Capitolo 1
Diverse idee d’identità
Il termine italiano deriva per apocope della consonante finale dal
termine latino , a sua volta corrispondente al più antico vocabolo greco
ταυ̉τότης. La radice delle versioni italiana e latina, idem (stesso, medesimo) già
esprime chiaramente l’aspetto fondamentale che sta alla base del concetto
d’identità, quale che sia, successivamente, la declinazione presa nella singola
disciplina o nel rispettivo ambito: c’è identità quando si ha la possibilità
d’individuare in cose diverse una certa uguaglianza. L’uguaglianza può essere
quella che si suppone ci sia fra i soggetti dell’esperienza individuale nel corso
della vita di una persona (sempre che non sia affetta da particolari patologie
psichiche) e allora si tratterà di identità personale; o può essere quella fra diversi
soggetti o nuclei sociali all’interno di macrosezioni della società, e allora sarà
l’identità collettiva (ulteriormente scomponibile a seconda del discrimine che si
ritiene di volta in volta pertinente: identità nazionale, identità di classe, identità di
genere…); o, ancora, può trattarsi dell’uguaglianza tra due o più funzioni
algebriche, le quali, qualunque sia il valore dato alle variabili in esse contenute,
risulteranno perfettamente intercambiabili.
Se, quindi, un minimo comune denominatore fra le tante sfaccettature del
termine non è difficile da individuarsi, ben diversa è la questione se si decide di
approfondire il discorso e dedicare attenzione a come i vari rami del sapere e della
conoscenza umana hanno inteso l’argomento.
1.1) L’identità nel pensiero filosofico
In filosofia la discussione sull’identità, almeno sul versante dell’identità
personale, è qualcosa che è presente dagli albori della disciplina. La base teorica
al concetto stesso d’identità, nonché i prodromi delle dispute sull’argomento che
ancora oggi non accennano a terminare, si possono individuare nelle divergenze
fra Parmenide ed Eraclito, proseguite successivamente dai discepoli delle
5
identitas
identità
rispettive scuole. Per Parmenide e gli altri membri della scuola di Elea, l’identità
era una delle condizioni fondamentali dell’Essere, e in questo senso indicava che
l’Essere era necessariamente identico a se stesso; l’identità veniva intesa, cioè,
come una proprietà ricorsiva che l’Essere applicava su di sé. Tale pensiero sarà
sviluppata anche dal discepolo di Parmenide, Melisso, che trasformerà l’identità
atemporale proposta dal caposcuola in una identità che si realizza, invece, proprio
nell’uguaglianza fra gli attributi dell’Essere nel corso del tempo.
Ma per Eraclito e la sua scuola, teorici del πάντα , queste differenze sul
valore del tempo erano marginali, giacché, la sola idea di una fissità e uguaglianza
perfetta dell’Essere, in qualsiasi condizione postulata, risultava davvero
irricevibile.
Una volta inserito nell’agenda filosofica, il tema dell’identità vi rimarrà
stabilmente, alimentando dibatti assai diversi. Scorrendo rapidamente gli autori
della filosofia greca classica, infatti, possiamo notare come in diverse maniere il
concetto dell’identità informi il pensiero di numerosi autori: Platone, ad esempio,
spiega il carattere di autenticità della realtà dell’Idea, a dispetto della natura
sensibile e corruttibile, proprio in virtù dell’identità temporale che essa mantiene;
Aristotele, nel V libro della “Metafisica”, quello dedicato al proprio lessico,
definisce l’identità come “una certa unità di essere del molteplice, o di cosa
considerata come molteplice, come quando si dice che una cosa è identica a se
1
stessa”. Tale posizione, che definisce l’identità come “una certa unità”, quindi,
come una unità parziale, anziché come un’unità assoluta e completa, serve a
superare l’intreccio filosofico-linguistico operato dalle scuole ciniche e
megariche, avverse a Platone e ai suoi discepoli. I rappresentanti di queste
correnti, infatti, sostenevano che l’unica forma corretta di identità sia quella in cui
vi sia assoluta corrispondenza fra soggetto e predicato; una posizione esprimibile
attraverso l’affermazione: “Socrate è Socrate”. All’infecondità di tali soluzioni,
Aristotele oppone una “certa unità”, quell’unità che, pur non perfetta, si realizza
nell’uguaglianza della “sostanza” delle cose, di ciò che non risulta “accidente”,
ossia accessorio. Platone e Aristotele risultano, perciò, i fondatori di quella
tradizione che concepisce l’identità come uguaglianza rispetto a sé nella serie del
1
Aristotele, Metafisica, trad. it. di A. Russo, Roma, Laterza, 1982.
6
ῥεῖ
tempo, attraverso quella caratteristica fondamentale definita “sostanzialità”. La
loro posizione, per questo, sarà dominante nel pensiero antico e medievale, e
troverà la sua espressione più nota e più fortunata nel paradigma dell’identità
personale, in cui la sostanza è costituita dall’anima: immateriale, unica,
indivisibile e trascendente.
