Introduzione
In questa tesi esporremo la teoria della mente di Gerhard Roth. Tale teoria si
basa su ricerche neurologiche. Roth è infatti un neuroscienziato e quindi la
maggior parte dei suoi libri tratta di neuroscienza. Questi libri non mancano altresì
di occuparsi di filosofia. Vorrei concentrarmi in questa introduzione sulla scelta di
affrontare, in un percorso di studi come quello di filosofia, una tesi con una forte
componente neuroscientifica.
Per capire l‟importanza della neuroscienza oggi, dobbiamo volgere la nostra
attenzione agli albori della filosofia. Ci sono domande a cui la filosofia tenta di
rispondere da più di duemila anni. Dai tempi della sua nascita si interroga
sull‟anima, sul mondo, sulla realtà, ecc. . Ci sono dei temi che sono l‟essenza
della filosofia. Tra questi si considera anche quello dell‟anima e della mente. Che
cosa sia la mente è un problema a cui l‟uomo sembra cercare una risposta da
quando è in grado di riflettere su se stesso. Da Platone ad Aristotele, da Descartes
a Kant, molte sono state le teorie proposte, ma nonostante questo ci chiediamo
tuttora cosa siano l‟anima e la mente. Interrogarsi sull‟anima e la mente sembra
essere un bisogno intrinseco all‟uomo.
Nel Novecento siamo stati testimoni di un progresso scientifico che ha
cambiato il nostro modo di pensare sia praticamente che teoricamente. Le scoperte
scientifiche hanno irreversibilmente modificato il nostro modo di vivere, ma forse
ancor più il nostro modo di ragionare. Mi sento di affermare che il nostro pensiero
si plasma sulle conoscenze scientifiche; esse sono considerate la base di ogni
conoscenza oggettiva. La scienza ha portato una vera rivoluzione. La filosofia
stessa, nel secolo scorso è stata permeata dalle scienze. Certi domini della
filosofia si sono ormai dissolti in studi scientifici. Si è addirittura temuta la
scomparsa della filosofia come scienza autonoma. Per fortuna così non è stato ed
ancor oggi gli uomini continuano a porsi le domande che già si ponevano migliaia
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di anni fa. Oggi però non si può sperare di fare della buona filosofia contando solo
sui mezzi tradizionali di tale disciplina, almeno non nel campo della mente.
Fin dall‟antichità si è creduto, in certi pensatori, che l‟anima fosse in contatto
con il corpo. Agli albori del concetto di psychè, in Omero e nei presocratici, si
pensava che essa fosse l‟anelito vitale del corpo, qualcosa di sottile e di materiale
che albergava in esso. Nell‟Ottocento si è cominciato a studiare il cervello
rendendosi conto di come certi disturbi mentali fossero legati a disturbi cerebrali.
Già due secoli fa si intuiva, per quanto non si avessero le tecniche per dimostrarlo,
che la mente aveva un forte legame con il cervello. A partire dagli anni Sessanta
del secolo passato, si hanno conoscenze ben più precise di cosa sia il cervello e di
quali funzioni svolga. Sappiamo, ad esempio, che le emozioni hanno una
relazione con la parte più interna e più antica del sistema nervoso, il sistema
limbico. Sappiamo inoltre che i processi cognitivi più complessi avvengono nella
corteccia cerebrale. È stato individuato il centro del linguaggio e siamo in grado di
fornire spiegazioni, anche se talvolta parziali, di una gran parte di ciò che
chiamiamo “stati mentali”. Le scoperte neuroscientifiche hanno fornito nuova
linfa al dibattito filosofico sulla mente e noi non possiamo ignorarle. Farlo
significherebbe relegare la filosofia nel “cantuccio” dell‟a priori, che non è detto
sia ancor oggi la modalità di analisi determinante per lo studio della mente.
È significativo riconoscere, però, che le posizioni filosofiche non sono poi così
cambiate dall‟antichità; esistono ancor oggi, come ai tempi di Platone, Democrito
e Aristotele, dualisti, materialisti e funzionalisti. Le teorie filosofiche sono
renitenti ai cambiamenti nonostante che, seppur identiche nelle loro assunzioni
fondamentali, abbiano dovuto aggiornare i propri concetti sulle nuove scoperte.
Nessuno può più credere, infatti, che la mente sia il soffio vitale del corpo. Non si
può più ritenere che la mente sia una res cogitans differente da una res extensa.
Anche i dualisti del resto (di oggi o di un recente passato) ritengono di dover
trovare un modo di conciliare le loro convinzioni metafisiche sull‟esistenza
dell‟anima con le neuroscienze. Si pensi a J. Eccles, dualista ma egli stesso grande
neuroscienziato o a recenti tentativi di conciliare la fede cristiana nell‟esistenza
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dell‟anima con la scienza moderna. Ci sono filosofi e neuroscienziati dualisti,
come Eccles, che sono stati costretti a comporre le loro teorie su basi
neurofisiologiche per poter dar credito alle proprie affermazioni.
