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INTRODUZIONE
Per quale ragione sul tema della violenza politica degli anni „60 e „70 in Italia le forze
politiche, ancora oggi, si dividono e si danno strumentalmente battaglia? Perché
solamente nel nostro paese il fenomeno del terrorismo è durato ben quindici anni? E
perché, diversamente da quanto accaduto in Germania e in Francia – tanto per portare
alcuni esempi compatibili – su questi temi non esiste ancora una cultura condivisa?
Quali vuoti di conoscenza permangono nella rilettura storica di quegli avvenimenti che
hanno caratterizzato la società italiana per più di un decennio? È possibile oggi, a
distanza di quasi quaranta anni dalle sue prime apparizioni, affermare senza timore di
smentita che dell‟argomento “terrorismo rosso” ormai tutto è noto e non c‟è null‟altro
da aggiungere? È ponendomi queste domande che questa ricerca ha preso vita .
Sebbene possa sembrare il contrario, soprattutto la risposta ai due ultimi quesiti è da
ritenersi scontata solamente ad una osservazione superficiale. Malgrado la materia sia
stata argomento di studi ed analisi serie nel corso degli anni, permangono infatti ambiti
da chiarire nella storia del terrorismo di sinistra, sia per quanto riguarda le sue origini,
sia per quanto concerne il suo periodo più sanguinario, statisticamente databile intorno
al triennio ‟77-‟79, sia – ma qui il discorso si farebbe ancora più lungo e complesso –
per alcuni accadimenti particolari, quali il rapimento di Aldo Moro, quello
dell‟assessore democristiano in Campania Ciro Cirillo1 o ancora quello del generale
dell‟esercito degli Stati Uniti James Lee Dozier2.
I documenti citati in questo lavoro di ricerca come provenienti dall‟archivio della „Commissione Mitro-
khin‟, sono in realtà il risultato delle conversazioni orali avute con diversi consulenti della stessa. I brani
riportati “tra virgolette”, dunque, non sono altro che le mie trascrizioni di queste conversazioni.
1
Sequestrato dalle Brigate Rosse (d‟ora in avanti BR) il 27 aprile del 1981, il consigliere regionale della
Campania e membro della Democrazia Cristiana Ciro Cirillo venne liberato il 24 luglio 1981. Uomo di
fiducia di Antonio Gava, Cirrillo era il responsabile della Regione per la ricostruzione delle zone terremo-
tate e gestiva i fondi che dovevano essere impiegati per la ricostruzione dell‟Irpinia che era stata distrutta
dal terremoto del 1980.
2
Generale, sottocapo di stato maggiore della Ftase, le forze alleate terrestri del Sud Europa, Dozier venne
rapito dalla colonna veneta delle Brigate Rosse il 17 dicembre 1981 e liberato dopo un blitz delle forze
dell‟ordine il 28 gennaio 1982. A seguito del suo arresto vennero catturati i brigatisti Antonio Savasta, il
capo-colonna, Emanuela Libera, Cesare Di Lenardo, Emanuela Frascella e Giovanni Ciucci. I primi due
iniziarono quasi immediatamente la collaborazione con la magistratura inquirente, provocando nelle BR
un “terremoto” paragonabile solamente a quello successivo al pentimento di Patrizio Peci.
L‟ombra di Yalta sugli anni di Piombo
12
Ma se in questi ultimi casi l‟esistenza di zone oscure è tuttora così palese ed
incontestabile da essere riconosciuta perfino degli stessi giudici che su quei fatti
criminosi indagarono3, per quanto riguarda in modo specifico la nascita del fenomeno
della violenza politica di sinistra il quadro si presenta in maniera più complessa.
Per molti anni gli analisti più accreditati si sono occupati della nascita delle bande
armate in Italia, ed in modo specifico delle Brigate Rosse, adoperando quasi
esclusivamente una chiave di lettura definibile come “storico-sociologica”:
conseguentemente è stato disegnato un quadro storico in cui il terrorismo viene dipinto
come il frutto di una sorta di costante evoluzione della protesta giovanile (con un
progressivo incremento del ricorso alla violenza) nata con il Sessantotto e proseguita
con l‟autunno caldo del 1969, quando al movimento di protesta studentesco si saldò
quello operaio. Fu in questo momento – sempre secondo le ricostruzioni più accreditate
– che il “tempestivo” verificarsi di ulteriori fattori incidentali quale fu, ad esempio,
l‟esplosione della bomba di Piazza Fontana del dicembre „69 (estranea al magma
contestatario ma che venne considerato dalla sinistra extra-parlamentare come
direttamente collegato), spinse alcuni tra i giovani più estremisti alla costituzione dei
primi gruppi armati clandestini4.
Sebbene questa ricostruzione degli avvenimenti sia condivisibile, è allo stesso tempo
innegabile l‟esistenza di tutta una serie di micro-segnali, di piccole tracce, sparpagliate
nelle carte giudiziarie, nella memorialistica prodotta dai diretti interessati, nei
documenti conservati dai numerosi archivi ormai esistenti in materia, che indicavano
l‟esistenza di un altro filone interpretativo; si tratta di elementi di cui era oggettivamente
difficile offrire una interpretazione, ma che tuttavia presentavano un filo conduttore, una
matrice comune dai contorni delineati. Un esempio palese, non l‟unico, mi si presentò al
momento in cui ebbi la possibilità di notare, attraverso l‟incrocio delle testimonianze,
3
Questo, ci tengo a sottolinearlo, nonostante la recente uscita di alcune pubblicazioni tendenti a far pene-
trare nell‟opinione pubblica l‟idea che tutto sia noto, che non esistano misteri insoluti (il riferimento è in
modo specifico alle pubblicazioni di Vladimiro Satta e Marco Clementi). Una analisi non superficiale del-
le carte evidenzia in modo indiscutibile come i due autori si siano limitati a fare dei semplici collage delle
notizie che più gli interessavano (tralasciando volutamente delle altre), al fine di dimostrare determinate
tesi precostituite; si tratta di una scelta a mio avviso del tutto arbitraria e che poco si confà con il mestiere
dello storico.