Il tema dell’identità, per diversi secoli meno centrale nelle dispute
filosofiche, visse, poi, il suo periodo di più alta produzione teorica e scientifica
attorno al XVII secolo, grazie, in primo luogo, all’opera del matematico e filosofo
francese Cartesio. Nessuno come lui, in epoca moderna, è stato tanto rilevante
nell’analisi e nella teorizzazione della vexata quaestio dell’identità: rinnovando le
domande sulle evidenze teoriche-scientifiche dell’unità personale; riproponendo
all’interno della filosofia moderna il dilemma dell’unità psicofisica dell’individuo;
e, infine, affrontando anche il problema della “consapevolezza” dell’individuo
della propria esistenza continuativa nel tempo, aprendo, sotto questo versante,
quei filoni di ricerca sviluppatisi attorno al tema della .
Partendo dalla tradizione filosofica precedente, Cartesio si muove alla
ricerca dell’individuazione specifica di quella “sostanza” che è elemento
ineliminabile e costitutivo dell’individuo. Questa entità, cui lo stesso autore fatica
2
a trovare un nome univoco, deve essere parte della persona; ma il metodo
cartesiano d’indagine, basato sull’uso del dubbio come criterio d’analisi, ha tra le
sue dirette implicazioni l’esclusione della certezza sia di qualsiasi oggetto
sensibile, sia dei concetti logici: l’unica cosa cui, in maniera più intuitiva che non
sillogisticamente comprovata, esula dalla sospensione di giudizio è, per Cartesio,
la certezza dell’esistenza di un pensante, la res cogitans, come espresso dal
celebre passo: “ego cogito, ergo sum, sive existo”. Per Cartesio, cioè, si può
essere certi di essere “una cosa che pensa”, uno spirito o un intelletto, mentre si ha
conoscenza solo attraverso i sensi, quindi in una maniera teoricamente dubitabile,
di avere un corpo, o, nelle sue parole, una res extensa. Da questo assunto discende
in primo luogo una netta separazione fra tra due sostanze, una materiale (la res
extensa, sostanza estesa, di cui la spazialità è l’attributo essenziale) ed una
2
“Una mente o un’anima, o un intelletto, o una ragione”.
(R. Cartesio, Meditazioni metafisiche, in Discorso sul metodo e meditazioni metafisiche, con le
obbiezioni e risposte, Laterza, Roma-Bari 1967, vol. 1).
7
io
coscienza
spirituale (la res cogitans, sostanza inestesa, non spaziale e immateriale)
appartenenti a mondi ontologicamente differenti e governate da leggi distinte;
secondariamente, se ne deriva una “superiorità” di una delle due sfere rispetto
all’altra, in quanto solo una risulta centrale per l’identificazione del vero soggetto
personale. La dicotomia tra le due sostanze è, perciò, insanabile; tuttavia, non
esclude la possibilità di contatto e interazione: res cogitans e res extensa possono
3
comunicare attraverso la ghiandola pineale. È in questa maniera che, al di là delle
tesi già affermate sulla dubitabilità del corpo e sulla sua inessenzialità nella
determinazione del soggetto, possono essere giustificate le azioni volontarie, ossia
quei fenomeni compiuti dal corpo, ma determinati dalle intenzioni della
coscienza.
Le riflessioni di Cartesio sul soggetto sono passi teoretici importanti per la
filosofia in generale e per le teorie della soggettività in particolare: ciò cui egli
giunge è un punto di svolta, dal momento che identifica l’essenzialità dell’io, cioè,
della sostanza dell’individuo, nel soggetto dell’attività psichica. Inoltre, la
dicotomia cui il filosofo dà origine è di estrema importanza per un’esaustiva
comprensione del dibattito sul concetto di persona, in quanto coinvolge nozioni
come “mente”, “coscienza” “spirito” e, infine, “identità” sulle quali si basa,
consapevolmente e non, la distinzione tra l’essere persona e il non esserlo. In
4
conclusione, anche se pensatori suoi contemporanei e successivi criticheranno le
posizioni di Cartesio non si può disconoscere al pensatore francese il merito
dell’aver aperto nuovi scenari alla riflessione successiva, proponendo
3
“Mi sono convinto che l’anima non può avere in tutto il corpo altra localizzazione all’infuori di
questa ghiandola, in cui esercita immediatamente le sue funzioni, perché ho osservato che tutte le
altre parti del nostro cervello sono doppie, a quel modo stesso che abbiamo due occhi, due mani,
due orecchi, come, infine, sono doppi tutti gli organi dei nostri sensi esterni. Ora, poiché abbiamo
d’una cosa, in un certo momento, un solo e semplice pensiero, bisogna di necessità che ci sia
qualche luogo in cui le due immagini provenienti dai due occhi, o altre duplici impressioni
provenienti dallo stesso oggetto attraverso gli organi duplici degli altri sensi, si possano unificare
prima di giungere all’anima, in modo che non le siano rappresentati due oggetti invece di uno: e si
può agevolmente concepire che queste immagini, o altre impressioni, si riuniscano in questa
ghiandola per mezzo degli spiriti che riempiono le cavità del cervello; non c’è infatti nessun altro
luogo del corpo dove esse possano esser così riunite, se la riunione non è avvenuta in questa
ghiandola”.
(R. Descartes, (1649), Le passioni dell’anima, in Opere, a cura di E. Garin, Laterza, Bari, 1967).
