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Correntemente ci si riferisce ai rivestimenti orizzontali parlando di
pavimenti, a prescindere dai materiali e dalle tecniche utilizzate, ma tale
definizione deriva in realtà dall’antica maniera di rifinire i piani di
calpestio e di copertura: la battitura. La radice “pavio”, da cui poi
“pavimento”, si traduceva infatti in Grecia in “battere”, “percuotere”.
Sebbene i battuti abbiano goduto di ampio consenso nei secoli, essi sono
ormai da tempo stati messi da parte per far posto a tecniche costruttive
innovative e forse migliori. È però importante conoscere la loro origine e i
vari sviluppi che i battuti hanno visto non solo a titolo storico-culturale, ma
anche e soprattutto per mantenere viva una cultura del recupero edilizio
che permetta di dialogare con manufatti che ancora oggi svolgono
perfettamente i compiti assegnati loro e riuscire a leggere, in ciò che resta
del passato, quelle pratiche costruttive e quegli accorgimenti tecnico-
pratici che, per quanto a volte rudimentali, hanno costituito punto di
partenza per le più innovative tecniche moderne.
I battuti o massi pavimentali in genere, senza ancora distinguere tra le
varie classificazioni esistenti al riguardo, presentano infatti numerose
qualità legate in parte all’elevato spessore che li costituisce, qualità a volte
non auspicabili e raggiungibili con i mezzi moderni. La sovrapposizione di
più strati eterogenei permette un ottimo isolamento acustico, la struttura
pesante offre una buona inerzia termica e un buon isolamento, l’umidità è
catturata come in una spugna che assorbe e rilascia ciclicamente. Ciascuna
di queste caratteristiche è stata privilegiata e quindi migliorata nel tempo in
funzione di fattori geografici o culturali tramite numerose variazioni al
tema.
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figg. 7-8, una successione di panconcelli chiude una vecchia botola. È visibile il lastrico polverino.
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Talvolta, quando i muri erano già stati costruiti, si realizzavano le caraci per tutto lo
spessore di uno dei muri, ottenendo quelli che a Napoli si dicevano buchi a passatore,
da cui appunto passavano le travi fino a trovare nel muro opposto le corrispondenti
caraci. Nel definire la posizione delle travi era conveniente che le due estreme
rimanessero aderenti ai muri del locale, per una giusta continuità di carichi dal
pavimento alla tamponatura. Inoltre era opportuno che una trave capitasse quasi
precisamente al centro della stanza, per potervi appendere una lumiera.
Per resistere all’umidità interna alla muratura, le
testate erano murate senza malta né gesso, che
corrodono il legno, ma con argilla ad assorbire
acqua. Alle volte, soprattutto per legnami grezzi, si
spalmavano le estremità delle travi due volte con
catrame vegetale (detto di Norvegia) a caldo,
oppure con il catrame minerale, più denso perché
proveniente dalle officine del gas. Si usava anche
proteggerle con fogli di cartone bitumato o scatole
di ferro, ma le soluzioni migliori prevedevano la
circolazione dell’aria attorno al legno tramite canaletti o fori di aerazione
adeguatamente protetti con filtri di lamiera, per impedire che i topi potessero
rifugiarvisi.
Una soluzione intelligente si ritrova anche nelle case di Pompei, nelle quali i vani dei
muri sono foderati con mattoni (fig. 1-2).
Volendo del tutto evitare di incassare le travi nella muratura, si realizzavano ai lati dei
muri delle banchine di mattoni aggettanti, oppure delle mensole in pietra compatta e
resistente (in Campania la pietrarsa, la pietra lavica), chiamate pulvini o dormienti. Su
di essi e parallelamente al muro poggiava una lunga trave squadrata, detta corrente o
fig. 11
fig. 12
22
I solai composti, infine, nascevano più che altro come prova di bravura dei maestri. Si
ricordano i solai alla Serlio, in cui ciascuna trave, partendo dal muro, poggia sulle travi
ortogonali che incontra, e funge allo stesso modo da sostegno; il solaio a scomparti,
costituito essenzialmente da poligoni inscritti l’uno nell’altro; il solaio a cassettoni, nel
quale alle travi principali si incastrano i travicelli che sorreggono il tavolato
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.