4
Su questa linea sono, tra gli altri: G. GALLI, Storia del Partito Armato 1968-1982, Rizzoli, Milano
1986; L. MANCONI, Il nemico assoluto: Antifascismo e contropotere della fase aurorale del terrorismo
di sinistra, sta in “La Politica della violenza”, R. CATANZARO (a cura di), Storie di lotta armata, Il Mu-
lino, Bologna, 1995; G. BOCCA, Dal „68 al terrorismo, A. Curcio Editore, Milano, 1982, PROVVISIO-
NATO-BALDONI, La notte più lunga della Repubblica, Ed. Serarcangeli, Roma 1989, R. LUMLEY,
Dal ‟68 agli anni di piombo, Giunti, Firenze, 1998.
Introduzione
13
delle singolari assonanze nelle ricostruzioni storiche fatte, in merito alla nascita del
fenomeno brigatista, da persone dalla provenienza politica, culturale e perfino
geografica assolutamente differente. Detto per inciso, era davvero singolare il fatto che
a distanza di anni, e nonostante la profonda diversità delle persone, si trovassero queste
fortissime assonanze di giudizio in personaggi tra di loro “lontanissimi” quali Carlo
Castellano, Sergio Segio, Renzo Rossellini e Roland Stark, ed altrettanto singolare mi
appariva l‟assoluta assenza di pubblicazioni scientifiche valide basate su questa che è,
senza dubbio, una visione nuova ed alternativa del periodo storico. Assolutamente di
rilievo erano, ad esempio, le parole scritte da Carlo Castellano, ex dirigente
dell‟Ansaldo di Genova, militante del partito comunista italiano, ferito, o meglio,
“gambizzato” dalle bierre:
«…c‟erano state le lotte studentesche del „68 con la nascita dei movi-
menti rivoluzionari, poi le stragi fasciste e i tentativi di golpe autoritari.
Insomma, il terrorismo di sinistra si inseriva in un quadro di profondo
disagio sociale e di confusione ideologica. Ed era riemerso – questo, a
mio avviso, è il punto – il filone sotterraneo della storia del PCI che si
era sempre alimentato del mito della resistenza tradita e della rivoluzio-
ne incompiuta. Quel filone, legato ai settori più duri e radicali della lotta
partigiana e dell'antifascismo, riteneva che fosse giunto il momento di
“completare l'opera” […] ma sono convinto che i vertici del PCI sapes-
sero perfettamente come stavano le cose. E cioè che, nel partito, esisteva
una frangia consistente di iscritti e simpatizzanti che continuava a crede-
re nella rivoluzione e nel modello di società comunista. C‟era una frattu-
ra profonda tra una sinistra riformista e una minoranza velleitaria e ri-
voluzionaria. La strategia del compromesso storico, lanciata da Enrico
Berlinguer nei primi anni ‟70, fece da detonatore. Perché rese ancora
più evidente agli occhi della sinistra rivoluzionaria, tradimento da parte
del gruppo dirigente revisionista, accusato di volersi accordare con la
DC, il nemico storico. E le BR finirono per diventare un punto di riferi-
mento anche per ambienti vicini al PCI, in quanto costituivano una ri-
sposta radicalmente alternativa alla linea berlingueriana»5.
Un ragionamento lucido ed onesto lo ha fatto anche Sergio Segio, ex leader di Prima
Linea, nel suo ultimo libro di memorie, un volume che, sebbene tacciato di eccessivo
5
Testimonianza di Carlo Castellano, sta in: FASANELLA-ROSSA, Guido Rossa, Mio padre, Ed. BUR,
Milano 2006, pag. 114.
L‟ombra di Yalta sugli anni di Piombo
14
cinismo, contribuisce a ricostruire il quadro storico in modo significativo, come finora il
solo Alberto Franceschini tra gli ex-terroristi era arrivato a fare:
«Se era vero che Pietro Secchia, nel dopoguerra numero due del partito
comunista italiano e a capo dei suoi apparati, “sognava la lotta arma-
ta”, e con lui pezzi interi del PCI e parti non piccole della “base”, del
popolo comunista, come può stupire veramente che le generazioni suc-
cessive alla fine della guerra e di una Resistenza che non aveva portato
ai cambiamenti disperati e promessi, e per i quali avevano perduto la vi-
ta a migliaia di antifascisti e di militanti, cercassero di mettere in pratica
quel sogno? come si può, da sinistra, fingere sorpresa se – di fronte a un
PCI che a distanza di anni dalla fine della Resistenza manteneva vivi i
propri apparati ed affermo il mito della rivoluzione da preparare con
metodo e pazienza – i giovani della nuova sinistra, rompendo con la lo-
gica e la tradizione delle “doppia verità”, scelsero di mettere al bando la
pazienza e l‟ipocrisia, di organizzarsi senza nascondere le prospettive e
strategie di liberazione armata, di nuova Resistenza? Si dice: ma Secchia
e i suoi erano una parte progressivamente emarginata dal partito, il so-
gno della lotta armata era funzionale solo alle nostalgie di vecchi resi-
stenti che mal si adattava alle nuove esigenze e le direttive della demo-
crazia parlamentare. Ma chissà da quando lo è divenuto. Quel che è cer-
to è che da quel mito che da quelle sezioni sono nate le BR a Reggio
Emilia, così come il fatto che nei primi anni „60 l‟ambiguità al riguardo
del PCI ancora permaneva. Una realtà senz‟altro piccola e assolutamen-
te minoritaria a fronte dell'ampiezza e disciplina di partito. Ma si era vi-
sto come da piccole cose passono nascere grandi tragedie, grazie a una
doppiezza vista come acuta strategia politica»6.