4
Il filosofo americano Richard Rorty evidenzia come Cartesio tragga una conclusione ontologica
– l’esistenza di due sostanze, una per il corpo e una per la mente – da premesse epistemologiche –
il fatto ch’io possa dubitare di avere un corpo, ma non di possedere una mente.
Cfr. R. Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani, Milano, 1986.
8
interpretazioni articolate e suggerendo idee e concetti che hanno permeato la
5
cultura occidentale.
È proprio partendo dalle posizioni di Cartesio che John Locke, principale
esponente dell’empirismo inglese, porta avanti l’analisi sull’identità di un altro
significativo gradino. Il filosofo inglese nel suo “Saggio sull’intelletto”, sostiene
che ciò che ci fa essere la stessa persona e che ci rende moralmente responsabili
6
del nostro comportamento passato, ossia l’identità personale può sussistere solo
7
grazie alla memoria. E, sebbene Locke successivamente affermi che “l’opinione
più probabile” è che la nostra coscienza del passato “sia annessa a una sola
sostanza immateriale” o anima, egli sospende il giudizio al riguardo, dato che la
sostanza spirituale, intesa come “sostrato” dei nostri stati d’animo, non è oggetto
d’esperienza: ciò che rende un individuo la stessa persona in periodi diversi è solo
8
la continuità dei suoi atti coscienti, quale che sia l’origine o la sede di tale facoltà.
Osservando con attenzione, perciò, il contributo di Locke al dibattito è davvero
significativo: sia Cartesio che Locke vedono l’essenza dell’identità nella
coscienza – di esistere (Cartesio) attraverso la memoria (Locke). E, infatti, la
coscienza di Locke è assai simile al “cogito” cartesiano: Locke la definisce come
“quella consapevolezza che è inseparabile dal pensare”. Tuttavia, mentre per
Cartesio la coscienza è “una manifestazione fenomenica della presenza di una
sostanza sottostante”, per Locke essa è “ciò che costituisce il soggetto” e “gli stati
9
coscienti sono la materia stessa di cui sono fatte le persone”. Come ha affermato
5
“Tutti noi, in fondo, siamo eredi di Cartesio”.
(M. di Francesco, L’io e i suoi sé. Identità personale e scienza della mente, Raffaello Cortina
Editore, Milano 1998).
6
È, questa, la prima, significativa, attestazione del termine nella letteratura filosofica, in vece del
tradizionale “anima”.
J. Locke, (1690), Saggio sull’intelligenza umana, trad. it. di C. Pellizzi, Laterza, Roma-Bari 1972.
7
Locke avvalora questa tesi con un esperimento mentale noto come quello “del principe e del
ciabattino”, secondo il quale: “Se l’anima di un principe, portando con sé la consapevolezza della
vita passata del principe, entrasse a informare di sé il corpo di un ciabattino subito dopo che questo
fosse stato abbandonato della propria anima, ognuno vede che egli sarebbe la stessa persona che il
principe, responsabile solo delle azioni del principe; ma chi direbbe che si tratta dello stesso
uomo?”. Di conseguenza l’identità del principe non dipende dal corpo, ma dalla continuità della
sua coscienza. È, cioè, la memoria che rende il principe ciò che egli è, non il permanere o meno
della sua sostanza corporea.
(J. Locke, (1690), Saggio sull’intelligenza umana, trad. it. di C. Pellizzi, Laterza, Roma-Bari,
1972).
8
Ibid.
9
M. di Francesco, L’io e i suoi sé. Identità personale e scienza della mente, Raffaello Cortina
Editore, Milano, 1998.
9
Michael Ayers, uno fra i massimi studiosi del filosofo inglese, nel Settecento
grazie a Locke si è avuta «una rivoluzione nella percezione dell’identità
10
personale» e l’intuizione del ruolo della memoria è di fondamentale importanza
perché, come si vedrà, sarà accolta e riconosciuta successivamente anche in
diverse discipline.
Il problema dello statuto ontologico del soggetto subisce una decisiva
accelerazione con le originali soluzioni proposte da un altro filosofo inglese,
David Hume. Nel “Trattato sulla natura umana” Hume non s’interroga più sul
problema metafisico dell’essenza del pensiero, ma indaga la questione
dell’identità personale da un punto di vista empirico. Per Hume, non è possibile
avere alcuna percezione di un’io di tipo cartesiano, permanente ed unitario,
poiché, attraverso un’analisi rigorosamente empirica, non riusciremo mai ad avere
con i nostri sensi un’impressione dell’io che sia costante ed immutabile per tutta
11
la durata della vita di un individuo. La vera novità della posizione humeana, è il
fatto che per giustificare le percezioni particolari, differenti, distinguibili e
separabili, non si ha bisogno di postulare un io necessario e sussistente. In altri
termini, dalla spiegazione della natura delle singole percezioni particolari non
consegue l’affermazione dell’esistenza di un io unitario, continuo e semplice;
anzi, Hume sostiene che le percezioni possono esistere separatamente l’una
dall’altra senza bisogno di nulla che ne sostenga l’esistenza. È in quest’ottica che
prendono forma le celebri tesi della teoria del fascio di Hume, per la quale gli
esseri umani non sono altro che fasci, collezioni, di percezioni in perpetuo
movimento, che hanno luogo a ritmo incessante e a gran velocità. Di
conseguenza, l’idea assai forte dell’io è un semplice inganno, ed anche la presunta
identità di esseri umani che siamo soliti riconoscerci è un’illusione, pari, secondo
l’empirista inglese, a quella che può possedere un animale o un vegetale. In altre
parole, ciò che si è soliti chiamare identità personale o percezione continuativa
