Introduzione.
Qual è il ruolo del reporter di guerra?
Qual è il senso di una professione che nel 2007 ha perso sessantacinque dei suoi
1
componenti, trentadue dei quali in Iraq, che il Commitee to Protect Journalists
2
definisce il «paese più letale per il mondo della stampa» e dove sono ancora in corso
indagini per altre ventitré scomparse?
Dando uno sguardo più approfondito alla dinamica delle morti dei trentadue
professionisti, il caos in cui l’antico cuore della Mesopotamia versa è più comprensibile.
Ci si può imbattere nella storia di Raad Mutashar: poeta, scrittore e giornalista,
raggiunto verso le 14 del 7 maggio fuori Kirkuk, da un’Opel senza targa. Da questa
erano partiti alcuni proiettili con sopra incisi il suo nome, quello dei suoi cognati e di un
amico. L’anno prima Raad aveva rivisto suo figlio solo dopo il pagamento del riscatto e
comunque con la clausola di lasciare la direzione di Al-Raad, l’omonimo media network
di sua proprietà.
Si può leggere del fotoreporter ventiduenne Namir Noor Elden, quinta e ultima vittima
del 2007 della Reuters, ucciso il 12 luglio insieme ad altre dieci persone nella parte
orientale di Baghdad; di come i testimoni parlino dell’esplosione dell’automezzo, un
furgone, causata da una raffica aerea dell’aviazione americana. Esplosione avvenuta,
sempre secondo i testimoni, dopo un attacco unilaterale da parte dei militari americani,
diversamente da quanto emerso dalle prime indiscrezioni, che attribuivano la strage «a
3
scontri fra rivoltosi e forze militari americane». Il 5 aprile del 2010 Wikileaks, un sito
4
di attivisti che raccoglie materiale da fonti anonime, ha pubblicato il video della
sparatoria ripreso da uno degli elicotteri. Le immagini dimostrano che l'attacco è stato
ingiustificato. Il giornale iraqeno Aswat al Iraq scrive che il sindacato dei giornalisti
1
Il CPJ — Commitee to protect Journalists — è un’organizzazione non profit con sede a
New York che dal 1981 «promuove la libertà di stampa difendendo il diritto di stampa
nel mondo, difendendo il diritto di fare cronaca da parte dei giornalisti, preservandoli
dalle paure di rappresaglie»; dal sito www.cpj.org.
2
Joel Campagna, Attacks on the press in 2007: A Worlwide Survey by the Commitee to
Protect Journalists, Commitee to protect Journalists, 2008, lo studio è consultabile sul
sito, http://www.cpj.org/attacks07/mideast07/iraq07.html.
3
http:www.cpj.org/deadly/killed07.html.
4
Visibile su www.wikileaks.org/wiki/Collateral_Murder
4
5
iracheni ha chiesto di aprire un'inchiesta.
Si può parlare del 5 aprile e di Thaer Ahmad Jaber, vicedirettore di Baghdad TV . Di
come stava lavorando nel suo ufficio mentre un “netturbino” alla guida del suo camion
per la raccolta dei rifiuti, imbottito di tritolo, metteva in moto. Poco dopo il kamikaze
riusciva nel suo obiettivo: lo scoppio e il tritolo squarciavano il martire, per molti, e
sventravano l’edificio ospitante il canale satellitare di proprietà del principale partito
6
sunnita iracheno e di Radio Dar al-Salam, sua radio. Undici feriti e due morti: a parte il
vicedirettore, spariva anche il giovane collega Husain Nizaer, da poco assunto.
Qual è il ruolo del reporter di guerra?
Forse Raad, Namir, Thaer e Husain si svegliavano ogni mattina seguendo lo stesso
spirito con cui Oriana Fallaci raccontava delle sue giornate in un diario non del 2007,
ma datato 18 novembre 1967.
