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Introduzione
Il 16 marzo 1978 resterà nel ricordo della comunità nazionale come uno dei giorni più
drammatici dell’Italia repubblicana. Quella mattina, in Parlamento, il Presidente del
Consiglio Giulio Andreotti avrebbe dovuto illustrare il programma del nuovo governo:
l’epilogo di una crisi estremamente difficile, accompagnata da accese polemiche
soprattutto sulla nuova posizione assunta dai comunisti. All’improvviso, una notizia
interruppe il filo dei discorsi nel Transatlantico di Montecitorio: mezz’ora prima in via
Fani, a Roma, un commando di brigatisti rossi aveva sequestrato l’onorevole Aldo Moro,
Presidente della Democrazia Cristiana, regista, insieme ad Enrico Berlinguer, dell’accordo
tra democristiani e comunisti.
Cinque uomini della scorta, Oreste Leonardi, Raffaele Lozzino, Francesco Zizzi,
Domenico Ricci e Giulio Rivera, erano stati uccisi.
Sotto l’aspetto militare, l’agguato di via Fani non ha precedenti e resterà l’unico del genere
nella storia del terrorismo italiano; solo a livello internazionale è possibile trovare un
esempio analogo: l’attentato della Raf-Rote armee fraktion a Colonia (Germania) in
occasione del sequestro del presidente della Confindustria Hans Martin Schleyer (5
settembre 1977). Nella pratica delle Br, “nulla sarà paragonabile alla strage in via Fani”1
: sia per l’alto numero di terroristi impegnati nell’attentato (la sentenza del processo di 1°
grado, sulla base delle testimonianze rese alla Corte d’assise, stabilirà la presenza di 14
terroristi armati tra via Fani e via Stresa); sua per la qualità delle armi e dei mezzi utilizzati
1 S. FLAMIGNI, La tela del ragno, Il delitto Moro, Milano, Kaos Edizioni, p. 40
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(le perizie hanno appurato che vennero usate anche munizioni di provenienza speciale:
alcuni bossoli repertati non erano destinati alle forniture standard dell’Esercito, della
Marina e dell’Aeronautica militare); sia per la ferocia di cinque contemporanei omicidi.
Con specifico riferimento a via Fani, i brigatisti hanno parlato in seguito della loro
preoccupazione di evitare vittime innocenti, come abitanti dei luoghi scelti per l’azione,
operai addetti a riparazioni o passanti casuali, ma per gli agenti di polizia il discorso era
diverso. Ciò che agli occhi di altri apparve feroce e disumano, come l’assassinio di cinque
innocenti, per i brigatisti era giustificato dalla convinzione di essere in guerra.
È questo l’avvenimento che ha più segnato la storia italiana dopo il 1945: per la personalità
dell’uomo che è stato trucidato; per le sofferenze cui è stato sottoposto dai suoi carcerieri,
durante i 55 giorni della prigionia e per il modo efferato con cui è stato assassinato.
Il caso Moro si inserisce nella più complessa vicenda del terrorismo politico che ha
insanguinato l’Italia dalla fine degli anni Sessanta agli anni Ottanta e i cui dolorosi effetti
si sono proiettati fino ai nostri giorni (vedi delitti D’Antona e Biagi e la tragica cattura
della Lioce).
Il terrorismo politico di sinistra nacque a partire dal 1972-73, quando i gruppi estremisti
minoritari, in base ad una “esasperazione ideologica” di alcuni aspetti del leninismo, si
strutturarono ed iniziarono ad operare in un clima di altissima conflittualità sociale e di
chiusura al sistema politico-istituzionale. Da anni la società italiana conviveva con il
fenomeno eversivo: la strage di Piazza Fontana, dicembre 1969, diede inizio alla cosiddetta
“strategia della tensione”, alimentata dalla oscura connivenza dei servizi segreti deviati con
gruppi terroristici di matrice neofascista. Nei terribili anni di piombo il terrorismo è
diventato oggetto di studi sistematici e di riflessioni sulle forme e la natura dei conflitti
socio-economici esplosi nella società moderna.
