione del continente americano (a seguito della grande crisi economico-
petrolifera), in parte dovuto alle crisi politico-economiche dei paesi mediterranei e
in parte dovuto alla caduta dei regimi comunisti dell’Europa Orientale.
Negli ultimi tre decenni questo fenomeno è andato consolidandosi.
Attualmente l’Italia è sempre più interessata da forti immigrazioni di massa
provenienti in gran parte dai paesi in via di sviluppo e dall’Europa Orientale.
Recentemente il nostro paese è stato oggetto di una forte pressione immigratoria
costituita soprattutto da persone provenienti dalla sponda dell’Adriatico orientale,
le quali, in seguito ai disordini e agli sconvolgimenti politico-economici avvenuti
nella loro patria, hanno cercato rifugio presso le nostre coste sud-orientali
(ricordiamo ad esempio la guerra dei paesi dell’ex Jugoslavia e i disastri della
“democratizzazione” in Albania negli anni ’90) . In certi casi la pressione è stata
tale da creare una situazione d’emergenza e l’Italia si è trovata impreparata ad
affrontare un afflusso così ingente e disordinato di persone.
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Coloro che si dirigono verso la nostra penisola sono spesso uomini e donne
che fuggono da situazioni politiche instabili, da guerre o da persecuzioni, nella
speranza di migliorare la propria condizione economica e sociale. È quindi il
desiderio di libertà e di elevarsi socialmente ed economicamente che spinge
migliaia d’individui a varcare le frontiere e a dirigersi verso il nostro paese, che
costituisce un “ponte verso l’occidente” e un passaggio verso una vita migliore.
Questo desiderio è sempre alimentato dai mass media che contribuiscono in
maniera notevole a diffondere i modelli di vita occidentali soprattutto tra coloro
che si trovano a due passi dai nostri confini e che vivono in condizioni piuttosto
precarie. Ma importanti immigrazioni di massa provengono anche da paesi in via
di sviluppo non solo limitrofi. È il caso del continente asiatico o ancor più da
lontano come di recente, quello del continente sud-americano.
Tuttavia, nella maggioranza dei casi, una volta raggiunte le nostre coste,
questo sogno s’infrange, poiché l’inserimento nella nostra società non è affatto
facile. Al problema di trovare un lavoro e un alloggio stabili – problema che già
molti Italiani, soprattutto nel Meridione, si trovano ad affrontare – si aggiunge la
difficoltà di essere accettati dai nostri cittadini che, non ancora abituati ad una
società multietnica, vedono lo straniero come un concorrente nel mondo del
lavoro, un peso per le nostre casse e una minaccia per la tranquillità pubblica
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Ricordo che l’integrazione e l’inserimento del migrante fanno parte di un processo che non
sempre raggiunge un esito positivo (soprattutto in Italia). In tale caso l’individuo passa attraverso 3
fasi di “non integrazione” o emarginazione qui riassunte. I fase – la neutralità: l’immigrato stimola
solo un po’ di curiosità, ma non crea particolari aspettative, perciò gli autoctoni restano abbastanza
indifferenti (paragonabile all’atteggiamento degli Italiani durante gli anni ’70). II fase –
l’emergenza: l’immigrazione si fa più intensa, se non di massa. L’autoctono percepisce i nuovi