dell’io, per Hume, non rappresenta qualcosa di reale ed ontologicamente fondato,
10
M. Ayers, Locke, trad. it di S. Brogi, Sansoni, Firenze, 1998.
11
“Quando mi addentro più profondamente in ciò che chiamo me stesso m’imbatto sempre più in
una particolare percezione: di caldo o di freddo, di luce o di oscurità, di amore o di odio, di dolore
o di piacere. Non riesco mai a sorprendere me stesso senza una percezione, e a cogliervi altro che
la percezione”.
(D. Hume, (1740), Opere filosofiche I. Trattato sulla natura umana, Editori Laterza, Roma-Bari,
1987).
10
bensì “è semplicemente una qualità loro attribuita (alle nostre percezioni) a causa
12
dell’unione delle idee di esse nell’immaginazione quando vi riflettiamo”. La
nostra percezione d’identità personale, perciò, nasce solo da un’interpretazione
illusoria che avviene nella riflessione introspettiva, articolata attorno ai tre
principi che regolano il mondo ideale: la rassomiglianza, la contiguità e la
causalità. Dall’interazione fra questi, e non da un soggetto psichico, deriva la
percezione d’identità personale.
Riassumendo, la distanza da Cartesio, passando attraverso Locke, si è fatta
davvero grande: per Hume non c’è un io unitario, continuo, spirituale che ci
permettere di considerare noi stessi come persone per il solo fatto di possederlo;
viceversa, con uno spirito che sarà definito di antisostanzialismo e di scetticismo,
l’identità è ridotta al solo rapidissimo accostamento delle nostre percezioni.
La citazione di questi tre importanti pensatori del passato è di
fondamentale importanza perché è proprio da questi tre filosofi che, in diverse
forme e relazioni, è ripartita l’analisi sul tema in tempi più moderni. Nelle
trattazioni sull’identità personale anche le scienze sociali sono debitrici delle loro
riflessione: Cartesio, come già ricordato, è il capostipite – spesso rinnegato, ma
pur sempre capostipite – di molti filoni delle ricerche interessate all’identità, all’io
e all’interazione soggetto-mondo, e non è esagerato ritenere che simili campi
d’indagine siano stati letteralmente dischiusi dai suoi scritti; Hume rappresenta la
radice cui ancora oggi molti pensatori fanno riferimento, per il suo radicale
empirismo e per l’audace affermazione, predominante nelle linee teoriche delle
attuali neuroscienze e discipline della mente, dell’illusorietà dell’identità
personale; Locke, per finire, è oggetto di grande attenzione per l’importanza che
accorda alla memoria nell’insieme dei meccanismi di creazione dell’identità, oltre
che per l’affinità di pensiero che lo lega vicendevolmente a Hume.
Il tema dell’identità personale, centrale in questi autori, sarà oggetto di
minore attenzione da parte dei filosofi delle epoche successive, tendenzialmente
più impegnati a fondare una valida epistemologia che potesse accompagnare le
sempre più frequenti e incisive scoperte scientifiche; o a trovare nuove basi
fondative della morale che sostituissero i precetti religiosi. Tuttavia, data
12
Ibid.
11
l’importanza implicita per ogni discorso avente per oggetto l’uomo, esso resterà
parte dell’agenda filosofica, e, anzi, troverà nuovo vigore nella feconda scuola
tedesca, che, partendo da Kant, arriva fino ad Habermas.
È, infatti, partendo dall’analisi sulle modalità della conoscenza che
Immanuel Kant, nella sua celebre opera “Critica della ragion pura”, giunge a
postulare non solo la presenza, ma anche la necessarietà di una identità unica della
persona, di un soggetto dell’esperienza individuale cui faccia riferimento
l’insieme delle percezioni. Questo soggetto, che risulta essere il centro del mondo
dell’esperienza, viene definito dal filosofo di Königsberg con il termine Io penso:
l’Io penso deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni; ché altrimenti
verrebbe rappresentato in me qualcosa che non potrebbe essere per nulla pensato,
il che poi significa appunto che la rappresentazione o sarebbe impossibile, o,
almeno per me, non sarebbe”. L’affermazione di Kant, a ben guardare, nasce
proprio come tentativo di rispondere alla destrutturazione dell’identità operata da
Hume – cui comunque Kant riconosce il gran merito di averlo destato dal “sonno
dogmatico” – con la sua riduzione dell’identità al fascio di rappresentazioni. Tale
13
concezione è nettamente rifiutata da Kant, e tuttavia la lezione di Hume non può
essere dimenticata. Il soggetto che presenta Kant, perciò, non può tornare ad
essere “la sostanza” della tradizione filosofica; né può essere un soggetto
empirico, dal momento che in questo caso il soggetto mancherebbe
dell’universalità e della necessarietà che invece gli vengono attribuite. L’Io penso,
allora, si definisce come unità oggettiva della coscienza, o come
– ossia percezione di una percezione – e s’identifica come il
principio di unificazione dal quale può avere origine, tramite l’intelletto, qualsiasi
forma di conoscenza del mondo sensibile. La tesi di Kant, in conclusione, trovava
il suo ultimo, ineliminabile limite nella natura stessa del mondo fenomenico: se,
13
“Io chiamo quelle rappresentazioni tutte mie rappresentazioni, solo perché io posso comprendere
la loro molteplicità in una coscienza; altrimenti io dovrei avere un Me stesso variopinto, diverso, al
pari delle rappresentazioni delle quali ho coscienza”. E anche: “Le molteplici rappresentazioni che
sono date in una certa intuizione, non sarebbero tutte insieme mie rappresentazioni, se tutte
insieme non appartenessero ad una autocoscienza; cioè, in quanto mie rappresentazioni (sebbene io
non sia consapevole di esse, come tali), debbono necessariamente sottostare alla condizione in cui
soltanto possono coesistere in una universale autocoscienza, poiché altrimenti non mi
apparterrebbero in comune”.