Ho tentato un’indagine, uno ha risposto: “V oglio dimostrare a mio padre di non essere
il cretino che dice”. Un altro ha risposto: “Mia moglie ha divorziato”. Un altro ha
risposto: “É eccitante e sei fai la foto giusta, sei a posto per sempre”. Catherine ha
risposto:“V olevo vedere com’è fatta la guerra, ne ho sentito sempre parlare”. Quasi
nessun m’ha dato la sola risposta che a me sembra valida: io sono qui per capire gli
uomini, cosa pensa e cosa cerca un uomo che ammazza un altro uomo che a sua volta
lo ammazza. Sono qui per provare qualcosa a cui credo: che la guerra è inutile e
sciocca, la più bestiale prova di idiozia della razza terrestre. Sono qui per spiegare
quanto è ipocrita il mondo quando si esalta per un chirurgo che sostituisce un cuore
con un altro cuore; e poi accetta che migliaia di creature giovani, col cuore a posto
vadano a morire come vacche al macello per la bandiera. É da quando sono al mondo
che mi rompono l’anima con la bandiera, la patria, in nome di queste sublimi
sciocchezze mi impongono il culto di uccidere, di essere uccisa, e nessuno mi ha
ancora detto perché uccidere per una rapina è peccato, uccidere perché hai
7
un’uniforme è glorioso.
Fra il 1964 e il 1975, l’intervento militare degli Stati Uniti in Vietnam ha portato con sé
anche un “intervento giornalistico”.
8
Durante il conflitto «non convenzionale», durante la più lunga guerra per il gigante
5
Da Attacco Ingiustificato, sulla rivista Internazionale n.841, 9/15 aprile 2010, pag.21.
6
Il Sunni Islamic Iraqi Party, www.iraqiparty.com.
7
O. Fallaci, Niente e così sia, Bur, Milano 1997, pag.15.
8
Robert Mcnamara, due volte Segretario alla Difesa U.S.A. Il conflitto nel Vietnam non
venne mai formalmente dichiarato.
5
militare a stelle e strisce, la più dolorosa per numero di perdite umane — circa 55000
910
caduti dell’esercito U.S.A., rispetto ai 4426 in Iraq e ai 1348 in Afghanistan —, il
giornalismo della carta stampata, il foto-giornalismo e quello televisivo, quest’ultimo
tramite le prime perforanti immagini in movimento trasmesse nei salotti della middle
class americana e mondiale, sono riusciti ad rappresentare il senso profondo della
professione del reporter di guerra. Quello di informare, facendo conoscere e
11
comprendere «l’orrore». Solo chi l’ha vissuto sul campo può comprendere, ma ad esso
alcuni giornalisti sono riusciti ad avvicinarsi.
Dalla sua nascita, il Vietnam è stato teatro di scontro fra i suoi abitanti e cinesi prima,
francesi poi, e infine americani: contro tutti la resistenza anticolonialista è riuscita a non
soccombere, a mantenere la propria unità, anche contro una forza esterna tacciata dal
12
Fronte di Liberazione Nazionale Vietnamita di essere «neocolonialista».
Solo durante la guerra che ha coinvolto tre amministrazioni americane, tuttavia, si è
13
cominciato a parlare di una «una sporca guerra», sanguinaria e ingiusta.
Questi giudizi venivano spesso gridati durante manifestazioni a Parigi, Roma, Londra
così come a Washington.
Solo durante la filthy war, il 30 aprile 1970, Richard Nixon, di fronte agli occhi dei suoi
14
«concittadini americani» con una bacchetta puntata sulla Cambogia e dichiarando la
15
sua determinazione a condurre attacchi nei santuari dei vietcong, mostrava la sua
16
preoccupazione anche per gli «attacchi gratuiti alle grandi istituzioni» fra le quali «le
17
grandi università, sistematicamente distrutte». E quattro giorni dopo all’università di
Kent, Ohio, la guardia nazionale americana apriva il fuoco su studenti universitari che si
opponevano con le stesse definizioni del conflitto urlate a Parigi, Roma, Londra e
9
F.Montessoro, Le guerre del Vietnam, Giunti, Firenze-Milano 2004, pag.113.
10
I dai di Iraq e Afghanistan sono aggiornati al 10 ottobre 2010 per l'Iraq e al 22 ottobre
2010 per l'Afghanistan, da http://www.icasualties.org/.
11
Colonnello Kurtz, in Apocalipse Now (id.), 1979, di F.F.Coppola.
12
Ibidem, pag.69.
13
A.Giardina, G.Sabatucci, V .Vidotto, Profili storici dal 1900 ad oggi, Laterza 2000,
Roma-Bari, pag.540.