Oggi la neuroscienza è fondamentale per poter avanzare teorie sulla mente,
come lo era la medicina per Aristotele e l‟anatomia per Descartes. Ogni teoria è
figlia del suo tempo e delle sue conoscenze. Noi, nell‟era delle neuroscienze, non
possiamo più fare filosofia della mente senza di esse. Non credo che la scienza
possa rispondere alle domande della filosofia, ma ritengo che la filosofia debba
basarsi sulle conoscenze scientifiche per porsi domande più pregnanti ed elaborare
spiegazioni più approfondite.
Noi oggi siamo davanti ad un cambiamento in atto del modo di fare filosofia
nel campo della mente. Siamo davanti a conoscenze scientifiche che sorprendono,
che meravigliano, che aprono nuove orizzonti di ricerca. Vecchie questioni che
sembravano morte, o prive di interesse, oggi ritornano prepotentemente sulle
scene del dibattito mondiale grazie alle scoperte scientifiche. Concetti come libero
arbitrio o come coscienza devono essere rivisti alla luce delle neuroscienze. Forse
si pensa che le spiegazioni scientifiche riducano i problemi da affrontare o
banalizzino le questioni riguardanti la mente? Non è affatto così! Più le
conoscenze avanzano e più la riflessione sull‟uomo abbisogna della filosofia; più
scoperte vengono fatte e più la mente umana è portata a sviluppare le analisi e ad
allargare i propri orizzonti. Le “temerarie teorie” di inizio secolo sono quelle che
oggi accendono i dibattiti accademici; basti pensare alla relatività di Einstein o
alla meccanica quantistica. La scienza è oggi ciò che fornisce gli elementi di
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discussione alla filosofia. Io credo nell‟importanza dei metodi peculiari della
filosofia, tra i quali darei ampio rilievo all‟introspezione e alla storia della
filosofia. Ritengo che i testi filosofici siano portatori di un sapere diverso da
quello delle scienze, un sapere più vicino all‟uomo. Penso allo stesso modo che le
scienze siano lo strumento per dar vita alle riflessioni filosofiche. Le scienze sono
1
Cfr. Popper K.- Eccles J. C., L’Io e il suo cervello, 3 voll., Armando Armando, 1981, Roma e
Vito Mancuso, L’anima e il suo destino, Milano, Cortina, 2007.
2
Cfr. Nannini S., L’anima e il corpo, Laterza, 2002, Roma-Bari, p. 98
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la conditio sine qua non per elaborare una teoria filosofica valida. Non voglio
disquisire se sia un bene o un male un mondo dominato dalla scienza, né
denigrarlo né tesserne le lodi. Vorrei mostrare come sia, oggi, in ogni caso
imprescindibile che le analisi filosofiche, nel campo della mente si basino sulle
conoscenze neuroscientifiche. Ovviamente ciò non basta: anche scienze come la
psicologia o la psicoanalisi offrono elementi di riflessione alla filosofia della
mente. La filosofia è, per me, la sintesi di tutte queste altre scienze e deve fornire
all‟uomo una chiarificazione sulla propria esistenza, sul proprio orizzonte di vita.
Mentre psicologia e neuroscienza sono saperi pratici, la filosofia lo diventa
soltanto quando acquista questa dimensione esistenziale, quando assume il
compito di tracciare le linee del futuro dell‟umanità.
Vorrei concludere citando il libro “Il tunnel dell‟Io” di T. Metzinger che è
emblematico del ragionamento fin qui svolto. Nel libro infatti si celebrano i
successi delle neuroscienze nella ricerca della mente, ma si tenta in seguito di dare
una visione d‟insieme di cosa sia un uomo, si tenta di spiegare da quali elementi
sia composta la nostra vita. Tra scienza e filosofia nasce una nuova visione di noi
stessi che coinvolge anche le nostre convinzioni etiche e non solo teoretiche.
Nella mia tesi mi occuperò quindi di un neuroscienziato per avviarmi sulla via
di una nuova concezione di cos‟è l‟uomo, di cos‟è il mondo e di come noi stiamo
nel mondo. Principalmente faremo una disquisizione su come si debba e su come
si possa intendere la realtà, ricordando con le parole di Metzinger che “sì, esiste
un mondo esterno, e sì, esiste una realtà oggettiva, ma muovendoci in questo
mondo applichiamo costantemente dei meccanismi di filtro inconsci, e così
facendo ci costruiamo inconsapevolmente il nostro mondo individuale […] Non
siamo mai in contatto diretto con la realtà in quanto tale perché tali filtri ci
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impediscono di vedere il mondo così com‟è.”