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Il quotidiano “la Repubblica” - (fondato a Roma da Eugenio Scalfari nel 1976, il
primo numero uscì il 14 gennaio) - ricorda quegli anni come “la stagione in cui tutto
bruciò”, non solo riferendosi all’escalation della criminalità che vide salire
vertiginosamente le drammatiche cifre di sequestri, attentati e atti di violenza (nel corso del
1977 in Italia si contarono oltre duemila attentati terroristici, contro i 1.198 dell’anno prima, con 32
persone gambizzate, 12 morti e decine di feriti) ma anche perché il 1977 raccolse segnali
consistenti di una società ansiosa di cambiamenti.
In televisione si disse addio all’era del bianco e nero e al Carosello, gli abbonati Rai
salirono a 15 milioni. Al cinema arrivano films come Una giornata particolare di Ettore
Scola, incontro di una casalinga spenta e frustrata con un gentile e fragile omosessuale
perseguitato dal regime fascista: un segno potente dell’incalzare di nuove tendenze. I
giovani leggevano il libro-choc Porci con le ali di Lidia Ravera e Marco Lombardo
Radice, testo sequestrato per oscenità, seguivano Le straordinarie avventure di Penthothal,
fumetto dell’esordiente artista underground Andrea Pazienza e ascoltavano cantautori
italiani controcorrente come Fabrizio De Andrè. Alcuni della nuova generazione di
contestatori fecero sentire la loro voce e il loro dissenso attraverso un originale mezzo di
comunicazione sociale: dopo alcuni mesi di gestazione, dall’idea di ragazzi quasi tutti con
un passato in Potere Operaio, nel febbraio del 76 a Bologna nacque “Radio Alice”.
Dopo alcuni mesi d’illegalità, la sentenza 202 della Corte Costituzionale consentì ai privati
l’installazione e l’esercizio di impianti di diffusione radiotelevisiva non eccedenti l’ambito
locale: nacque così l’emittenza privata in Italia e le radio libere (Radio Popolare a Milano,
Radio Parma , Radio Studio 105 e Radio Radicale) rientrarono nella legalità.
Il direttore della radio libera bolognese, Franco Berardi Bifo, scrive insieme a Nanni
Balestrini e Piero Sansonetti sulla rivista Liberazione un editoriale dal titolo: Perché non
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possiamo fare a meno di quegli anni. Gli anni Settanta rimarranno nella memoria storica
come il decennio in cui suonò il campanello d’allarme del cambiamento e della
pericolosità del processo avviato; soprattutto in Italia, quegli anni sono stati una gigantesca
rivoluzione mancata:
Sono gli anni della presa di coscienza ambientalista:, gli anni in cui esplode - per la
prima volta nella storia dell’umanità - un formidabile movimento femminista che travolge
le relazioni di ogni genere almeno in tutto l’occidente; sono gli anni nei quali viene
sospinta in avanti l’istanza egualitaria, gli anni nei quali il potere si indebolisce, si
indeboliscono le gerarchie, viene messo in discussione il modello autoritario, si afferma
un’idea democratica basata sulla partecipazione e sul rifiuto della delega, e un’idea di
libertà piena, sovversiva, collettiva e individuale; sono anni straordinari per l’arte, la
trasformazione dell’immaginazione, dei desideri, dei sentimenti.2
Il lavoro di tesi si propone di ripercorrere quegli anni e, in particolare, le fasi più
drammatiche del Caso Moro, attraverso lo studio e l’analisi delle testate giornalistiche che
si sono occupate dell’affaire dal giorno del sequestro a quello del ritrovamento del
cadavere dello statista in Via Caetani il 9 maggio 1978. I giornali scelti per la ricerca sono
stati: “Il Messaggero”, “l’Unità” e “il Mattino”. Si sono individuati tre percorsi definiti,
orientati a rappresentare, attraverso campioni di lettura, le posizioni del PCI; gli umori
della capitale; e le attese del paese ed in particolare delle regioni meridionali di fronte ad
un avvenimento storico-politico dagli esiti imprevedibili.