Sul medesimo percorso vanno le parole di Renzo Rossellini. Figlio del noto regista
cinematografico Rossellini durante gli anni di piombo era direttore di Radio Città
Futura, emittente radiofonica romana assai vicina alla sinistra extraparlamentare. Sulla
sua figura di persona “molto ben informata” valgono le parole del Giudice Rosario
Priore, audito dalla Commissione Pellegrino: «Rossellini era vicino agli ex di Potere
operaio e questo gruppo…». Egli sapeva tutto sulle Brigate rosse perché la sua «Era la
struttura di cerniera…»7. Ecco, venendo allo specifico, quali sono le parole che
Rossellini scrisse nel 1978:
«esiste in Italia, oggi, un autentico partito sovietico che cerca di destabi-
lizzare il paese per tenere il Partito Comunista italiano segregato
6
S. SEGIO, Una vita in Prima Linea, Rizzoli, Milano 2006, pp. 148-149.
7
Archivio della Commissione parlamentare d‟inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata
individuazione dei responsabili delle stragi (d‟ora in avanti ACS), audizione di Rosario Priore, 11 no-
vembre 1999.
Introduzione
15
all‟opposizione. E il terrorismo, all‟interno di questa strategia, diventa
più un fenomeno militare che politico [...]»
Poi, alla domanda su quali fossero le prove di questi legami tra le BR e l‟URSS,
Rossellini rispose:
«Tutto è cominciato durante l‟ultima guerra, quanto una frazione impor-
tante della Resistenza italiana passò sotto il controllo dell‟Armata Rossa.
Questa frazione dopo la guerra conservò le armi e divenne una base lo-
gistica della strategia dei Servizi sovietici nel nostro paese. Il nucleo fu
poi rivitalizzato alla fine degli anni Sessanta, quando in esso confluirono
tutti gli elementi pro-cubani legati alla Tricontinentale [l‟organizzazione
cui apparteneva Giangiacomo Feltrinelli, n.d.a.]. Fu così che questo fe-
nomeno attraversò tutta la sinistra e l'estrema sinistra: a partire dal PCI,
in cui sussiste una forte minoranza pro-sovietica, fino all'Autonomia, ter-
reno di grande infiltrazione. È chiaro, io schematizzo, ma è questa in sin-
tesi l‟origine delle Brigate Rosse. Esse oggi hanno alle spalle l‟apparato
militare dei paesi dell‟Est, di cui sono una delle emanazioni»8.
Queste ricostruzioni, per singolare coincidenza, sono praticamente le stesse che
emersero dai colloqui investigativi esperiti negli anni Settanta dall‟allora capitano
dell‟Arma Gustavo Pignero con il cittadino statunitense Ronald Stark, ritenuto agente
della Cia9. Nel corso di due colloqui, Stark riferì all‟ufficiale anche notizie circa
l‟esistenza di un livello superiore ai brigatisti, che sarebbe stato costituito da vecchi
partigiani. Curcio avrebbe confidato a Stark:
«Le BR sono solo una parte di un più vasto “movimento” rivoluzionario
che risale agli anni immediatamente successivi alla fine dell‟ultimo con-
flitto mondiale. In particolare il “movimento” sarebbe costituito da un
8
“Le Matin”, 4 ottobre 1978, intervista a Renzo Rossellini. La stessa intervista venne pubblicata dal quo-
tidiano “Lotta Continua” il 5 ottobre 1978 in un articolo dal titolo “È stato il partito sovietico in Italia a
rapire Moro”.
9
Ronald Stark, cittadino statunitense, emerge nelle cronache italiane nell‟aprile 1978, quando la polizia
arrestò a Lucca cinque giovani appartenenti al gruppo armato, con venature anarchiche, “Azione rivolu-
zionaria”. Nelle tasche di uno degli arrestati, Enrico Paghera, venne trovata la piantina di un campo para-
militare in Libia. Interrogato sull‟origine della piantina, Paghera indicò appunto lo Stark, detenuto nel
carcere di Bologna per traffico di droga. Quest‟ultimo si rivelò ben presto un personaggio di grande rilie-
vo: sospetto agente della Cia, proprietario di due fattorie in California, di una società finanziaria in Lie-
chtenstein e di un laboratorio per la produzione sintetica di alcuni tipi di droghe. Nella sua stanza
d‟albergo ed in una cassetta di sicurezza venne rinvenuta della documentazione dalla quale risultava che
egli sarebbe stato in contatto con l‟onorevole Salvo Lima, con il principe Alliata di Montereale (Gran
Maestro della potente loggia massonica degli Alam, leader del partito monarchico, secondo la testimo-
nianza resa da Gaspare Pisciotta prima della sua morte, fu uno dei mandanti della strage di Portella delle
Ginestre) e con l‟ex capo del SID Vito Miceli. Arrestato proprio a Bologna nel febbraio 1975 in seguito
ad una “soffiata” della malavita, chiese ed ottenne di essere trasferito nella stessa cella di Renato Curcio.
Da questo comune soggiorno sarebbero originate le notizie fornite dallo Stark al capitano Pignero. G. DE
LUTIIS, Il golpe di via Fani, Sperling & Kupfer, Milano 2007.
L‟ombra di Yalta sugli anni di Piombo
16
gruppo di “ultra-clandestini” formato dai fondatori del movimento, ex
partigiani che non hanno mai abbandonato l‟idea di prendere il potere
con le armi. Costoro vivono nell‟ombra ed hanno la direzione strategica
del movimento stesso. Per attuare operativamente la loro pianificazione
strategica, il gruppo costituì una solida base finanziaria compiendo atti-
vità di spionaggio industriale e militare. Ottenuto ciò, si cominciò a cre-
are gruppi d‟azione che ponessero in essere attività rivoluzionarie pre-
paratorie e, successivamente, vennero costituite le BR»10.