All’intradosso dei solai, per motivi igienici ed estetici, si realizzavano controsoffittature
in modi assai vari. All’intradosso dei solai venivano realizzate l’incartata e la
graticola.
L’incartata era un rivestimento di carta dipinta con la quale si ricoprivano le travi e le
valere per nascondere le sconnessure tra le parti e gli eventuali difetti. Le incartate
avevano nomi diversi: “ad aria” erano quelle con fondo ad unico colore, “alla Bisquit”
se ricche di ornamenti, “a cassettoni” se i motivi rimandavano alla suddivisione tipica
del cassettonato, infine “a disegno” quando caratterizzate da raffigurazioni.
fig. 13, esempio di caraci a passatore in una muratura di tufo.
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2. I battuti di gesso
I battuti di gesso erano realizzati principalmente nelle zone in cui l’abbondanza di
pietra di gesso rendeva il materiale poco costoso. Farlo infatti arrivare dai luoghi di
produzione, nel caso questi fossero particolarmente distanti, risultava poco economico,
dal momento che il gesso perde peso all’atto della calcinazione e data la scarsa qualità
del battuto che se ne otteneva. Se non posto in opera immediatamente dopo la cottura,
infatti, il sole riscalda la polvere di gesso e la fa fermentare, l’umidità ne diminuisce la
forza e l’aria ruba una buona parte dei suoi minerali, e questo diminuisce la
compatibilità con gli altri materiali ed aumenta il rischio di screpolature.
Tale battuto, vista l’attitudine del materiale ad assorbire l’umidità e la velocità con cui
lo stesso tende a far presa e indurimento, veniva destinato esclusivamente agli spazi
chiusi e perfettamente asciutti.
1.1 Orizzontamenti: pavimentazioni e coperture
Per realizzarlo si utilizzava del gesso
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a presa lenta, detto da pavimento, ottenuto con
la cottura a circa 950÷1300 gradi delle rocce di selenite e la successiva macinazione in
mulini all’aria aperta, con mole o pilloni
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. Questo processo di cottura trasformava il
gesso in modo che non possedesse più la minima
molecola d’acqua e gli permetteva di avere una
resistenza sicuramente maggiore del gesso
semidrato. Esso acquistava “facoltà di presa
lenta, dura, solida”
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. Un gesso ben cotto lo si
riconosceva al tatto, ossia dalla consistenza
pastosa e collosa. Al contrario un gesso mal
calcinato o con presenza di impurità, quali sabbia
ovvero ossidi di ferro, risultava friabile e
screziato, in questo caso esso era usato come
fertilizzante nei terreni.
A seguito della cottura e macinazione la farina di
gesso era impastata con acqua
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a temperatura
fig. 15, mazzapicchio di legno per
battuti in gesso
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fig. 19, una vecchia cisterna.
Il battuto di calce era molto utilizzato, miscelato con particolari componenti, anche
come impermeabilizzazione delle più svariate superfici, come nel caso di cisterne,
pozzi, palmenti e altri simili ricettacoli d’acqua.
Già Vitruvio raccomandava il ricorso a massicci intonaci, composti di ben tre strati. Il
primo di questi, dello spessore di 8÷11 cm, era formato di malta e scaglie di pietra; il
secondo, di 3 cm, si costituiva di pozzolana o mattone pesto; infine il terzo era uno
spessore molto sottile di malta di calce e polvere finissima di mattoni. Il “cappotto” così
ottenuto era battuto fino a richiamare alla superficie tutta l’acqua dell’impasto, al fine
di garantire una duratura compattezza.
Nel napoletano le pareti delle vasche rivestite con battuto, che assumeva nel caso
particolare il nome di grottone,
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vedevano il rivestimento applicato in spessore costante
di 4÷5cm, e ridotto per battitura di circa un terzo.