14
President Nixon’ s Speech on Cambodia, April 30, 1970, http://vietnam.vassar.edu/
doc15.html.
15
Ibidem.
16
Ibidem.
17
Ibidem.
6
Washington; e ancora, dieci giorni dopo, il 14 e 15 maggio, altri proiettili prendevano la
loro traiettoria verso altri studenti, questa volta del Jackson College, Missisipi, che
contestavano la dottrina Nixon in politica estera e l'incerto «disimpegno militare
18
U.S.A.» .
In quei tre giorni la guardia nazionale si rese responsabile di sei morti e venti feriti, fra
cui uno destinato ad una paralisi a vita.
Negli anni 1969 e 1970, periodo «in cui ormai due americani su tre ritenevano
19
opportuno lasciare il Vietnam al suo destino», reduci appena rientrati, veterani
dell’allora recente guerra di Corea (1950-1953) e della meno recente guerra mondiale,
insieme a semplici cittadini chiedevano al loro governo di ritirarsi dal conflitto. Un
conflitto visto come privo di un, ma soprattutto di una, fine. Un conflitto che aveva fatto
quasi impazzire il presidente Johnson e che ne aveva estirpate troppe di ossa dalla
“colonna vertebrale americana”, costituita, dalle sue truppe militari.
In questo processo di presa di coscienza e di reazione, di una grossa fetta del popolo
20
americano, non di un’accozzaglia di studenti codardi che temono l’arruolamento, le
parole e le immagini degli inviati dal Vietnam, nonché la pubblicazione, iniziata il 13
giugno 1971, degli estratti di alcuni dei Pentagon Papers del New York Times e poi del
Washington Post, ebbero un ruolo determinante.
«Alcune persone dovrebbero essere messe al rogo per questo genere di cose... e
21
acciuffiamo questo figlio di buona donna», parole queste, pronunciate dal
trentasettesimo inquilino della Casa Bianca Nixon, in relazione all’impatto che ebbero
sull’opinione pubblica le lettere dattilografate e pubblicate da Neil Sheenan del New
York Times aiutato da Daniel Ellsberg del Pentagono.
Una potenza d’urto in tutto simile a quella della tecnologicamente avanzata macchina
da guerra americana, della quale il generale Westmoreland continuava a esaltare, come
con un panno la brillantezza.
18
F.Montessoro, Le guerre del Vietnam, Giunti, Firenze-Milano 2004, pag.97.
19
F.Montessoro, Le guerre del Vietnam, Giunti, Firenze-Milano 2004, pag.99.
20
Parole di Richard Milhous Nixon sul movimento che si opponeva alla guerra; AA.
VV ., Vietnam, guida Lonely Planet, EDT, Torino, 2007, pag.31.
21
Dalla conversazione telefonica delle 15:09 del 13/06/1971 fra Nixon e Kissinger, The
pentagon papers:secret, lies and audiotapes (The Nixon Tapes and the Supreme Court
Tape), disponibili dal 5 dicembre 2005, National Security Archive, http://www.gwu.edu/
~nsarchiv/NSAEBB/NSAEBB48/nixon.html.
7
L’obiettivo di questa ricerca è di mettere il luce come i reportage e le parole e di alcuni
inviati durante la guerra degli degli Stati Uniti in Vietnam, negli anni più intensi
dell’intervento americano, abbiano contribuito a far comprendere la reale situazione che
le truppe americane vivevano in quell’angolo del mondo e sottolineare l’importanza,
attraverso gli articoli dell’epoca, del mestiere di reporter di guerra, mettendo in luce
l’importanza e l’eccezionalità della copertura giornalistica in Vietnam in un periodo in
cui l’interventismo militare statunitense non sembra essersi spento.
La tesi vuole ridare lustro alle parole che non hanno mancato di lacerare, come il
proiettile fatto esplodere dal revolver del generale Loan nella tempia di un sospettato
22
Vietcong, l’indifferenza di molti.