Naturalmente le notizie fornite da Ronald Stark, vista l‟ambiguità del personaggio,
sono da prendere con beneficio d‟inventario, certo è che la sua ricostruzione che egli
dice gli fosse stata riferita da Curcio, ha impressionanti assonanze con le precedenti.
L‟argomento necessitava di un approfondimento, di uno studio analitico, serio, basato
possibilmente su fonti di primo livello e portato avanti con spirito critico, senza però
quei paraocchi ideologici, o politici, che purtroppo si continuano a notare in certe
pubblicazioni.
Conseguentemente alle considerazione fatte, la prima scelta di campo che ho posto
alla base di questo studio è stata proprio quella di non porre l‟attenzione della ricerca
sulla protesta giovanile sessantottesca né sulle conseguenze dell‟Autunno Caldo nella
genesi del magma contestatario e nella composizione della cosiddetta sinistra
extraparlamentare. Questo non perché – e ci tengo a sottolinearlo – tali fattori non
abbiano avuto una rilevante importanza nella comparsa e nello sviluppo del fenomeno
brigatista11.
Negli studi pubblicati fino ad oggi c‟è soprattutto una domanda che non trova una
adeguata risposta storiografica: se è corrispondente al vero – come vogliono le
ricostruzioni storiche maggiormente accreditate – la versione che vede nell‟esplosione
della bomba di Piazza Fontana del 12 dicembre ‟69 l‟accadimento che fece da
detonatore del fenomeno terroristico, non si spiega come mai già prima di quella
drammatica data il “Collettivo Politico Metropolitano” (gruppo della sinistra
extraparlamentare milanese al cui interno sorgeranno le Brigate Rosse) aveva già tenuto
10
ACS, atti della Commissione. Moro, vol. XCVII, pp. 599-600.
11
Ho infatti dedicato buona parte della mia tesi di laurea all‟importanza del ‟68, della sinistra extraparla-
mentare e dell‟autunno caldo nella genesi del fenomeno brigatista. La tesi è consultabile quasi integral-
mente all‟indirizzo internet: http://www.robertobartali.it.
Introduzione
17
nella città di Chiavari un convegno che potremo definire “istitutivo”, nel quale si parlò
in modo esplicito di “rivoluzione” e “guerriglia nella metropoli”12.
Il riferimento è al convegno che si tenne dal 1 al 4 di novembre del 1969 all‟Hotel
Stella Maris di Chiavari. In quell‟occasione, infatti, i convenuti posero per la prima
volta, ed in modo esplicito, il problema della lotta armata e dell‟entrata in clandestinità
all‟ordine del giorno, tant‟è che nel documento finale, passato alla storia come il
“libretto giallo”, si affermò che l‟unica risposta adeguata alla repressione attuata dalla
borghesia sarebbe stata una “lunga marcia rivoluzionaria nella metropoli, la lotta
popolare violenta e generalizzata”, come sottolinea lo stesso Curcio nel suo libro di
memorie13.
Anche ad un osservatore distratto non può non saltare agli occhi l‟incongruenza. Si
tratta dunque di un quesito estremamente semplice nella sua logicità, ma a cui la
storiografia aveva fino ad oggi evitato, più o meno consciamente, di fornire adeguata
risposta.
Certe scelte radicali erano in realtà giunte a maturazione ben prima dell‟autunno caldo
e della sua cruenta conclusione: la strage del 12 dicembre 1969 appunto. Le idee sul
ricorso alla “lotta armata per il comunismo”, dunque, venivano da più lontano,
dovevano avere un retroterra ben impiantato nella storia del nostro paese. È proprio su
questo punto che è stato posto l‟oggetto della ricerca, il fatto che le Brigate Rosse
fossero non solo il frutto di certe tensioni sorte a cavallo del biennio ‟68-‟69, ma anche,
e soprattutto, una filiazione diretta di una certa area del paese, di una certa tradizione
“insurrezionale” presente già da anni. Il tutto era poi inserito in un contesto storico
assolutamente particolare: la guerra fredda14.
La seconda scelta fatta è stata di carattere temporale. Aver circoscritto la ricerca ai
primi anni di vita delle Brigate Rosse è stata una opzione assolutamente voluta, anche (e
soprattutto) per rimarcare il fatto che tra il primo nucleo di brigatisti – assicurato alla
12
Si veda a tale proposito l‟accurato “rapporto informativo speciale” stilato dal Gruppo di Genova della
Legione Territoriale dei Carabinieri il 5 novembre 1969 e conservato agli atti della Commissione Stragi.
L‟Arma aveva evidentemente seguito l‟assise assai da vicino, una circostanza che mi è stata confermata
sia del generale Bozzo che, successivamente, dal generale Sechi. Cfr. anche: A. SIlJ, Mai più senza fuci-
le: Alle origini dei NAP e delle B.R.; Vallecchi, Firenze 1987 e S. FLAMIGNI, La sfinge delle Brigate
Rosse, Kaos, Milano, 2004, pp. 37-40.
13
Cfr. R. CURCIO, A viso aperto, vita e memorie del fondatore delle B.R., Mondadori, Milano, 1993.
14
Mi sia consentito fare riferimento ad una mia recente pubblicazione, nella quale mi sono spinto ad af-
fermare come le BR fossero “secchiane” da parte di padre ed “operaiste” da parte di madre”. R. BAR-
TALI, Red Brigades and Moro Kidnapping in: A. BULL-A. GIORGIO (a cura di), Speaking Out and Si-
lencing: Culture, Society and Politics in Italy in the 1970s, Legenda, 2006.