3
Metzinger T., Il tunnel dell’Io, Raffaello Cortina Editore, 2010, Milano, p. 10
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Capitolo primo
La realtà fenomenica è un costrutto del cervello
1.1 Un esempio introduttivo
Fondamentale per la tesi del costruttivismo è stabilire se la percezione sia un
processo di rappresentazione o di costruzione della realtà. Il principio basilare del
costruttivismo è considerare la realtà un prodotto del cervello. Secondo questa
teoria è possibile dimostrare quest‟assunto tramite ricerche empiriche;
proponiamo perciò un‟indagine sulla percezione visiva.
Roth afferma che lo studio condotto sulla vista è volto a spiegare come il
processo percettivo sia una costruzione del nostro cervello. In contrasto con chi
pensa che la percezione visiva, come tutte le percezioni sensoriali, sia un processo
basato esclusivamente su leggi fisiche, egli dimostra che anche per la percezione
visiva più semplici, come quella dei colori, non sia possibile una spiegazione
fondata esclusivamente sulle norme delle suddette scienze. Roth cerca di spiegare
che, se si ipotizza essere la percezione un processo basato sulla riproduzione di
un‟immagine interna della realtà esterna, non si è in grado di dar conto di alcuni
fenomeni empiricamente osservabili.
Dallo studio di Roth appare che la percezione del colore non è totalmente
determinata dai principi fisici di rifrazione, assorbimento e riflessione della luce
sui corpi, né esclusivamente dalla percezione delle varie lunghezze d‟onda, bensì
risponde a due diversi principi peculiari del funzionamento del cervello. Il primo è
quello che ipotizza l‟esistenza di tre differenti coni fotosensibili che dalla retina
giungono fino alla corteccia occipitale e che sono deputati a percepire le varie
lunghezze d‟onda: differenti canali per il rosso, il verde ed il blu. La visione dei
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colori avviene solamente se due canali su tre sono funzionanti; non basta perciò
percepire la lunghezza d‟onda del rosso per vedere rosso, bisogna che almeno un
altro canale riceva informazioni sulle lunghezze d‟onda degli altri colori,
altrimenti avremo una visione simile al bianco e nero. L‟altro è il principio
dell‟antagonismo dei colori. Questo è un principio che non si basa sulle
caratteristiche fisiche degli oggetti percepiti, bensì è una caratteristica di auto-
organizzazione e stabilità del nostro cervello. Si può riscontrare che, ad esempio,
fissando una superficie blu per qualche secondo e poi spostando lo sguardo su una
bianca, tale superficie sarà percepita per qualche istante come gialla prima di
vederla del suo colore naturale. In questo caso il colore giallo è solo nel nostro
cervello e non corrisponde a nessun fenomeno fisico nel mondo. Nonostante tale
superficie rifletta sempre la stessa quantità di luce e quindi produca lo stesso
colore, il nostro cervello attiva un meccanismo neuronale che ci fa percepire la
superficie come gialla. Il fatto di percepire l‟oggetto di un colore che non ha non
significa che esso debba modificare la sua struttura fisica reale per rispondere alla
percezione che noi abbiamo di esso (la realtà esterna, oggettiva, non si modifica, è
indipendente dalle nostre percezioni). Significa semplicemente che l‟oggetto
reale, così come concepito dalla fisica, non esiste nella nostra percezione. Ciò che
esiste è solo un insieme di meccanismi neuronali complessi (che vanno oltre le
informazioni dei fotorecettori) che producono un oggetto fenomenico che non è la
rappresentazione di quello fisico, bensì il prodotto di tale attività neuronale. In
questo esempio abbiamo uno dicotomia tra il fatto reale e il fenomeno percepito.
Secondo questa interpretazione Roth afferma che il nostro cervello costruisce la
visione. Verifica infatti che, in presenza di un fatto fisico determinato, la
percezione che ne abbiamo non deriva in nessun modo da esso. Non c‟è nessuna
legge fisica che spieghi il processo analizzato precedentemente, solo un
meccanismo interno al cervello può spiegarlo; abbiamo perciò un primo esempio
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di come il cervello costruisca la realtà che percepiamo.