Nei primo capitolo mi soffermerò su concetti essenziali, come la decolonizzazione e la
guerra fredda, utili ad una migliore comprensione dei due conflitti che hanno investito il
Vietnam nel dopoguerra. Il secondo capitolo sarà dedicato alla guerra franco-vietnamita,
iniziata nel 1946 e conclusasi nel 1954; mentre poi mi soffermerò su quelle fasi
transitorie fra i due conflitti che hanno proiettato gli Stati Uniti verso la sua guerra più
lunga. Lo scopo è quello di fornire un quadro storico, necessario per una più corretta
comprensione degli articoli del tempo. L’ultimo capitolo, infine, riguarderà un’analisi di
alcuni reportage, pubblicati fra il 1964 e il 1968, il periodo più militarmente e
umanamente intenso della guerra del Vietnam.
I giornalisti, di cui mi farò interprete traducendone gli articoli, saranno della redazione
settimanale del Time. La scelta della rivista in questione è dettata dal fatto che essa è la
prima e più prestigiosa news magazine degli Stati Uniti, che vanta quattro diverse
edizioni (americana, europea, asiatica e del Sud Pacifico) e venticinque milioni di lettori
23
nel mondo. Inoltre, l'enorme database a dispozione su internet dal 1924, offre la
possibilità di leggere senza alcun tipo di filtro le parole di politici, combattenti, nonchè
giornalisti del tempo.
22
Cfr. Immagine 1 in appendice.
23
Venti negli Stati Uniti, cinque nel resto del mondo Dal sito di Time Magine http://
www.timewarner.com/corp/newsroom/pr/0,20812,1977391,00.html.
8
CAPITOLO 1. COLONIALISMO, GUERRA
FREDDA E DECOLONIZZAZIONE.
1. IL COLONIALISMO.
1
Secondo Francesco Montessoro, l'origine delle ultime due guerre del Vietnam qui
analizzate è da ricercare negli eventi che hanno segnato la decolonizzazione
2
dell'Indocina francese.
Da queste sue considerazioni inizia la trattazione della guerra che ha investito il
Vietnam dal 19 dicembre 1946 fino al 7 maggio 1954, giorno della sconfitta
francese nel campo trincerato di Dien Bien Phu.
Prima della decolonizzazione occorre dare però un quadro d'insieme del
fenomeno del colonialismo.
Esso rappresenta solo una parte del fenomeno dell'imperialismo, che consiste
nella volontà di un popolo di allargare la propria influenza su altri, dominandoli, e
nel controllo massiccio del territorio conquistato. Più precisamente il colonialismo
è quella forma di imperialismo che prevede l'occupazione militare di una data
3
regione e la creazione di veri e propri protettorati politici.
Con l'età dell' imperialismo si intende il quarantennio che va dal 1871 al 1914. La
pace e la sicurezza infusa anche dalla politica delle alleanze di Bismarck in
4
Europa, rese possibile investire in una nuova espansione coloniale.
Nel 1877 la regina Vittoria si proclamò "imperatrice" delle Indie, non solo cioè
dell'India propriamente detta, ma di tutti i territori sotto il controllo inglese fino a
5
quel momento.
1
Ricercatore di storia contemporanea dell'Asia Orientale presso l'Università degli
Studi di Milano che da anni compie studi sul Vietnam.
2
F.Montessoro, Le guerre del Vietnam, Giunti 2004, pag.9.
3
G.Barone, Imperialismo e colonialismo, in Manuale di Storia Donzelli. Storia
contemporanea. Donzelli editore, Roma 1997, pag.280.
4
Ibidem, pag.254
5
P.Viola, Storia moderna e contemporanea. Volume terzo: L'Ottocento. Einaudi,
Torino 2000, pag. 200-201.
9
L'età dell'imperialismo può essere considerato il quarto "nodo" fondamentale
dell'espansione coloniale europea.
Nel 1770 Guillarme François Raynal, abate e intellettuale francese, scriveva in
Historie Philosophique et Politique che la scoperta dell'America (1492) e la rotta
marina per l'Asia (1520) erano stati gli avvenimenti più importanti nella storia
dell'uomo e soprattutto per l'Europa. Sei anni dopo Adam Smith, con La ricchezza
delle nazioni spiegava l'importanza di questi due eventi fino a quel periodo e per il
futuro.
Raynal e Smith pubblicavano durante i viaggi di James Cook in Australia, Hawaii,
Nuova Zelanda, e le prime invasioni inglesi dell'India che chiudevano la seconda
espansione europea iniziata con la scoperta del Nuovo Mondo.
Dalla fine del XVII alla fine del XVIII secolo si registrò in Europa una transizione
durante la quale il potere passò dai paesi iberici agli stati atlantici dell'Europa del
Nord.