(I. Kant, (1781), Critica della ragion pura, trad. it. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, Laterza,
Roma-Bari, 2000).
12
“
trascendentale
appercezione
infatti, l’Io penso è il centro unificatore delle percezioni, tale da imporre esso
14
stesso le leggi che crediamo di osservare in natura, pur tuttavia “i fenomeni non
sono che rappresentazioni di cose, le quali restano sconosciute rispetto a ciò che
possono essere in sé”, e, di conseguenza, l’attività dell’Io penso può essere solo
unificatrice, ma non creatrice.
Una simile conclusione, però, non venne condivisa da uno dei principali
discepoli di Kant, Johann Gottlieb Fichte, il quale portò ancora più avanti le
posizioni del maestro giungendo alla risoluzione che la stessa realtà fenomenica
sia un prodotto del soggetto pensante. Fichte, inoltre, proverà a risolvere il
dilemma lasciato aperto dall’analisi kantiana dell’inconoscibilità del noumeno – di
cui il fenomeno è solo una rappresentazione – sperando di poter ottenere, da una
corretta definizione del vero oggetto della conoscenza, una precisa definizione del
soggetto che conosce, compito in cui l’indagine kantiana riconosceva di non poter
proseguire oltre. In questo senso va inteso il Primo principio della dottrina della
15
, attraverso il quale Fichte cerca di ricongiungere l’Io pensante (soggetto)
con l’Io pensato (oggetto), attraverso il principio d’identità “Io = Io”. La tesi
fichtiana, però, oltre a rimanere vittima della sua stessa tautologia e avviare così
una serie di rimandi infruttuosi che, come in un gioco di specchi, avvicendano
soggetto e oggetto senza mai definirli in maniera chiara e assoluta, aveva come
scopo generale quello di trovare un assunto valido su cui fondare conoscenza e
filosofia, agire morale e attività pratica.
Così, quando alla cattedra della Facoltà di Filosofia dell’Università di Jena
gli succederà l’allievo Schelling, il dibattito sull’Io avrà perso quasi ogni
connotato di somiglianza con il principio di unificazione kantiano, ancora
riconducibile all’analisi sull’identità personale, e sarà stato indirizzato ancora più
fortemente nell’ambito della speculazione dell’Idealismo tedesco del XVIII
secolo. Non deve stupire, perciò, che il sistema elaborato da Schelling, noto
appunto con il nome di filosofia dell’identità, ha ben poco a che vedere con l’idea
di permanenza dell’esperienza individuale o anche solo di autocoscienza, ma
14
“Le leggi non esistono nei fenomeni, ma solo relativamente al soggetto a cui i fenomeni
ineriscono, in quanto possiede un intelletto”.
(I. Kant, Critica della ragion pura, (1781), trad. it. G. Gentile e G. Lombardo-Radice, Laterza,
Roma-Bari, 2000).
15
Cfr. J. G. Fichte, Fondamento dell’intera dottrina della scienza, a cura di G. Boffi, Bompiani,
Milano, 2003.
13
scienza
risulta indirizzato a sviluppare in maniera originale i temi dell’idealismo già
abbozzati da Fichte e poi sviluppati in maniera ancor più sistemica da Hegel.
L’identità di cui parla Schelling, infatti, è l’identità che egli postula vi sia fra l’Io-
soggetto (che nel suo sistema è anche definito ) e il non-Io (corrispondente
alla ). In altre parole Schelling, pur affermando nella dimensione del reale
una fondamentale antitesi fra le due sfere dell’Io-soggetto e del non-Io, dichiara,
poi, queste identiche nell’ambito supremo della sfera spirituale, dal momento che
anche la natura, il momento della negazione, è anch’essa spirito (seppur
“pietrificato”). Si può notare, per inciso, che le riflessioni di Schelling hanno
contribuito al dibattito sull’identità anche in maniera indiretta: infatti, come
esponente “romantico” dell’idealismo tedesco, egli presterà attenzione anche a
temi più esistenziali, e scriverà anche a riguardo dell’inconscio, contribuendo,
così, alla formazione del contesto culturale in cui sarebbe sorta la psicanalisi.
