CAPITOLO I
Il capitolo, dopo una breve introduzione sul concetto di apprendimento,
analizzato dal punto di vista della Psicologia Cognitiva e dell’Educazione, si
articola in tre parti. Nella prima parte vengono analizzati i fattori cognitivi
dell’apprendimento, focalizzando l’attenzione sull’intelligenza individuale,
sugli stili cognitivi e sugli stili di apprendimento. La seconda parte
approfondisce i fattori affettivo-sociali dell’apprendimento, in particolare la
motivazione ad apprendere, la motivazione di competenza, il concetto di
autodeterminazione, il rapporto esistente tra ansietà e apprendimento, e
aspetti fondamentali quali il concetto di sé, il senso di efficacia e
l’attribuzione causale. Infine, la terza parte del capitolo affronta i fattori
metacognitivi legati all’apprendimento, approfondendo il rapporto tra
metacognizione, strategie e processi di controllo dell’individuo, e
concludendo con la definizione di atteggiamento metacognitivo e di
apprendimento autonomo.
I.1 Il processo di apprendimento
L’apprendimento è stato per molti anni al centro di accesi dibattiti soprattutto per
quanto concerne la definizione e il ruolo che avrebbe assunto nell’ambito della
psicologia e della pedagogia scientifica.
Alcuni sostengono che ciò che noi oggi siamo sia frutto in gran parte del nostro
apprendimento. Ma cosa accade quando apprendiamo? Esistono diversi tipi di
apprendimento (ad esempio un apprendimento motorio, uno verbale, uno
percettivo, ecc), e tanti modi per studiare e descrivere l’apprendimento.
Il modello teorico comportamentista assume che la mente, i suoi contenuti e i suoi
processi siano simili ad una scatola nera: questi non possono quindi essere oggetto
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di studio, per cui lo studio dell’apprendimento si limita ad analizzare gli elementi
osservabili (e cioè il comportamento) prima e dopo che l’apprendimento è
avvenuto.
Per capire cosa si modifica all’interno dell’individuo nel corso dell’apprendimento
occorre fare riferimento a modelli teorici diversi da quello comportamentista.
Questi altri modelli si propongono infatti di capire che cosa accade nella mente
della persona quando si verifica l’apprendimento. Un modello che permette lo
studio del contenuto e dei processi attivi nella mente nel corso dell’apprendimento
è il modello cognitivista. Questo permette, infatti, di capire che cosa accade nella
mente dell’uomo quando parla, percepisce, conosce, memorizza, impara, ecc.,
ossia quando svolge tutta una serie di attività cognitive che non solo sono tipiche
della sua vita quotidiana, ma che in realtà rappresentano passi necessari nel
processo di apprendimento.
La ricerca di questi ultimi decenni (Bloom, 1979; Bruner, 1996; Dweck, 2000) ha
concettualizzato l’apprendimento scolastico come processo in cui l’allievo elabora
attivamente la conoscenza. Questa concezione appare tuttora valida, ma studi
recenti (Schunk & Zimmerman, 2006) mostrano l’esigenza di ampliarla e
integrarla. Da un lato, si sottolinea la dimensione affettivo-motivazionale
dell’attività cognitiva, non abbastanza considerata dall’approccio di information
processing; dall’altro, la prospettiva socioculturale, influenzata dalle ricerche
interculturali e dal pensiero di Vygotskij, afferma polemicamente che l’attività
cognitiva non si svolge solo nella mente dell’individuo, ma nei contesti di
interazione sociale.
Gli esseri umani per far fronte alle esigenze della vita hanno a loro disposizione
l’intelligenza e la capacità di apprendere dall’esperienza, cioè, la capacità di
modificare pensieri e comportamenti in funzione di quel che è accaduto loro in
passato.
L’apprendimento è stato definito come <<Cambiamento relativamente permanente
nel comportamento o nella conoscenza provocato dall’esperienza, cioè
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dall’interazione tra un soggetto e l’ambiente fisico e sociale. I cambiamenti dovuti
all’apprendimento vanno distinti sia da quelli derivati da condizioni temporanee
dell’organismo, sia da quelli dovuti principalmente a processi di maturazione>>
(Bonino, 1994).