2 LIBERAZIONE 70, Gli anni in cui il futuro incominciò, n. 1, pp. 2-4.
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“Il Messaggero” nacque a Roma, nel 1878, sotto la direzione di Luigi Cesena. Il prezzo
contenuto di lancio, solo 5 centesimi, gli permise di raggiungere nell’arco di soli due anni,
l’ampio pubblico della città con una tiratura di 35.000 copie. Sganciato dalla politica, era
orientato prevalentemente sulla cronaca, che interessava il pubblico più vasto. La formula
adottata in quegli anni fu di retribuire i cittadini con un compenso di mezza lira per fornire
alla redazione del Messaggero le notizie della città. Oggi il quotidiano romano ha una
tiratura di circa 230.000 copie ed ha un pubblico di lettori concentrato soprattutto nelle
regioni del centro Italia (Lazio, Abruzzo, Molise, Umbria e Marche). Di particolare
interesse mediatico è la rubrica intitolata Stampa & terrorismo, che seguì il dibattito sul
black out durante il sequestro Moro, raccogliendo le firme più importanti del panorama
giornalistico italiano, come Paolo Murialdi, scrittore e allora presidente della Federazione
nazionale della stampa, chiamato sul problema del comportamento dei mezzi di
comunicazione di massa di fronte al terrorismo.
Il quotidiano “l’Unità” è stato dal 1924 al 1991 l’organo ufficiale di stampa del
Partito Comunista Italiano. Su proposta di Antonio Gramsci al Comitato Esecutivo del
Partito, vennero stampati a Milano i primi numeri del giornale - Quotidiano degli operai e
dei contadini - che raggiunse una tiratura media di 20.000 copie, e di 34.000 nelle
settimane successive al delitto Matteotti. Durante gli anni di piombo, il redattore era Nino
Ferrero, ferito a Torino da un attentato di Azione Rivoluzionaria. La tiratura de “L’Unità”
era di 239.000 copie giornaliere. Durante il rapimento di Aldo Moro nel 1978, il
quotidiano condannò duramente le Brigate Rosse, definite nemici della democrazia, ed
appoggiò lo sciopero generale indetto dai sindacati, per sottolineare il dissenso e la
lontananza dalle azioni rivoluzionarie dei gruppi terroristici di matrice marxista-leninista.
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Nel 1892 fu fondato a Napoli “il Mattino”, diretto da Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao.
Sempre attento ad interpretare sentimenti e interessi della borghesia meridionale, negli anni
ha mantenuto il primato di primo quotidiano della Campania per numero di copie e
diffusione dei lettori. Attualmente, la vendita media giornaliere è di circa 84.000 copie.
Il lavoro di ricerca analizza come questi tre quotidiani nazionali seguirono, in quei
difficili mesi del 1978, il rapimento e l’uccisione del Presidente Aldo Moro: è uno studio
parallelo della cronaca di quello che può essere definito un lungo calvario, i 55 giorni più
terribili che la Repubblica Italiana abbia mai vissuto.3
3 G. SELVA, E. MARCUCCI, Il Martirio di Aldo Moro, Bologna, Cappelli Editore, 1978, p.5.
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CAP. I
Il caso Moro
Roma, via Mario Fani, 16 marzo 1978, pochi minuti dopo le 9: nell’ampia e
tranquilla strada del quartiere Trionfale, una 128 bianca con targa del Corpo Diplomatico
blocca, con un’improvvisa manovra, la vettura del presidente della Democrazia Cristiana
Aldo Moro. Dieci terroristi appartenenti all’organizzazione eversiva comunista delle
Brigate Rosse, estraggono di fretta dalle borse di tela blu le armi; aprono il fuoco sui
cinque uomini della scorta e rapiscono lo statista democristiano.
Il fermo immagine della scena del rapimento è uno dei più famosi e angoscianti nella storia
della Repubblica. Sin dagli esordi si manifestarono incoerenze e contraddizioni che
andarono a costituire i voluminosi fascicoli dei misteri del caso Moro; domande alle quali
non si è ancora trovata risposta; da quel momento cominciò anche una rilevante vicenda
politica, intessuta delle reazioni, delle scelte dei leader e dei rappresentanti delle istituzioni
e dei sindacati.
Il Caso Moro è entrato da subito nella galleria dei misteri di Stato ossia in quella ampia
“zona grigia” che da decenni oscura i processi di democratizzazione del paese. La prigionia
e la morte del presidente democristiano non sono privi di luci e ombre; anche se il tempo
passa e ci si allontana sempre di più da quei 55 giorni, il caso Moro continua a presentare
non risolte contraddizioni. Cinque diversi procedimenti giudiziari, una sesta inchiesta
avviata, i racconti e le analisi dei comunicati dei brigatisti rossi, il lavoro della