L‟ombra di Yalta sugli anni di Piombo
18
giustizia, nella quasi totalità dei casi, nell‟intervallo di tempo che va tra il 1972 ed il
1975 – e le altre generazioni vi siano differenze davvero rilevanti. D‟altronde è stato lo
stesso Renato Curcio, in una recente intervista, a confermare, in un certo senso, la bontà
della mia scelta affermando che:
«…esiste una differenza tra noi ed i brigatisti della seconda generazione.
Noi eravamo un gruppo profondamente politicizzato, avevamo vissuto
l‟esperienza degli anni sessanta, la rivolta studentesca e tutto il suo con-
testo sociale. Quelli della seconda generazione erano per lo più dei ra-
gazzetti vicini alle posizioni dell‟Autonomia, che faceva capo a Toni Ne-
gri, non venivano dalla storia del PCI, non avevano riferimenti a sini-
stra…»15.
Tornando alla scelta compiuta inizialmente, è evidente come anche dal semplice punto
di vista cronologico la versione storica più accreditata non regge dunque al più semplice
riscontro cronologico degli avvenimenti. Al palazzo della ricostruzione storiografica
mancava, in buona sostanza, un pilastro, una componente che solo da poco può poggiare
su di una base documentale sufficiente per uno studio storico degno di tale nome e che
va ad affiancare, completandoli, quelli finora esistenti.
Negli ultimi anni, infatti, la contemporanea possibilità di accedere a nuovi ed
importanti documenti, provenienti da archivi italiani ma anche stranieri, ed il riesame
del periodo (e delle loro singole esperienze) compiuto da alcuni ex-terroristi, ha reso
finalmente possibile rivedere, con un approccio ed una metodologia storico-analitica, le
origini del fenomeno della violenza politica nella società italiana degli anni ‟70, e, anzi,
questi fatti consentono ora di ampliarlo come merita aggiungendo fondamentali tasselli.
Ciò su cui ho cominciato a porre l‟attenzione è stato per prima cosa il fatto che qua e
là, nel corso dei processi per i reati di Banda armata ed Associazione sovversiva che si
sono svolti a partire dalla metà degli anni ‟70, ma anche in alcune delle relazioni
presentate nelle diverse commissioni parlamentari d‟inchiesta, comparivano accenni e
brevi riferimenti ad alcuni Paesi esteri, primi tra tutti la Cecoslovacchia. Perfino un
intellettuale come Sciascia, che pur non essendo uno storico di professione era pur
sempre un fine ed intelligente osservatore, nella sua relazione finale alla Commissione
Moro (di cui era membro), aveva fatto menzione esplicita a Praga ed ai paesi dell‟Est
come punto su cui sarebbe stato doveroso rivolgere una maggiore considerazione.
15
FASANELLA-ROSSA, 2006, op. cit., pag. 122.
Introduzione
19
Stessa osservazione è poi stata successivamente ripetuta – specificamente negli ultimi
anni – da molti altri studiosi, primi fra tutti i professori Sechi, Zaslavsky e Donno. Ad
essi, pur non occupandosi in modo specifico della materia terrorismo ma di argomenti
indirettamente ad esso collegati, è evidentemente apparso un determinato percorso di
ricerca storica ben tracciato, ed hanno dunque denunciato come decisamente auspicabile
il fatto che la storiografia se ne occupasse quanto prima. Il medesimo ragionamento è
poi stato fatto, in momenti differenti, anche da due noti magistrati quali Rosario Priore e
Ferdinando Imposimato che, in virtù dei processi di cui sono stati pubblici ministeri
hanno, accumulato una importante esperienza sul tema.
Tornando allo specifico, la materia che tratta dei coinvolgimenti e dei collegamenti
internazionali del terrorismo italiano (in modo a mio avviso affatto scientifico) ha
risentito nel tempo di comportamenti minimizzatori, di scarsa attenzione, di
atteggiamenti sottovalutativi e, in alcuni casi particolari, di tentativi di condizionamento
e strumentalizzazione. Tutto ciò nonostante il fatto che sin dal suo inizio il fenomeno
terroristico, in Italia come in Europa, ed in molte vicende che lo hanno caratterizzato,
abbia presentato indicazioni non trascurabili per ritenere come concreto un rapporto
internazionale fra i vari gruppi in azione, e come fortemente probabile un
condizionamento (nel migliore dei casi) da parte di forze esterne agli stessi gruppi, il più
delle volte inquadrabili in taluni servizi di sicurezza, come ha giustamente affermato da
Stelio Marchese16.
Le pubblicazioni in materia di contatti internazionali del terrorismo italiano erano
davvero pochissime, così è stato doveroso – oltre che di fatto obbligatorio – rivolgersi
all‟archivio che contiene la quasi totalità dei documenti inerenti il terrorismo politico
degli anni ‟70: quello che contiene tutti i documenti delle Commissioni Parlamentari
d‟inchiesta che in questi anni si sono occupate dell‟argomento.
L‟ultima scelta fatta è stata quella di riservare un capitolo allo studio dell‟attività di
penetrazione svolta nei confronti del gruppo dalle forze di polizia e dai servizi segreti,
italiani e non, ma appartenenti, o comunque inquadrabili, nell‟area della NATO.