Iniziavano a porsi le condizioni della nascita della Rivoluzione industriale e
dell'Impero coloniale britannico; la conoscenza del mondo, dei suoi abitanti e dei
suoi prodotti si ampliava e si tesseva una rete sempre più fitta di scambi
6
multilaterali che si sarebbero intensificati col passare degli anni.
Tra il 1871 e il 1914, infatti, avviene un'ulteriore espansione europea durante la
quale l'imperialismo diventa una necessità economica e politica per affermare la
potenza di una nazione nel contesto politico mondiale, per trovare mercati di
7
sfogo ai prodotti del processo di industrializzazione
Le "motivazioni", le apparenti finalità che i colonizzatori hanno adoperato per
giustificare la loro volontà imperialistica, nel tempo, sono cambiate. Fra il 1500 e
il 1600 i «conquistadores» – soldati, esploratori e avventurieri spagnoli e
portoghesi resisi responsabili di veri e propri genocidi (al momento della
conquista gli abitanti del Messico erano circa 30 milioni, nel 1568 il loro numero
si era ridotto a 3 milioni, altre popolazioni condivisero tale destino) in America
6
G. Pagano, Il dominio coloniale, in Manuale di storia Donzelli. Storia Moderna.
Donzelli editore, Roma 1998, pag. 427-428.
7
P. Viola, Storia moderna e contemporanea. Volume Terzo: L'Ottocento. Einaudi,
Torino 2000, pag.203.
10
centrale e meridionale – e i coloni inglesi in America settentrionale, in Australia e
in Nuova Zelanda, avevano legittimato l'arricchimento legato alle colonie con la
8
giustificazione morale di evangelizzare i pagani.
Si parla a questo proposito di colonie di popolamento in cui la popolazione bianca
si era sostituita a quella indigena distruggendola o assimilandola.
Un secolo più tardi gli europei avevano pensato che non occorreva l'occupazione
di vasti spazi o creare amministrazioni nei territori conquistati, ma bastava
costruire delle basi lungo le coste e nei punti strategici delle rotte delle diverse
compagnie commerciali, che erano state "lo strumento organizzativo preferito
9
della politica colonialista europea fino al XIX secolo". Prevaleva in questi anni
l'aspetto puramente commerciale e non occorreva sostenere false costruzioni
ideologiche necessarie alla conquista.
A metà Ottocento la situazione cambiò nuovamente: servì, come durante la prima
colonizzazione, un massiccio controllo del territorio. In questo periodo, infatti, le
colonie non sono più solamente riserve di prodotti, ma i flussi economici si
invertono e sono gli investimenti economici alla base della politica estera delle
grandi potenze: le colonie diventano territori nei quali investire per costruire
nuovi mercati extraeuropei.
Un funzionario britannico in Egitto scriveva: "Non è sempre necessario indagare
troppo da vicino che cosa queste popolazioni, tutte più o meno minorenni dal
punto di vista nazionale, giudichino migliore per se stesse. È essenziale invece che
ogni specifica questione sia decisa soprattutto in considerazione di ciò che noi,
alla luce della nostra esperienza occidentale, pensiamo in coscienza sia più
10
vantaggioso per la razza assoggettata".
I colonialisti di fine Ottocento pensavano di governare le colonie come per
educarle alla modernità, alla civiltà. Nella maggior parte dei casi si trattava di
colonie di sfruttamento, nelle quali i colonizzatori erano presenti sul luogo con un
8
Enciclopedia UTET, La Storia: Volume 6, Dalla crisi del trecento all'espansione
Europea, De Agostini Editore, Novara 2004, pag.700.
9
G.Pagano, Il dominio coloniale, in Manuale di storia Donzelli. Storia Moderna.
Donzelli editore, Roma 1997, pag.445.
10
P.Viola, Storia moderna e contemporanea. Volume terzo: L'Ottocento. Einaudi,
Torino 2000, pag.201.
11
numero limitato di persone, risiedendovi per un periodo limitato solo per garantire
il dominio politico e il controllo economico delle risorse locali. Esistevano casi di
colonizzazione di popolamento, gli esempi più importanti sono il Sudafrica e
l'Algeria francese, dove comunque veniva sovrapposto un insediamento
11
permanente di coloni bianchi senza sostituire le popolazioni indigene.