Prima di dedicare il giusto spazio alle analisi intraprese sul versante,
anch’esso assai dibattuto, dell’identità negli attori collettivi, è necessario lasciare
un posto d’onore ad un filosofo che, in tempi assai più recenti, ha rinnovato la
discussione ed anche l’equipaggiamento della terminologia concettuale. Tale
personaggio è Paul Ricoeur, patrocinatore di un concetto assolutamente
rivoluzionario nell’indagine filosofica sull’identità personale: l’ ipse.
Come abbiamo scritto in apertura di capitolo, la prima, immediata
intuizione sull’identità è quella che porta a individuare la dimensione
dell’uguaglianza, o, per usare un linguaggio ormai più tecnico, della sostanzialità.
In tal senso, due cose sono identiche perché condividono la stessa sostanza, e
l’esistenza di un elemento fondamentale e basico di un soggetto (a qualsiasi
livello d’indagine) è il presupposto naturale per ogni discorso che voglia trattare
dell’identità di quel soggetto. Anche i numerosi autori che hanno affrontato il
tema dell’identità, pur con le dovute differenze, e, a volte, prese di distanze, sono
partiti da quest’assunto. Ora, Ricoeur trova che questo modello d’identità non sia
più sufficiente: non che non sia valido, ma, semplicemente, che da solo non possa
bastare, perché per comprendere l’esperienza umana di una vita, l’identità d’un
individuo, si ha bisogno di un modello che si sappia rapportare con la dimensione
14
natura
identità
spirito
temporale in forma diversa rispetto alla fissità che contraddistingue la concezione
tradizionale.
Egli, allora, opera una distinzione: da un lato sta il modello dell’identità
, perché, in accordo con la radice del termine stesso, “è l’identità di qualcosa
16
che resta mentre le apparenze o, come si dice, gli ‘accidenti’, cambiano”: in altre
parole è l’identità regolata dalla sostanzialità, costituita nella dimensione della
medesimezza sulla base di ciò che permane nel processo di mutamento. Dall’altro,
il modello che si fonda sulla dimensione dell’; che non implica alcuna
immutabilità e, anzi, può realizzarsi pienamente anche attraverso il cambiamento
e la variabilità, giacché è un tipo d’identità non sostanziale, il cui principale
attributo consiste nella sua rispondenza ad una dimensione . È questo
secondo tipo d’identità, l’identità ipse, quella che Ricoeur intravede come
maggiormente significativa per gli esseri umani. Infatti, sebbene, affermi che
bisogna riconoscere come la dialettica tra medesimezza e ipseità “è interna alla
17
costituzione ontologica della persona”, egli ritiene che solo l’identità ipse
riuscire a far concepire all’individuo la propria identità, nel tempo, come se si
guardasse dal di fuori – e non dal di dentro – e con una visuale integrale della vita
– anziché con una prospettiva irrimediabilmente vincolata dal divenire. Spiega
Ricoeur: “nella misura in cui la sua identità riposa su una struttura temporale
conforme al modello di identità dinamica emersa dalla composizione poetica di un
testo narrativo, (…) l’identità narrativa, costitutiva dell’ipseità, è in grado di
18
includere il cambiamento, la mutevolezza nella coesione di una vita”. L’identità
espressa nell’ipseità è, quindi, quella capace di raccontare e raccontarsi, cioè,
l’unico modo di concepire l’identità che possa essere congeniale all’essere umano
in quanto tale.
Il paradigma più noto, fornito dallo stesso Ricoeur, dell’identità ipse è
quello della . Questa, per sua stessa natura, ha la funzione fondamentale
di impegnare chi la pronuncia, di farlo divenire, cioè, un soggetto di imputazione,
un soggetto responsabile. Ma la dimensione dell’impegno, dell’onere morale, è,
evidentemente, non un fattore sostanziale: per il soggetto che ha promesso non
16
P. Ricoeur, intervista Descrivere, raccontare, prescrivere, Parigi, 20 dicembre 1991.
17
P. Ricoeur, La persona, trad. it. di I. Bertoletti, Morcelliana, Brescia, 1997.
18
P. Ricoeur, Tempo e racconto III. Il tempo raccontato, Jaca Book, Milano, 1988.
15
può
promessa
narrativa
ipseità
idem
mantenere la parola data non comporterebbe un’automatica negazione della sua
sostanzialità. La promessa, vista secondo l’ottica della medesimezza, potrebbe
apparire un mero attributo. Ma l’analisi in tal caso va compiuta sotto un punto di
vista che riparte proprio dal rapporto col tempo: la persona che mantiene la
promessa rispetta l’impegno preso anche nell’ipotesi in cui siano cambiate molte
cose dal momento della sua formulazione: stati d’animo, umore, volontà, contesto,
rapporti col beneficiario dell’impegno… A ben guardare, nella maggior parte dei
casi l’evento standard di una promessa mantenuta vede una situazione finale – il
momento della soddisfazione dell’impegno – ben diversa da quella iniziale – la
formulazione della promessa; eppure, nonostante tutti i cambiamenti intercorsi,
l’individuo che rispetta la promessa, per il fatto di rispettarla, ha mantenuto se
stesso identico, ha conservato un’identità fra il sé di prima e quello successivo.