In realtà, non esiste un’unica definizione di apprendimento, poiché le descrizioni
di tale processo derivano dall’articolazione tra i discorsi sociali, riferiti agli
apprendimenti necessari in un contesto sociale determinato, e i discorsi teorici,
situati nell’ambito delle indagini scientifiche o dei modelli applicativi, relativi ai
processi cognitivi implicati nell’apprendimento.
L’apprendimento si sperimenta, soprattutto nel rapporto educativo durante il quale
può essere guidato in vario modo e orientato verso specifici fini pratici, che
possono essere definiti come acquisizione a lungo termine di uno stabile bagaglio
di conoscenze e delle capacità necessarie per formare tali conoscenze.
Il processo di apprendimento è un fenomeno complesso e multiforme che si
realizza attraverso modalità e meccanismi molto disparati: alcuni molto semplici
come le risposte condizionate elementari che derivano da associazioni meccaniche
di stimolo; altri più elaborati, come quelli che si svolgono attraverso tentativi ed
errori o che vengono confermati da rinforzi specifici; altri ancora consistenti in
intuizioni improvvise o in combinazioni logiche di operazioni mentali.
In tutti questi casi, anche quando sembra ridursi a meccanismi molto semplici, a
pure associazioni automatiche ed inconsapevoli, l’apprendimento costituisce
sempre una forma di condotta orientata nella quale è riconoscibile un rapporto
molto preciso fra stimoli e risposte, fra fini da raggiungere e mezzi per conseguirli.
Per questo è necessario considerare i fattori motivazionali che agiscono in ogni
situazione di apprendimento, sia che essi consistano in impulsi istintivi e
inconsapevoli, sia che essi derivino, invece, da una dinamica motivazionale più
complessa che si svolge nella sfera dell’Io consapevole.
A tal proposito, diversi autori (Zamperlin & De Beni, 1997; Hidi, 2000)
sottolineano come l’apprendimento risulta essere sia un processo attivo ed
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intenzionale, in quanto in stretta relazione con la motivazione dell’individuo, con
le sue conoscenze, l’uso di particolari strategie e con la capacità di
autoregolazione, sia un processo sociale, cioè legato a particolari obiettivi sociali,
quali l’autoaffermazione (individualità, autodeterminazione, superiorità, ottenere
approvazione, sostegno e validazione dagli altri), e l’integrazione (appartenenza,
responsabilità sociale, equità, dare approvazione, sostegno e valore agli altri).
Lo studio delle differenze individuali risulta ampiamente legato al processo di
apprendimento; infatti, gli studenti si diversificano tra di loro a livello evolutivo, di
competenza, di rappresentazione dell’apprendimento, di stile di pensiero, di
attribuzioni e motivazioni.
Risulta, quindi, di fondamentale importanza il ruolo svolto dalle caratteristiche
psicologiche dell’individuo nell’influenzare gli esiti della formazione: stili di
apprendimento, intelligenza, motivazione, tratti di personalità, valori,
atteggiamenti condizionano il processo formativo.
È chiaro, dunque, come gli esiti di un processo di apprendimento siano il prodotto
dell’interazione tra le attitudini individuali e l’attività formativa in questione.
Sono diverse le strutture coinvolte che interagiscono tra loro, come le strategie
cognitive personali, gli stili di apprendimento, le esperienze individuali e
collettive, le influenze dell’ambiente circostante, i modelli, le dinamiche delle
agenzie educative e i mezzi di comunicazione che regolano lo scambio di
informazioni.
La ricerca sulle differenze individuali è stata affrontata secondo tre principali
approcci (Boscolo, 1981). Il primo è l’approccio psicometrico, con la
predisposizione di test che potessero fornire strumenti validi per cominciare a
ordinare gerarchicamente gli esseri umani confrontando le prestazioni misurate
attraverso analisi di tipo quantitativo. Il secondo approccio è quello cognitivista,
con lo spostamento dell’attenzione dalle misurazioni quantitative dei tratti
individuali allo studio qualitativo dei processi della prestazione intelligente. Infine,
l’approccio degli stili cognitivi che si interessa sia dei tratti individuali e della loro
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misurazione, che dell’analisi qualitativa delle modalità attraverso cui i soggetti
elaborano l’informazione.