Le poche fasi costruttive prevedevano che il supporto verticale fosse quanto più
possibile regolarizzato, poi su di esso era steso uno strato di malta idraulica,
confezionata con calce e lapillo fine o pozzolana nel rapporto di 2 a 1. La malta era
distribuita dal basso verso l’alto in strisce orizzontali di circa 30cm e raccordi di 15 cm
nelle zone d’angolo
3
. Il tutto era infine compattato con colpi di mazzola, portati
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definito il senso delle pendenze, si disponeva il pavimento di tesserae le cui giunzioni
erano da trattare ogni anno con sansa, per impedire che il gelo si infiltrasse.
In casi particolari si stendeva al
di sopra del rudus, per mezzo
di malta di calce, uno strato di
tegulae bipedales, tegole in
laterizio di lato pari a circa 60
cm, conformate in modo che i
lembi potessero unirsi a
maschio e femmina. Le
giunzioni erano sigillate con un
impasto di calce ed olio, che,
una volta solidificato, impediva qualsiasi infiltrazione d’acqua.
L’uso del battuto di calce non è comunque da attribuire ai soli romani. Vitruvio accenna
ad un battuto realizzato in Grecia dalle particolari capacità assorbenti, usato in
appartamenti invernali o in sale da banchetto al pian terreno.
Per la realizzazione si effettuava inizialmente uno sbancamento fino ad una profondità
di 60 cm e, rassodato il terreno, se ne imponeva una certa inclinazione per agevolare lo
scolo di eventuali liquidi verso l’esterno. Sul suolo così compattato si poneva un primo
spessore di calcinacci e malta in funzione di vespaio e subito sopra uno strato di
carbone di mezzo piede che veniva energicamente battuto. la superficie era completata
con un impasto di calce, sabbia e cenere a costituire il masso pavimentale, della
grossezza di circa 16cm. Il colore era terreo, ma poteva essere lisciato con l’arenaria ed
assumere l’aspetto di un pavimento nero.
Il battuto alla greca forniva notevoli vantaggi di coibenza, esplicata dallo strato di
carbone, ed igienicità, poiché i liquidi eventualmente versati sul pavimento erano
immediatamente assorbiti dalla porosità della superficie e potevano rifluire verso il
canale posto al piede dello sbancamento.
Sull’esempio di Vitruvio numerosi sono stati poi coloro che, come costruttori e
studiosi, si sono cimentati nella definizione di questi pavimenti. Più che differenziarsi
per le tecniche, in realtà, essi adattarono le stesse alla varietà di materiali e risorse
disponibili. Agli inizi del novecento il Donghi descrive il battuto di calce alla russa,
che consiste di una parte di calce sfiorita all’aria e due parti di ghiaia, che vengono
bagnate con sangue di bue in piccola quantità. In questo adattamento lo statumen era
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La tecnica del cocciopesto
viene di norma, erroneamente,
fatta derivare da quella più
antica dell’opus signinum, ed è
ripresa nella trattazione di più
autori. La confusione tra i due
composti è dovuta al fatto che
quasi sempre, nelle fonti
antiche, il signino è citato in
relazione alle strutture
idrauliche, ai pavimenti, agli
intonaci, realizzati spesso in
cocciopesto. Non aiuta inoltre la
moltitudine di termini usati per
nominare la tecnica dei laterizi
pestati.
Sebbene gran parte della
letteratura tecnica sia
consultabile in base ad uno dei
due termini senza problemi, la
distinzione tra le due miscele è
invece necessaria, poiché
risulta il cocciopesto un
conglomerato, e il signino una
malta. Nella sua preparazione
non compare traccia di laterizio,
se non in Plinio, bensì la calce
era mescolata a sola sabbia e
pietrame duro di piccola
pezzatura.
L’autentica tecnica del
cocciopesto viene descritta da
più autori, tra cui il Rondelet,
che suggerisce un impasto
costituito di una parte di calce e
figg. 25-27, esempi di opus signinum a Pompei. Nel terzo
caso sullo strato finale sono state aggiunte delle tessere in
marmo disposte ordinatamente come elemento decorativo.