Tale identità, che, come visto, non può essere di tipo sostanziale, secondo Ricoeur
è semmai un’identità “di mantenimento”, dato che essa dipende esclusivamente
dalla forza di volontà di chi decide di mantenersi identico nel tempo. In
quest’ottica la dimensione ipse dell’identità afferisce all’ambito narrativo della
natura umana, perché “l’identità di un soggetto capace di mantenere una promessa
19
è strutturata come l’identità del personaggio di una storia”. A questo punto si può
capire meglio perché l’autore di “Tempo e Racconto”, partito con una idea delle
identità idem e identità ipse come modelli diversi, finisca poi per invocarne il
necessario incontro dialettico: “l’identità narrativa – presente nei grandi racconti o
interpretata da noi, decifrata nella vita – oscilla tra i due poli dell’identità
sostanziale, immutabile e dell’identità che esiste solo grazie alla volontà di
20
mantenerla, come quando si mantiene una promessa”.
La filosofia, però, specie negli ultimi tempi, non ha potuto esimersi
dall’analizzare il tema dell’identità sotto tutt’altro aspetto: quello delle identità
collettive. Essa né è risultata obbligata, sia per l’evoluzione delle società (post-)
moderne, sia perché non poteva, di certo, ignorare la vasta produzione sul tema
generata dalle scienze sociali nel XX secolo. L’argomento è stato approcciato
soprattutto in relazione alle questioni (ormai rilevanti anche nelle agende
politiche) che derivano dalla coesistenza di più culture in un unico territorio, e a
19
P. Ricoeur, intervista Descrivere, raccontare, prescrivere, Parigi, 20 dicembre 1991.
20
Ibid.
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tal proposito un vivace contributo l’hanno fornito il filosofo tedesco Jürgen
Habermas e il suo collega canadese Charles Taylor. I due professori hanno scritto
21
un agile libro-confronto nel quale, pur partendo da posizioni diverse, (e in
determinati casi mantenendole fino alla fine), convergono nell’esposizione assai
limpida dello stretto legame esistente tra l’identità e il
dall’esterno, dinamica valida sia a livello individuale, sia a livello di gruppo.
22
Taylor, le cui posizioni occupano i primi due terzi del volume, definisce
l’identità come “la visione che una persona ha di quello che è, delle proprie
23
caratteristiche fondamentali, che la definiscono come essere umano”. Egli, così,
mette in luce due aspetti fondamentali della questione identitaria: il fatto che
l’identità si basi sulla visione che una persona ha di se stessa, quindi sul
sentimento di sé, interiormente costruito, come individuo; e, in secondo luogo,
evidenzia la dimensione super-personale, necessaria per prendere coscienza di sé
come essere umano, cioè di un essere in cui l’“umanità” si oggettiva, in un modo
del tutto peculiare e specifico. Data l’unicità di questa oggettivazione, diversa da
individuo, il riconoscimento reciproco delle rispettive specificità, possibile solo
nel confronto con l’altro, diviene componente fondamentale.
Tale approccio viene spiegato ancora meglio successivamente, con
l’affermazione “abbiamo bisogno di relazioni per completarci, ma non per definire
24
noi stessi”, con cui Taylor chiarisce che la base dell’identità personale viene
trovata in un percorso intrapersonale non soggetto a influenza esterna; e, tuttavia,
il confronto con l’altro, senza definire l’essenza identitaria, diviene centrale per
determinarne i confini.
Valido a livello individuale, tale procedimento si applica in forma
pressoché invariata sul piano delle identità collettive. Se, infatti, l’identità
individuale si costituisce nel corso di un dialogo che il soggetto conduce dapprima
all’interno e, successivamente, all’esterno, con la richiesta di un riconoscimento
21
J. Habermas, C. Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, trad. it. di L. Ceppa e G.
Rigamonti, Feltrinelli, Milano, 1998.
22
Il testo è costruito in maniera tale da presentare dettagliatamente la tesi di Taylor, lasciando solo
la chiusura del volume ad Habermas. Questi, però, sviluppa il suo pensiero esaminando passo per
passo le parole del collega, facendo le sue obiezioni sulle risoluzioni più problematiche poste da
Taylor e così suggellando, per lo più implicitamente, tutto il resto dell’impianto teorico proposto.
23
J. Habermas, C. Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, trad. it. di L. Ceppa e G.
Rigamonti, Feltrinelli, Milano, 1998.
24
Ibid.
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riconoscimento
per la propria unicità, l’identità collettiva di un gruppo si definisce in un confronto
dialogico inizialmente interno ai suoi membri e successivamente esteso agli altri
gruppi presenti in una medesima comunità. Il riconoscimento, a questo livello, è
traducibile in una richiesta di rispetto per la propria cultura, attraverso
un’approvazione simbolica della dignità della dimensione identitaria del gruppo,
così elevato alla pari di qualsiasi altra dimensione collettiva, indipendentemente
dalla consistenza numerica dei suoi membri o dalla centralità o marginalità nella
tradizione locale. Il fenomeno del riconoscimento, quindi, avviene attraverso
un’operazione d’estrazione della radice ultima dell’esistere, che consiste nel dare
dignità all’identità altrui per la semplice identificazione di una comune natura
umana; e al contrario il razzismo alligna nel rifiuto della conoscenza di un’altra
identità da parte di chi teme di venire influenzato così tanto dal solo confronto con
l’altro, che necessita di riaffermarsi continuamente negando la dignità delle
specificità altrui.