I.2 Fattori cognitivi dell’apprendimento
I.2.1 Dalla misurazione dell’intelligenza agli stili cognitivi
Con gli studi di Binet e Simon, all’inizio del XX secolo, il problema delle
differenze individuali è praticamente coinciso con quello della misurazione
dell’intelligenza attraverso le prestazioni a test basati sul concetto di quoziente di
intelligenza (QI); infatti, l’approccio psicometrico privilegia un’analisi di tipo
quantitativo delle prestazioni intellettive ai test.
In questo periodo, lo studio delle differenze individuali e la ricerca
sull’apprendimento costituiscono due settori separati a causa delle profonde
diversità nei metodi di studio. L’apprendimento viene studiato mediante il metodo
sperimentale, che implica la manipolazione da parte dello sperimentatore di una o
più variabili indipendenti (per esempio, il ritmo con cui vengono dati rinforzi, le
caratteristiche del materiale da apprendere, etc.) e l’osservazione degli effetti che
ne conseguono sulla prestazione dei soggetti (variabile dipendente). Le differenze
individuali, invece, vengono studiate con il metodo correlazionale, che si basa
sulla rilevazione e analisi delle variazioni già esistenti, e quindi non manipolabili,
tra gli individui.
Il concetto di intelligenza cambia nel corso degli anni passando da concezioni
secondo cui l’abilità mentale è concepita come composta da molteplici processi a
concezioni unitarie e monofattoriali per passare a concezioni plurifattoriali che
vedono l’intelligenza come un insieme articolato di abilità distinte (Bloom,1979;
Dweck, 2000).
Una svolta nello studio delle differenze individuali risale agli anni settanta, quando
si assiste al declino dell’approccio psicometrico e ad una crescente influenza del
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cognitivismo. Nella ricerca cognitivista sulle differenze individuali si possono
sostanzialmente distinguere due approcci. Il primo, detto dei correlati cognitivi,
cerca di individuare i processi elementari implicati in compiti cognitivi che
correlano con alti o bassi livelli di una determinata attitudine dell’individuo, allo
scopo di costruire sottogruppi di soggetti di diverso livello di abilità accertate
mediante test psicometrici e di confrontare la prestazione di questi gruppi in
compiti particolari. Il secondo approccio, dei componenti cognitivi, cerca di
identificare direttamente i componenti informazionali dei compiti che
costituiscono i test attitudinali attraverso un procedimento che si focalizza
direttamente sulla prestazione ai test.
Un ulteriore settore di studi sulle differenze individuali, che si sviluppa a partire
dagli anni sessanta, analizza le differenze in termini di regolarità nel
funzionamento cognitivo, definendo il costrutto di stili cognitivi.
Questo approccio rappresenta un capitolo a sé, pur condividendo alcuni aspetti sia
con l’approccio psicometrico che con quello cognitivista: si passa da una
misurazione dell’intelligenza generale alla individuazione delle strategie,
attitudini, abilità che caratterizzano quell’individuo nell’esecuzione di uno
specifico compito.
Il termine stile vuole indicare caratteristiche cognitive globali che si rilevano non
solo nel funzionamento cognitivo dell’individuo, ma anche nei suoi atteggiamenti,
nei modi di rapportarsi agli altri o di reagire a particolari situazioni; così si parla di
stile dipendente o indipendente dal campo, di stile impulsivo o riflessivo,
convergente o divergente ecc. Lo stile cognitivo consiste nel modo personale di
percepire ed elaborare stimoli ambientali in strutture coerenti e significative in
base alle quali poi si interagisce con l’ambiente.
La ricerca sugli stili cognitivi è interessata ad individuare dimensioni misurabili
del comportamento che sono fonti di differenze individuali, e da questo punto di
vista si avvicina all’approccio psicometrico, di cui tuttavia rifiuta il concetto
basilare di livello delle abilità mentali. Inoltre, pur non trascurando gli aspetti
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metrologici, questa ricerca si focalizza sulle differenze qualitative nella
processazione cognitiva e si avvicina quindi all’approccio cognitivista, da cui però
si distanzia con il concetto di stile, cioè di dimensione globale che non trova
riscontro nell’attenzione ai processi elementari che caratterizza l’Information
processing.