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Roth cerca di dimostrare come la fisica non colga che una parte dei fenomeni esistenti e tale parte
è quella per cui essa è stata pensata. Roth vede anche la fisica come un costrutto del cervello, per
questo l‟oggetto appare diverso nella percezione e nella fisica, perché sono due modalità di
conoscenza del mondo diverse. Quello che Roth non accetta, per i motivi suddetti, è che la fisica
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1.2 La conoscenza è sempre un punto di vista sul mondo
Roth parte da una considerazione che ritiene sia condivisibile anche da parte
dei realisti critici: noi uomini veniamo a conoscenza (in senso strettamente
biologico) solo di una parte della realtà ed esattamente di quella percepita dai
nostri organi sensoriali. Fatta quest‟assunzione Roth continua che non solo un
essere vivente è consapevole della realtà limitata dai suoi organi sensoriali, ma, di
tutte le informazioni ottenibile dall‟ambiente, solo una parte viene realmente
percepita e specificatamente quella importante per la sopravvivenza
dell‟organismo. La percezione che abbiamo del mondo è quindi limitata. Se
ammettiamo questo, come possiamo affermare di conoscere la realtà nella sua
totalità? Possiamo comprenderla grazie alle scienze? Lo studio delle scienze
permette di ovviare a questo problema poiché attraverso gli strumenti tecnologici
possiamo conoscere parti di realtà che altrimenti sarebbero inaccessibili ai nostri
sensi. Attraverso lo studio della fisica posso, ad esempio, venir a sapere
dell‟esistenza di lunghezze d‟onda che esulano dalla gamma dei 400/700
nanometri e quindi non possono essere percepite con i sensi. Posso definire questo
tipo di conoscenza diverso da quello che ci deriva dai sensi? Posso considerarlo
oggettivo? Se questa conoscenza fosse diversa da quella sensoriale e fosse
oggettiva dovrebbe, non solo cogliere quella parte di realtà non percepibile con i
sensi, ma dovrebbe essere indipendente dai sensi stessi. È possibile una tale
conoscenza? Per Roth no, è impossibile venir a sapere alcunché della realtà
oggettiva perché il mondo che percepiamo è l‟unico che possiamo conoscere. In
questo ragionamento si assume che tutte le conoscenze vengano dai sensi; anche
le conoscenze scientifiche devono inevitabilmente passare al vaglio dei sensi e
dunque rientrano sotto la sfera di tali conoscenze. Devo necessariamente pensare
che ogni conoscenza venga dai sensi? No, ma se si ammette che percepiamo il
colga il mondo così com‟è. Roth usa la fisica per parlare del mondo indipendente dalle nostre
percezioni, per la pretesa di questa scienza di essere in grado di mostrarlo. Ma egli non crede nel
mondo indipendente dalle percezioni, si vedrà che questo mondo, secondo lui, è inconoscibile.
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mondo solo attraverso i sensi e che quindi le nostre conoscenze vengono solo dai
sensi non si può che riconoscere di essere all‟interno di quello che Roth chiama un
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erkenntnistheoretischen Zirkel.
Il circolo vizioso della conoscenza è l‟impossibilità di una spiegazione
oggettiva. Ogni teoria che tenta di varcare il limite posto dalla soggettività si
scontra con esso. Roth ammette che, in alcuni casi, la conoscenza scientifica
permette di risolvere i problemi della soggettività o di spiegare le percezioni
soggettive in maniera diversa da come esse ci appaiono. Posso descrivere ciò che
percepisco sotto forma di leggi fisiche: non parlare di colori ma di lunghezze
d‟onda, non parlare di superfici ma di aggregati di atomi e così via. Non per
questo la conoscenza può però definirsi oggettiva, in quanto, anche le nostre
scienze devono essere interpretate da noi uomini e dai nostri organi di senso che
sono l‟unica istanza che ci permette di ricevere informazioni. Vedremo come la
scienza non sia che parte del mondo fenomenico e che ciò che è reale si per sé sia
inaccessibile alla conoscenza umana. A cosa serve allora la scienza se non può
darci conoscenza oggettiva?
Was wir aber tun koennen, ist nichts anderes als eine zweite
Wahrnemungswelt zu schaffen, die genauer und standardisierter ist als die
erste und zumindest anders aufgebaut, und die wir
>>naturwissenschaftlich<< nennen. Diese beruht auf Messmethoden und
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Methoden der Hypothesen- und Theoriebildung und ihrer Ueberpruefung.
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Trad. mia. Circolo vizioso della teoria della conoscenza.
Quello che si può obiettare è che tutte le conoscenze ci derivino dai sensi. Se si ipotizza la realtà di
un mondo conoscibile ad esempio col puro intelletto si potrebbe in qualche modo uscire dal
circolo. Ma non è il caso che Roth propone. Per lui il circolo della conoscenza non può essere
spezzato e l‟unica cosa che possiamo conoscere sono le nostre percezioni.
6
Cfr. Roth, G., Aus Sicht des Gehirns, Suhrkamp, 2009, Frankfurt am Main, p. 76
D‟ora in poi tutte le traduzioni sono da me eseguite.
Ma ciò che possiamo fare non è altro che creare un secondo mondo percepito e chiamarlo
scientifico, il quale è più certo e più standardizzato del primo e diversamente costruito. Questo si
fonda sull‟osservazione e sulla costruzione di ipotesi e teorie e sulla loro possibilità di essere
provate. Trad. mia, d‟ora in poi tutte le traduzioni dal tedesco vengono da me effettuate.
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