Tutto il percorso evolutivo delle BR è stato infatti caratterizzato, fin dai suoi albori,
dalla presenza di confidenti ed infiltrati. Ciò, se non fosse ormai abbondantemente
provato – soprattutto a livello processuale – risulterebbe perfino facile da ipotizzare alla
16
S. MARCHESE, I collegamenti internazionali del terrorismo italiano, Ed. Japadre, L‟Aquila, 1989.
L‟ombra di Yalta sugli anni di Piombo
20
luce del fatto che forze di varia natura erano riuscite ad insinuarsi con successo già negli
ambienti più caldi del periodo storico che degli anni di piombo fu un po‟ la culla: il
sessantotto. Fin dall‟estate 1967 la CIA aveva infatti promosso la operazione
“C.H.A.O.S.” per osteggiare il movimento pacifista americano che si batteva per i diritti
civili e contro la guerra del Vietnam. Quindi aveva deciso di estenderla su scala
internazionale, in particolare in Europa, per contrastare anche il movimento giovanile
del vecchio continente, inquinandone gli assunti non violenti. L‟operazione prevedeva,
tra le altre cose, l‟infiltrazione nei gruppi di estrema sinistra extraparlamentare in Italia,
Francia e Germania Occidentale con l‟obbiettivo di accrescerne la pericolosità,
inducendo ad esasperare le tensioni politico-sociali con azioni aggressive, così da
favorire spostamenti “a destra” dell‟elettorato17.
Come si noterà, nei primi quattro anni di vita delle Brigate Rosse si possono contare
ben quattro casi di penetrazione all‟interno del gruppo18. Anche per questo motivo (che,
di nuovo, deve essere a pieno titolo inserito in un ambito storiografico strettamente
collegato alla divisione del mondo sorta dopo la firma dei trattati di Yalta) ho ritenuto
opportuno affrontare, in modo approfondito, questi quattro principali casi di
“infiltrazione” all‟interno delle bierre. Si tratta, infatti, di una ulteriore conferma del
fatto che in un macro-contesto internazionale quale era appunto quello della guerra
fredda, la preparazione delle forze in campo, così come l‟ampiezza della posta che era
in gioco, fossero enormemente superiori, direi perfino sovrastanti, rispetto alle velleità
rivoluzionarie di uno sparuto gruppo di giovani19. Proprio per questa ragione non era
troppo difficile fare del gruppo un uso strumentale agli interessi, a volte convergenti,
delle fazioni in gioco.
17
S. FLAMIGNI, Convergenze parallele, Ed. Kaos, Milano 1998, pag. 69. Tutta la documentazione ine-
rente l‟operazione “C.H.A.O.S.” (al contrario di quanto accade in Italia) una volta scoperta venne portata
all‟attenzione del Senato degli Stati Uniti e resa pubblica dai principali quotidiani americani.
18
Anche se, con buona probabilità, i casi di infiltrazione realmente verificatisi, e di cui non si ha ancora
prova documentale, sono stati di più. Come avremo modo di riferire, ad esempio, infiltrati e confidenti
erano già penetrati all‟interno di un altro gruppo terroristico di estrema sinistra (tra l‟altro con evidenti
punti di contatto con le BR), il primo comparso sulla scena italiana: il gruppo “XXII Ottobre”.
19
Non ci si può infatti esimere dal notare come, comprendendo anche i militanti appartenenti a gruppi na-
ti dopo le diverse scissioni subite dalle BR, il numero totale dei brigatisti arrestati arrivi circa a 1500 uni-
tà.
Introduzione
21
SULLE MIE FONTI DOCUMENTALI
Quali sono i documenti che possiamo considerare non rilevanti o non affidabili per lo
storico? La domanda è tutt‟altro che semplice, poiché in linea teorica qualsiasi tipo di
documentazione ha potenzialmente un interesse per chi si occupa di fare ricerca storica.
Venendo più sullo specifico del mio lavoro, la domanda da porsi è, quali sono le fonti
documentali accettabili, degne di nota e di studio per gli storici, e quali invece quelle
“indegne”, se il periodo preso in esame è quello della Guerra Fredda.
In un paese come l‟Italia che, unico in Europa, ha visto l‟istituzione di Commissioni
parlamentari d‟inchiesta su logge massoniche segrete, su tentativi di colpo di stato (o
presunti tali), sulla mancata individuazione dei responsabili delle stragi, su di un
fenomeno terroristico che ha raggiunto la durata record di venti anni, ed infine, non
ultima per importanza, sull‟attività di intelligence svolta da un paese – che allora era
catalogato come nemico – nel nostro territorio nazionale, è possibile non prendere in
considerazione (o perfino non riconoscere) le fonti documentali provenienti da processi
penali, dagli archivi delle forze dell‟ordine e dai servizi d‟intelligence, siano essi italiani
che stranieri, o perfino le testimonianze e la memorialistica dei diretti interessati?
Lo sviluppo della democrazia in Italia è avvenuto con l‟indubbia interferenza
esercitata da apparati ed altri elementi tipici con cui è stata combattuta la guerra fredda,
in modo specifico nel continente europeo, ed è proprio per questo che al fine di
sciogliere i numerosi nodi creati da queste interferenze, emerse con chiarezza nei
processi e nelle fasi più calde del conflitto politico del nostro paese, è indispensabile per
lo studio e la conoscenza di questa fase storica non rifuggire certe fonti. Sostenere che la
storia degli ultimi cinquanta anni in Italia può essere fatta leggendo solamente i
documenti ufficiali significa di fatto chiudere completamente gli occhi sulla realtà del
periodo. Per questo ho ritenuto più opportuno integrare le normali carte d‟archivio e le
fonti storiografiche esistenti con questo materiale, pur con tutte le limitazioni e le
cautele che leggendo tali documenti è opportuno adottare.
Prima di giungere ad una descrizione di merito, ritengo utile citare una piccola
questione emersa durante un lungo e assai proficuo colloquio avuto dal sottoscritto con
il prof. Pons, vice-direttore di uno degli archivi più visitati dagli storici di ogni età e
provenienza, quello del Partito comunista italiano, ed inerente una figura importante
come Enrico Berlinguer. In essa, infatti, sono emersi tutti gli elementi tipici di una
L‟ombra di Yalta sugli anni di Piombo
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discussione storiografica tra le due categorie di storici che sono andate creandosi negli
ultimi anni.