I.2.2 Dagli stili cognitivi agli stili di apprendimento
Tra gli stili cognitivi più studiati emerge la dipendenza/indipendenza dal campo
(Witkin et al., 1974), che descrive il grado in cui la percezione o la comprensione
di un individuo è influenzata dal campo percettivo o dal contesto che lo circonda.
Gli individui dipendenti dal campo hanno difficoltà a riconoscere e a selezionare
l’informazione in un contesto ambiguo, mentre gli indipendenti non hanno questa
difficoltà, tanto che tendono a riorganizzare e ristrutturare l’informazione, al
contrario dei dipendenti che codificano l’informazione senza trasformarla.
La ricerca condotta sulla dipendenza dal campo (Jonassen & Grabowski, 1993) ha
messo in evidenza alcune relazioni tra lo stile e l’apprendimento. Gli indipendenti
hanno una migliore capacità di verificare le ipotesi nella soluzione di problemi
rispetto ai dipendenti, riescono con più facilità a ricavare l’informazione rilevante
attraverso un atteggiamento maggiormente attivo nei compiti di apprendimento,
inoltre, trasferiscono meglio le regole apprese a contesti nuovi, percepiscono
meglio l’ambiguità linguistica. I dipendenti, invece, riescono meglio nelle
situazioni di gruppo in cui è richiesto un atteggiamento disponibile verso gli altri, e
nelle situazioni in cui è necessario seguire uno schema di prestazione prefissato.
Da questa descrizione emerge che le condizioni di istruzione che meglio si
adattano agli individui dipendenti dal campo sono quelle che strutturano
l’ambiente di apprendimento, attraverso una guida esplicita, istruzioni chiare,
feedback informativi, e anche le condizioni che si basano su un contesto di
apprendimento collaborativo. Per gli indipendenti è invece più proficuo un
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ambiente in cui possano imparare in modo autonomo e con un certo grado di scelta
personale del materiale e delle strategie di apprendimento.
È stato comunque sottolineato che si può parlare di stile cognitivo in senso
rigoroso solo per un numero estremamente ridotto di soggetti, infatti la maggior
parte degli individui non possiede uno stile cognitivo definito, ma adatta il proprio
stile alle esigenze del compito da affrontale (Zamperlin & De Beni, 1997; Bigozzi,
2000).
A partire dagli anni sessanta, lo studio degli stili cognitivi si è spostato verso un
settore che riguarda gli stili di apprendimento (Schmeck, 1988; Jonassen &
Grabowski, 1993).
Per stile di apprendimento si intende la predisposizione di un individuo ad
utilizzare, indipendentemente dalle richieste specifiche del compito, una
particolare strategia di apprendimento, cioè un insieme di operazioni e di
procedure che lo studente può usare per acquisire e recuperare differenti tipi di
conoscenze e di prestazioni.
Lo stile di apprendimento è l’approccio generale o preferito all’apprendimento da
parte di una persona, il suo modo tipico e stabile di percepire, elaborare,
immagazzinare e recuperare le informazioni. Lo stile è relativamente indipendente
dal contesto e dal contenuto trattato e condiziona la scelta e l’uso di strategie di
apprendimento. Gli stili sono stati descritti in molti modi, ad esempio, come
modalità sensoriali (visivo, uditivo, cinestetico), come modalità cognitive
(analitico, sistematico, riflessivo oppure globale, intuitivo, impulsivo), come tratti
di personalità (introverso o estroverso, cauto o disponibile al rischio, individuale o
di gruppo).
Mentre stili cognitivi e forme di controllo cognitivo riguardano modalità
specifiche di processazione dell’informazione, gli stili di apprendimento
riguardano le preferenze individuali per tali modalità.
In questo contesto l’esperienza di apprendimento assume un ruolo centrale, infatti
è grazie al processo di apprendimento che si formano idee derivate dall’esperienza,
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che avviene una transizione tra il soggetto e l’ambiente e, di conseguenza, si
produce il sapere.