Si possono distinguere due tipi di economia coloniale.
La prima comprendeva le colonie di popolamento ed investiva fortemente nella
produzione del paese colonizzato; in Sudafrica, per esempio, dalla fine
dell'Ottocento gli olandesi e poi gli inglesi avevano pieno possesso del capitale,
dell'imprenditorialità e delle terre che avevano espropriato, e sfruttavano la
popolazione nera del luogo che ha fatto parte, fino al 1990, di una classe sociale
inferiore per l'imperare di una legislazione prettamente razzista (apartheid),
fondata sulla legittimità del dominio politico della razza bianca colonizzatrice, a
discapito dei diritti e dei miglioramenti sociali ed economici delle popolazioni
indigene.
La seconda invece, definita economia di tratta, vedeva gli stati occidentali
partecipare solo al controllo delle importazioni e delle esportazioni dei paesi
dominati. Tutto ciò portò ad un profondo mutamento dell'agricoltura dei paesi
colonizzati che si specializzarono nella produzione di un solo prodotto, quello che
più era conveniente all'economia della madre patria: il Senegal – per esempio,
sempre durante gli anni immediatamente precedenti alla prima guerra mondiale –
nella coltivazione degli arachidi o il Ghana nel cacao. Ciò rendeva i paesi più
dipendenti dal commercio con l'estero e dalle grandi compagnie europee (l'inglese
United Africa Company o la Compagnie française de l'Afrique Occidentale) che
operavano in condizioni di monopolio. Gli occidentali in questo secondo tipo di
colonizzazione erano presenti in minor numero, come funzionari o come
commercianti e non come coloni, e il sistema politico era meno coercitivo.
11
Cfr. G.Barone, Imperialismo e colonialismo in Mauale di storia Donzelli. Storia
Contemporanea. Donzelli editore, Roma 1997, pag. 257-258, e P.Viola, Storia
moderna e contemporanea. Volume terzo: L'Ottocento. Einaudi, Torino 2000,pag.
199, 200, 201.
12
Fra questi due estremi esistevano forme intermedie e miste di colonizzazione,
come, per esempio, in Congo dove vi erano forti investimenti stranieri senza che
12
ciò comportasse l'insediamento dei coloni bianchi.
1212
G.Barone, Imperialismo e colonialismo in Manuale di storia Donzelli. Storia
Contemporanea. Donzelli editore, Roma 1997, pag.257-258.
13
2. IL COLONIALISMO DEGLI STATI UNITI.
Particolare attenzione meritano nel contesto dell'imperialismo anche gli Stati
Uniti.
Dopo il modello europeo e giapponese, – che nel 1894 durante «l'era
Meiji» (illuminata) giunse, seguendo un capitalismo che lo storico inglese W. G.
Weasley interpretava col militarismo e colla volontà di competere con le grandi
potenze, a ottenere l'abolizione dei «trattati ineguali» imposti poco meno di
quarant'anni prima – gli Stati Uniti rappresentano un terzo e diverso modello di
espansione. Nel corso dei primi quindici anni del 900 gli investimenti esteri degli
Usa superarono quelli che venivano attuati nel territorio nazionale e ciò determinò
il sorgere di attive correnti politiche e culturali favorevoli all'espansione
oltremare.
Seguendo il modello dell'economia di tratta gli Stati Uniti, sebbene
«anticolonialisti», cioè contrari all'occupazione militare dei territori, sicuramente
non erano contrari alla conquista dei mercati, agli investimenti e alla conseguente
creazione di zone di influenza.
Il dominio coloniale non rappresenta quindi la forma esclusiva, nè tanto meno la
forma più conveniente di imperialismo economico, che, in molti casi preferisce
fondarsi sul controllo indiretto e informale (indirect rule), penetrando nei paesi
più deboli attraverso l'esportazione dei capitali e stabilendovi zone d'influenza.
Gli Stati Uniti infatti si impegnarono solo marginalmente nella conquista di
1
colonie, ma dopo il 1945 creeranno il più grande impero «informale» della storia.
1
G.Barone, Imperialismo e colonialismo in Manuale di storia Donzelli, Storia
Contemporanea, Donzelli editore, Roma 1997, pag.262-263 e 278-279.