Perciò, dichiara Taylor, un misconoscimento da parte di altre persone,
ossia un riconoscimento deviato, l’attribuzione all’identità dell’altro di valori, idee
o addirittura natura non di pari dignità con le proprie, genera in chi lo subisce “un
danno reale, una reale distorsione”, perché “le persone o la società che lo
circondano gli rimandano, come uno specchio, un’immagine di sé che lo limita o
2526
sminuisce o umilia”. Il misconoscimento non è solo l’atteggiamento di chi
25
Ibid.
26
A tal proposito diventa significativo presentare anche le considerazioni di S. Wolf riguardo le
identità collettive. Tale studiosa, sostiene che peggiore del è il
. Nel caso del misconoscimento, infatti, il gruppo discriminato vedrà la propria
identità ricostruita e restituita dall’esterno in modo distorto e subirà una perdita di autostima
connessa all’impossibilità di dichiararsi pubblicamente membri di un gruppo cui non vengono
riconosciuti pari rispetto e dignità. Tuttavia, il fatto di non venire accettati può spingere i membri
del gruppo a compattarsi e trovare nuove strade per trovare l’approvazione sociale e un nuovo
riconoscimento che ne qualifichi in maniera corretta la specificità. Nel caso del mancato
riconoscimento, invece, rischia di sfaldarsi anche la compattezza e la consapevolezza identitaria
all’interno di un gruppo, perché questo non solo non viene rispettato, ma non viene neanche
identificato quale portatore di un’identità peculiare. Con le dovute modifiche, le argomentazioni
della Wolf possono essere applicate anche al mancato riconoscimento di un’identità individuale,
fenomeno più raro, ma tristemente possibile e storicamente realizzatosi. Quanto raccontato da C.
Levi ne “I sommersi e i salvati”, ad esempio, evidenzia come nei campi di sterminio non si fosse
più in presenza di un misconoscimento verso un gruppo, ma semmai di un mancato
riconoscimento individuale, sebbene applicato a delle masse; ad essere negata, infatti, non era solo
la dignità della comunità ebraica come gruppo, ma la specificità umana degli appartenenti a quel
gruppo.
Cfr. S. Wolf. Commento in Ch. Taylor, Multiculturalismo, trad. it. G. Rigamonti, Anabasi, Milano,
1993.
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riconoscimento
mancatomisconoscimento
rifiuta, ma uno specchio che riflette una sfocatura tale da alterare la percezione di
sé di chi si vede così riflesso.
Ad esempio, spiega Taylor, le femministe hanno sostenuto che le donne
nelle società patriarcali “hanno interiorizzato la rappresentazione della propria
inferiorità”. E, continua Taylor “l’autodisprezzo dei neri diventa uno dei più
potenti strumenti della loro oppressione” da cui “il misconoscimento non è
soltanto una mancanza di qualcosa di dovuto, il rispetto; può anche essere una
ferita dolorosa, che addossa alle sue vittime il peso di un odio di sé paralizzante”.
È per questo motivo che Habermas, in apertura del suo saggio ribadisce il
concetto sostenendo che “Femminismo, multiculturalismo, nazionalismo e lotta
contro il colonialismo eurocentrico sono fenomeni apparentati benché distinti.
L’elemento unificante consiste nel fatto che – nell’opporsi a repressione,
emarginazione e disconoscimento – sia donne e minoranze etnico culturali, sia
nazioni e culture, lottano per ottenere il riconoscimento delle loro identità
27
collettive”.
La divergenza fra il filosofo comunitario Charles Taylor, e il maggior
rappresentante della seconda generazione della Scuola di Francoforte, Jürgen
Habermas, non è, dunque, di natura teorica, ma si realizza nelle politiche proposte
per realizzare una convivenza armoniosa fra le identità nel contesto multiculturale.
Taylor, infatti, è propenso a richiedere il riconoscimento di particolarità specifiche
da parte del legislatore, e “pretendere dallo stato di diritto anche la determinazione
attiva di determinate concezioni della vita ‘buona’” attraverso particolari tutele
28
legislative e forme di “discriminazioni a rovescio”. Habermas, dal canto suo, non
cede alla tentazione opposta del liberalismo, per la quale la politica si deve
fondare esclusivamente sulla perfetta neutralità delle norme giuridiche, opzione
che, di fatto, riduce al mutismo qualsiasi espressione sulle molteplici concezioni
etiche delle diverse identità culturali. Piuttosto, conclude evidenziando la
differenza tra il piano dei valori e quello dei diritti, sulla cui differenza si gioca la
27
J. Habermas, C. Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, trad. it. di L. Ceppa e G.
Rigamonti, Feltrinelli, Milano, 1998.
28
Sul piano pratico Taylor fa spesso riferimento al caso emblematico del Québec e alle
contrapposte politiche adottabili per salvaguardare il valore della cultura francofona senza ledere i
diritti fondamentali della maggioranza anglofona. L’argomento lo tocca personalmente: nel 2007,
insieme con Gérard Bouchard, è stato incaricato di presiedere la Commission of Inquiry per la
risoluzione della “questione Québec”.
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