I.3 Fattori affettivo-sociali dell’apprendimento
I.3.1 La motivazione ad apprendere
Lo studio psicologico della motivazione ad apprendere ha visto, negli ultimi
decenni, un grande sviluppo che ha interessato diversi approcci di ricerca, i quali
possono sostanzialmente essere ricondotti a tre filoni principali.
Il primo filone di ricerca riguarda gli studi sulla motivazione estrinseca che si
richiamano principalmente alla tradizione comportamentista. In particolare,
secondo questa prospettiva in un organismo che si trovi in uno stato di bisogno (ad
esempio la fame, la sete, l’evitamento del dolore) si sviluppa una pulsione che
attiva comportamenti rivolti a soddisfare il bisogno e a ritrovare l’equilibrio
omeostatico, cioè quella condizione di stabilità interna degli organismi che deve
mantenersi anche al variare delle condizioni esterne attraverso meccanismi
autoregolanti. Quando lo stimolo della pulsione è ridotto si verifica la condizione
di rinforzo primario. Negli esseri umani accanto ai bisogni, alle relative pulsioni e
ai rinforzi primari si sviluppano pulsioni e rinforzi secondari, derivati da quelli
primari o appresi per condizionamento.
Rapportando tale principio in ambito educativo, se un alunno vede ripetutamente
seguire alcuni suoi comportamenti da rinforzi e ricompense (lodi, premi, rinforzi
sociali), egli può sviluppare, conservare e potenziare una motivazione positiva nei
confronti di tali attività. Da questo punto di vista si parla di motivazione
estrinseca: l'individuo si impegna in una attività perché la considera un mezzo, uno
strumento per raggiungere uno scopo esterno all'attività stessa, ad esempio per
ottenere ricompense, vantaggi e riconoscimenti; per evitare conseguenze
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sgradevoli; per conformarsi a modelli di comportamento imposti dall'ambiente
sociale.
Il secondo filone è rappresentato dagli studi su quei fattori che attivano il
comportamento dell’individuo verso oggetti o attività che lo attraggono e a cui il
soggetto stesso attribuisce un valore. Rientrano in questo filone le teorie delle
motivazioni intrinseche e gli studi sull’interesse.
Negli anni cinquanta e sessanta alcuni studiosi (Maslow, 1954; White, 1959;
Berlyne, 1960), in sintonia con la psicologia umanistica e con gli studi
sull’apprendimento per scoperta e per soluzione di problemi, hanno ritenuto
riduttivo e inadeguato il concetto di bisogni e di pulsioni rivolti a garantire
l’equilibrio omeostatico di un individuo. Essi hanno invece ipotizzato l'esistenza di
bisogni innati di natura psicologica, che si manifestano proprio quando i bisogni di
tipo omeostatico sono soddisfatti.
Maslow (1954) ha sostenuto che nelle persone sono presenti diversi bisogni, che si
collocano in ordine gerarchico. I quattro bisogni di livello più basso sono i bisogni
fisiologici come fame e sete; i bisogni di sicurezza tra cui il bisogno di protezione;
i bisogni di appartenenza come affiliazione e accettazione; i bisogni di stima tra
cui prestigio e status. Quando tali bisogni sono soddisfatti la relativa motivazione
diminuisce. L’autore descrive, inoltre, tre tipi di bisogni di livello superiore, quali i
bisogni di conoscenza (curiosità, comprensione), i bisogni estetici (ordine,
bellezza), i bisogni di autorealizzazione (soddisfazione di sé). Quando si raggiunge
un determinato livello di soddisfazione in questi ambiti, la motivazione non
diminuisce, anzi si rinnova continuamente per raggiungere ulteriori traguardi.
Berlyne (1960) ha ipotizzato la presenza di una pulsione esplorativa non
omeostatica, la curiosità. L'individuo tende a raggiungere e a mantenere un livello
ottimale di attivazione dell'organismo, che dipende soprattutto dalla intensità delle
stimolazioni ambientali. In particolare quando un individuo incontra caratteristiche
ambientali strane, sorprendenti, nuove, complesse, scarsamente congruenti con le
sue aspettative, quando cioè l'ambiente presenta particolari proprietà collative, che
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