14
3. LA DECOLONIZZAZIONE E LA GUERRA FREDDA.
Col termine decolonizzazione si intende il periodo che si intreccia alla guerra
fredda e si esplica anche attraverso il terzomondismo.
Esso porta allo smantellamento dell'antico sistema coloniale europeo e l’accesso
all’indipendenza dei popoli afro-asiatici, "ognuno dei quali col suo governo, la sua
1
burocrazia, il suo esercito, il suo seggio alle Nazioni Unite".
I cinquantuno stati facenti parte della precedente Società delle Nazioni del '45,
infatti, nel '65 diventano, in seno all’ONU, centoventi e gli originari dodici stati
afro-asiatici crescono fino a settanta. In meno di due decenni, quindi, gran parte
dell'Asia Meridionale, aree del Medio Oriente e quasi tutta l'Africa vedono
2
aggravarsi la crisi dei grandi imperi coloniali europei.
La vulnerabilità del colonialismo europeo si era manifestata con chiarezza in Asia
quando il Giappone aveva cacciato tutte le potenze europee dal Sud-est asiatico
durante la seconda guerra mondiale; inoltre, i principi di libertà e di
autodeterminazione democratica, due degli otto punti dell'accordo anglo-
americano, per trattare l’ingresso in guerra degli Stati Uniti (Carta Atlantica),
acquistavano successivamente sempre maggior peso nelle relazioni internazionali,
concorrendo a ridurre ulteriormente l'alone di legittimità del colonialismo.
Infine i movimenti nazionalistici e indipendentisti nati e sviluppatisi durante la
grande guerra, si erano rinforzati sia in seguito alle lotte di resistenza ai
giapponesi – come in Indocina –, sia per il rinvigorimento delle borghesie
commerciali, favorito dalla mobilitazione bellica dei colonizzatori che aveva dato
un grande impulso alla produzione e all'attività commerciale locale – vedi l'India e
3
l'impero britannico.
Anche se come scrive Viola "nella maggior parte dei casi il colonizzato era un
depresso, o addirittura un disperato che non intravedeva neppure una via d'uscita,
e che desiderava spasmodicamente sostituirsi al colonizzatore, abitare nei suoi
1
P.Viola, Storia moderna e contemporanea, Volume quarto: Il Novecento, Einaudi,
Torino 2000, pag.282.
2
F.Romero, Guerra fredda e decolonizzazione, in Manuale di storia Donzelli,
Storia contemporanea, Donzelli, Roma 1997, pag. 483-484.
3
Ibidem.
15
quartieri, parlare la sua lingua, possedere la sua forza, le sue ricchezze, le sue
donne, i suoi modi, i suoi valori. Ma – continua – questo desiderio era
inappagabile per definizione. L'ultimo operaio, l'ultimo contadino europeo aveva
sempre potuto sperare nell'ascesa sociale dei suoi figli. Il colonizzato no, perché
ostacolo insormontabile era il colore della sua pelle. Perfino in India, malgrado la
raffinatezza intellettuale e politica di quel paese e il relativo autogoverno che gli
inglesi permettevano, la distanza sociale fra «i gentiluomini dalla pelle scura»,
cioè la classe dirigente autoctona, e i funzionari o i mercanti britannici era
4
incolmabile".
Guerra fredda, cioè non guerreggiata, è il termine usato dal giornalista Walter
Lippmann per stigmatizzare la condizione di tensione permanente tra Stati Uniti e
Unione Sovietica nel dopoguerra. Un antagonismo tra Est Europeo e Ovest che si
scrutavano diffidenti e negavano a vicenda ogni reciproca legittimità, percependo
l'avversario come una minaccia al proprio sistema di valori e forse, alla propria
sopravvivenza: era una guerra simbolica totale in cui l'Unione Sovietica veniva
paragonata dagli Stati Uniti alla Germania di Hitler e gli Stati Uniti ad un impero
5
ansioso solo di estendere il proprio dominio sul mondo.
Essa si combattè tramite una rincorsa al potenziamento militare delle due
superpotenze, in un contesto storico che non vedeva più gli Stati Uniti come unico
stato detentore di armi nucleari (nell'agosto del '49 l'U.R.S.S. fa esplodere la sua
prima bomba atomica).