Nel dicembre del 1973, pochissimo tempo dopo l‟incidente d‟auto occorsogli durante
la sua visita a Sofia, l‟allora segretario del PCI si recò in visita ufficiale dal presidente
della Germania Est Erich Honecker, con cui ebbe un lungo incontro ed una discussione
sui principali temi cari ad entrambi i partiti comunisti ed alla causa del comunismo
internazionale. È a questo punto che emerge con forza una precisa e ben visibile
dicotomia nei fatti, nelle fonti e, quindi, nella valutazione delle situazioni e degli
avvenimenti. L‟analisi dei documenti su cui comunemente gli storici pongono la loro
attenzione (appunti manoscritti, relazioni finali, discorsi ed infine i resoconti fatti dai
principali quotidiani) sembrerebbe infatti far emergere – e con una buona sicurezza
dettata dalla corrispondenza delle notizie emerse dalle diverse fonti – che i colloqui
Honecker-Berlinguer fossero andati bene, benissimo, probabilmente ben oltre ogni più
rosea aspettativa considerando i profondi attriti sorti tra il PCI ed i paesi del cosiddetto
“Campo socialista” (come amava chiamarlo Stalin) in modo particolare dopo i fatti del
1969 e l‟invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del Patto di Varsavia.
Dall‟analisi di quelle carte non emergono infatti elementi di scontro o frizioni; anzi,
anche dopo una lettura approfondita non ci si può esimere dal notare come durante gli
incontri si fossero palesati diversi importanti fattori di avvicinamento politico tra i due
leader, primo tra tutti un‟ampia convergenza di vedute sullo sviluppo del processo di
unificazione europea (sebbene in quegli anni si fosse ancora praticamente agli albori) e
sulla distensione tra i due blocchi.
A distanza di 30 anni, però, l‟emergere di alcune importanti testimonianze, nonché di
diversi documenti “inusuali” come quelli emersi da alcuni archivi dei servizi segreti (di
differente provenienza ma che, in questo caso, convergono in modo impressionante), ha
posto in risalto un altro fattore da prendere in considerazione: nello stesso momento in
cui Berlinguer e Honecker discutevano amabilmente di pace in Europa e distensione tra
le due realtà politiche divise dal muro di Berlino, la STASI, il servizio segreto
dell‟allora DDR, stava addestrando sul proprio territorio nazionale, terroristi della banda
Baader-Mainhoff, gruppi di estremisti palestinesi legati al Fronte popolare per la
liberazione della Palestina di George Habbash, e perfino un giovane Ilich Sanchez
Ramirez, più tardi asceso alle cronache con il nome di “Carlos”, che nel corso della
seconda metà degli anni ‟70 insanguinerà diversi paesi europei con i suoi efferati atti di
Introduzione
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terrorismo. Il fine, come risulta chiaramente dai documenti, era quello di destabilizzare
l‟Europa capitalista dal proprio interno, secondo quella che lo stoico Gábor Vásárhelyi
dell‟Università di Budapest definisce nelle sue pubblicazioni come la “dottrina
Andropov”.
Le fonti che avvalorano questi fatti sono, come ho detto, di provenienza diversa: la
testimonianza dell‟ex direttore dei Servizi della Germania Est, Markus Wolf, quella di
un‟ex terrorista palestinese, Abu Shrif Bassam, quella dello stesso “Carlos”, ed infine, a
confermare i fatti sono anche i documenti della STASI venuti alla luce dopo l‟apertura
degli archivi della ex DDR ed usati, tra l‟altro, dal giudice francese Jean-Luis Bruguière
durante il processo contro il gruppo terroristico di Carlos.
A questo punto, evidentemente, si pongono alcune questioni storiografiche del tutto
nuove, si aprono scenari e si pongono considerazioni mai poste fin d‟ora. Prima di tutto:
è logico e corretto, per uno storico, scartare quanto emerge da questi documenti e
testimonianze? Com‟è logico, quella che è la verità storica diverge dalla cosiddetta
verità giuridica in modo sensibile, ma la conferma qualitativa dei documenti d‟archivio
rientra comunque in una sorta di certificazione che l‟uso da parte dei magistrati può
fornire. Come in questo caso.
Una volta accettata la bontà delle carte e delle dichiarazioni, sorgono poi altri
interessanti quesiti e considerazioni inerenti, ad esempio, l‟emergere di una “doppiezza”
caratteristica dei leader di quelli che furono i cosiddetti paesi “a comunismo reale”, una
nuova doppiezza con cui devono per forza di cose fare i conti gli storici ma di cui
probabilmente era a conoscenza anche lo stesso Enrico Berlinguer: al timone dei paesi
dell‟est europeo, così come nella stessa Unione Sovietica, non erano semplici politici
ma dittatori, perfettamente calati nel ruolo e nell‟ideologia totalizzante cui facevano
spesso cieco riferimento, e che non si facevano scrupolo di addestrare terroristi di
differenti provenienze con precisi fini politici.
Enrico Berlinguer ignorava davvero l‟esistenza di questo livello “sotterraneo” della
politica di quei regimi? E se la risposta è negativa, come mai continuava ad intrattenervi
rapporti di cortesia?
Le stranezze inerenti la presunta qualità delle carte cui ho avuto accesso e sui cui è
opportuno, a mio avviso, porre attenzione riguardano poi altri fattori.
Facendo un passo indietro di qualche mese. L‟analisi degli appunti manoscritti da
Berlinguer durante i colloqui avuti con Todor Zhivkov a Sofia nell‟ottobre del 1973 fa
L‟ombra di Yalta sugli anni di Piombo
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emergere altre peculiarità. Chiunque, anche non essendo uno studioso di grafologia, si
accorgerebbe che leggendo gli appunti del leader sardo, da un preciso punto in avanti, la
sua scrittura muta improvvisamente di aspetto: si apre, diventa disordinata, irregolare,
ampia, in poche parole nervosa, tanto da rendere la lettura dei fogli ancor più
difficoltosa di quanto non lo sia già di solito. Questo cambiamento si verifica proprio in
relazione al momento di maggiore scontro, anche verbale, con il leader bulgaro; ed
entrando nello specifico, proprio nel momento in cui il presidente della Bulgaria parla
senza peli sulla lingua dell‟infiltrazione di uomini dei servizi segreti alle sue dipendenze
all‟interno di partiti e movimenti operai europei. Dunque si potrebbe giungere
facilmente alla conclusione che l‟asprezza delle incomprensioni fu tale da innervosire
visibilmente Berlinguer. Un‟altra possibile spiegazione di cotanto cambiamento di
scrittura sarebbe però collegabile al manifestarsi di un qualche stato febbrile o para-
influenzale. Se ne potrebbe, in questo caso, dedurre che il resto degli appunti
manoscritti dal leader del PCI ne potrebbe essere risultato (in tutto o in parte) falsato. In
un caso come questo, quale documento ha maggiore valore per lo storico, al fine di una
oggettiva ricostruzione degli avvenimenti: la trascrizione dei colloqui fatta da
Berlinguer o piuttosto il resoconto orale fatto trenta anni dopo dall‟allora direttore dei
servizi segreti Bulgari e dal suo vice? Esiste dunque una ulteriore ambiguità che si
presenta innanzi al ricercatore, un elemento innovativo che a mio avviso è da
considerare in modo positivo, come valido supporto alla ricostruzione storica.
Per quanto possa sembrare paradossale, il risultato delle questioni poste ha fatto
affiorare con chiarezza un problema tutto interno alla storiografia: la “fatica” con cui
una buona parte degli storici accetta di aprire i propri orizzonti di ricerca anche a quello
che viene comunemente definito come livello occulto della Storia, sempre se così
possiamo chiamarlo. Il fatto che il prof. Pons ammetta questa sorta di “inerzia” degli
storici è indubbiamente un dato di rilievo cui fare riferimento. Ma su questo tornerò più
avanti.
Nella ricostruzione storiografica del periodo 1945-1989 è innegabilmente presente un
livello della Storia “palese”, che emerge con chiarezza dalla lettura e
dall‟interpretazione dei documenti di archivio comunemente usati, ma è presente anche
un lato, “sotterraneo” e altrettanto valido, che difficilmente trova riscontro in carte
ufficiali, ma la cui presenza assume maggiore importanza soprattutto se il periodo
Introduzione
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storico trattato riguarda la guerra fredda, un conflitto definito a bassa intensità,
combattuto più con i servizi d‟intelligence che con gli eserciti e le bombe.
È sotto gli occhi di tutti il fatto che ci sia una storia d‟Italia che non solo si può
leggere negli archivi, ma che è negli archivi riservati. Una conferma per tutte la si può
evincere da un ulteriore e ben documentato elemento: il direttore dell‟Ufficio Affari
riservati del Viminale ed il capocentro della rete del KGB in Italia negli anni ‟70 (mi
riferisco rispettivamente ad Umberto Federico D‟Amato ed a Giorgio Conforto) sono
stati insigniti dei maggiori riconoscimenti da parte dei paesi per i quali hanno
evidentemente lavorato. Di contro il capo della stazione della CIA a Roma negli anni
Ottanta, Aldrich Ames, si trova attualmente in una prigione federale (più precisamente
sta scontando l‟ergastolo nel carcere di Whitedear in Pennsylvania) in quanto
condannato per spionaggio; è infatti stato processato e ritenuto colpevole in un processo
penale che prese il via in seguito alle rivelazioni fatte dal Dossier Mitrokhin in qualità di
agente riconosciuto del KGB20. L‟attività dei servizi di intelligence nel territorio italiano
durante la Guerra Fredda è stata intensa come non era mai accaduto prima. Ecco perché
trovo indispensabile considerare, direi perfino far “emergere”, accanto al lato ufficiale
della Storia, quello che si evince dallo studio delle normali fonti di archivio, la parte
meno nota e considerata dagli storici, seppur con le dovute cautele del caso. Non va,
difatti, neanche dimenticato che storicamente, in diverse occasioni, i Servizi hanno
dimostrato di avere “antenne” e sensibilità maggiori così come forti capacità di
previsione. Qui basterà ricordare il caso dei Servizi francesi prima e dopo Vichy o
quello dei Servizi britannici durante il secondo conflitto mondiale, con quelli “interni”
che propendevano per l‟avversione al nazismo e quelli “esteri” che già si preoccupavano
del comunismo e della personalità di Stalin.
Venendo nello specifico ai report contenuti all‟interno del materiale Impedian21, e che
compongono il cosiddetto Dossier Mitrokhin, è corretto aprire una piccola parentesi
sulla sua validità. Benché molte cose fossero già note in Occidente in quanto rivelate
dalla defezione di importanti agenti, come Oleg Gordijevski o lo stesso Jan Sejna su cui
avremo modo di soffermarci, l‟assenza nell‟ex Unione Sovietica di leggi paragonabili
allo statunitense Freedom of Information Act (dopo un primo periodo di caos
20
Cfr. ANDREW-MITROKHIN, L‟archivio Mitrokhin - Le attività segrete del Kgb in Occidente, Rizzo-
li, Milano, 1999.
21
Così veniva appellata dai servizi segreti britannici la mole di documenti portati in Occidente da Mitro-
khin.