Concretamente in Europa la guerra fredda si percepisce in vari momenti, una volta
che il presidente Truman decide di agire seguendo la strategia militare del
contenimento del comunismo. Il 12 marzo 1947, gli Stati Uniti sostituiscono la
Gran Bretagna nei rifornimenti alla Grecia e alla Turchia, sostenendo la fazione
anticomunista delle rispettive guerre civili. Truman annuncia di "volere sostenere i
popoli liberi che intendono resistere a tentativi di assoggettamento da parte di
6
minoranze armate o di pressioni esterne".
4
P.Viola, Storia moderna e contemporanea, Volume quarto: Il Novecento, Einaudi,
Torino 2000, pag.287.
5
F.Romero, Guerra fredda e decolonizzazione, in Manuale di storia Donzelli,
Storia contemporanea, Donzelli, Roma 1997.
6
Ibidem.
16
Il Blocco di Berlino con il quale l'Unione Sovietica, il 24 giugno del '48, blocca
tutti gli accessi alla città per fermare gli aiuti del Piano Marshall, programma
economico occidentale i cui scopi si intrecciano con la strategia del contenimento,
e i colpi di stato nei paesi dell'Est, la cosiddetta sovietizzazione, con cui le zone
d'influenza sovietica, nell’Europa orientale, diventano un blocco di regimi
comunisti omologhi, si spiegano solo alla luce di questo nuovo ordine bipolare
che vive i suoi anni più intensi fra il 1950 e il 1953. Con l'ascesa al potere di Mao
Dzedong nel 1949 Truman vede nel comunismo cinese un movimento indistinto e
planetario, al pari di quello sovietico e ciò lo porta ad intervenire nella Guerra di
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Corea portando la guerra fredda fuori dal teatro europeo.
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F.Romero, Guerra fredda e decolonizzazione, in Manuale di storia Donzelli,
Storia contemporanea, Donzelli, Roma 1997.
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4. LA DECOLONIZZAZIONE IN ASIA E NEL MEDIO
ORIENTE
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Furono le popolazioni asiatiche le prime a rendersi indipendenti.
L’India in testa, col riconoscimento del proprio stato a maggioranza indù e quella
del Pakistan, a maggioranza musulmana, nel 1947 grazie al sogno non pienamente
realizzato di Mohandas Karamchand Gandhi. Il leader del Partito del congresso e
del relativo movimento indipendentista non violento sperava in un unico stato
laico, che avrebbe ospitato indù e musulmani, insieme.
Per quanto riguarda il Sud-Est asiatico, il processo di emancipazione e gli sviluppi
successivi sono stati condizionati dal confronto fra le forze nazionalistiche
(conservatrici o progressiste) e i movimenti comunisti che dal 1949, con la nascita
della Repubblica Popolare di Cina guidata da Mao, guardavano a questa come
loro base.
In quest’area gli U.S.A. concessero l’indipendenza alle Filippine nel 1946 dove
governi di carattere autoritario - come quello guidato da Ferdinand Marcos al
potere dal ’65 all’86 - si impegnarono a sopprimere la guerriglia condotta da forze
separatiste musulmane e comuniste.
L’Indonesia ottenne l’indipendenza nel 1946 grazie al movimento guidato da
Ahmed Sukarno che trasferì il governo nelle mani delle forze militari nel 1965
dopo un fallito tentativo di rivolta rossa.
Anche in Medio Oriente la seconda guerra mondiale accelerò, in parte, il processo
di decolonizzazione con la nascita dello Stato di Israele nel 1948 aprendo così il
problema di uno spazio palestinese e accendendo la prima guerra arabo-israeliana,
la “Guerra d’indipendenza” per Israele, la “Nakba” - “Catastrofe” - per gli arabi.
Nel 1952 il regime di Nasser in Egitto con la rivolta degli ufficiali sanciva la fine
della monarchia e l’Egitto acquistava una posizione di grande rilievo fra i paesi
mediorientali, soprattutto dopo la Crisi del canale di Suez del ‘56 e il conseguente
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abbandono del canale di francesi e inglesi.
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Cfr. Cartina n.1 in appendice.
2
F.Romero, Guerra fredda e decolonizzazione, in Manuale di storia Donzelli,
Storia contemporanea, Donzelli, Roma 1997.
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