Introduzione
Nella prima parte la ricerca delinea il contesto di riferimento:
in un’ottica necessariamente teorica l’indagine ha preso le
mosse dall’analisi delle funzioni che vengono riconosciute ai
media, dal rapporto tra i diversi mezzi di comunicazione e dal
ruolo che ciascuno riveste nella società contemporanea.
Dalle origini dell’Industria Culturale all’attuale società
dell’immagine, si analizza brevemente il percorso tecnologico
e sociale in cui si inserisce la nascita della televisione.
Sono analizzate le teorie dei media, nel tempo evolute e
contrapposte, per giungere a constatare la centralità del
colosso-televisione, il potere pervasivo di uno strumento che è
stato capace di forgiare e trasformare l’identità stessa degli
Italiani.
L’approccio teorico continua nella seconda parte con la
ricostruzione della storia della critica televisiva, esaminando il
clima culturale in cui si sviluppa ed illustrando le fasi che
attraversa, dal pre al post-riforma.
All’interno di questa sezione si inserisce l’indagine statistica
svolta da Degrada all’inizio degli anni ’90, presentata nel testo
A parer nostro, (1992 Eri), che analizza l’evoluzione della
critica dagli anni ’50 al 1990, allo scopo di verificarne il peso
sulla stampa quotidiana rispetto allo spazio dedicato
complessivamente alla televisione.
Concluso l’excursus storico, la ricerca esamina la critica
televisiva da un diverso punto di vista e in un diverso periodo:
il lavoro, inedito, mira ad individuare i mutamenti qualitativi
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intervenuti attraverso l’analisi di un campione di testate
rappresentativo, in un lasso di tempo determinato.
Lo scopo è, evidentemente, comprendere se e come
nell’ultimo decennio sia cambiata la critica con il mutare della
televisione e l’evoluzione del suo linguaggio.
Nella sezione empirica, infine, si analizza la scrittura
giornalistica su tre quotidiani nazionali - Il Corriere della
sera, La repubblica e La Stampa - monitorati per quattro
settimane nell’anno 1998 e per lo stesso periodo nel 2008.
Il punto di partenza - il 1998 appunto – vede una realtà
televisiva in cui è ancora sconosciuto il fenomeno reality,
destinato di lì a poco a modificare radicalmente il volto del
piccolo schermo.
Attraverso alcune categorie di analisi - genere, contenuti, stile
d’approccio, tipologia dell’articolo, rete e fascia oraria – si
applica una doppia analisi sui quotidiani: in una prima fase
sincronica si evidenziano le differenze in due distinti momenti
– 1998 e 2008 – e in un successivo studio diacronico si
sottolineano i cambiamenti editoriali di ciascuna testata nel
lungo periodo.
Osservando le tabelle elaborate sui dati raccolti si notano
differenze quantitative in entrambi i casi.
La seconda parte della ricerca empirica analizza alcuni articoli
di testate considerate di parte, perché dichiaratamente
appartenenti a precise aree politiche, (Libero e Il Manifesto).
La scelta è dettata dal fatto che questi quotidiani attribuiscono
un potere politico e strategico al mezzo, riconoscendo alla
critica un peso maggiore, sottolineato dai toni generalmente
più agguerriti e spinti.
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Le categorie di analisi restano le stesse ma viene riconosciuta
una maggiore centralità allo stile d’approccio, al tono ed al
linguaggio allo scopo di individuare, se ci sono, differenze
sostanziali.
Nell’ultima parte si prende in esame la rassegna stampa
relativa ad un unico programma televisivo – il Fiorello Show -
che ha avuto trattamenti discordi, se non diametralmente
opposti, da parte di testate di diverso orientamento.
Non si tratta di un’analisi politica ma, anche in un caso del
genere, non si può prescindere dalla linea editoriale.
Ad integrare la ricerca un’intervista all’ex critico televisivo de
La Repubblica, Gualtiero Peirce, che introduce nuovi scenari
su cui riflettere.
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Capitolo 1
Stampa e tv: l’Industria Culturale
Origini dell’Industria Culturale: la “civiltà
dell’immagine” verso il post-moderno
Stampa e televisione costituiscono due settori interdipendenti
della più ampia Industria Culturale che, nata a partire dalla
stampa di massa ottocentesca, trova il pieno compimento
prima della metà del XX secolo, quando si integrano tutti i
processi culturali mediali ottocenteschi. Fenomeni sociali e
tecnologici permettono all’industria culturale di diventare un
sistema integrato di linguaggi e prodotti espressivi, che vede
al suo centro il colosso televisione.
La storia dell’industria culturale moderna nasce come storia
del corpo metropolitano, si sviluppa nella storia del corpo
cinematografico e si conclude nel pieno avvento del corpo
televisivo. Ogni fase presenta già tensioni verso quella
successiva e ne anticipa le necessità espressive. Già nel XIX
secolo i dispositivi della metropoli, le grandi esposizioni
universali, lo spirito delle macchine, la seduzione delle merci
e della loro messa in scena, i grandi magazzini e le vetrine,
sono le forme espressive della cultura di massa e della società
dello spettacolo, (Abruzzese, Borrelli, 2000).
Si tratta di un secolo di grossi cambiamenti economici, sociali
e culturali. La vita economica si sposta nelle città, che attirano
masse di disoccupati provenienti dalle zone rurali; si avviano
fenomeni di degrado urbano e la massa viene percepita come
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forma di vita inferiore, folle e criminale, (Le Bon, Psicologia
delle folle, 1895), dove le regole sociali perdono di significato
e di autorità. Ma i nuovi ceti che irrompono nello spazio della
metropoli sono anche portatori di nuove esigenze sociali ed
espressive, per alcuni “degradate” rispetto ai modelli formali
che l’Antico aveva trasmesso al Moderno. In ogni caso
determinano una forte differenziazione della società e
sollecitano nuovi bisogni comunicativi. Si teorizza la “morte
dell’arte” laddove le forme espressive si contaminano con
l’accidentalità spuria e prosaica del vissuto quotidiano: per
Hegel la sola arte autentica è la forma classica. Baudelaire, al
contrario, ritiene che il bello per stare al passo coi tempi
debba diventare inquietante fino a sconfinare nei territori del
brutto. Da qui l’analisi di Benjamin sull’industria culturale e
la perdita dell’aura per l’opera d’arte nell’epoca della sua
riproducibilità tecnica: i linguaggi dell’arte, osserva Simmel,
si aprono alla complessità della vita, estendono la sfera dei
contenuti rappresentabili a situazioni ed ambiti di vita
considerati esteticamente poco significativi.
Con lo sviluppo dell’ Industria Culturale, ma soprattutto con
l’avvento della televisione, si riaccende il dibattito estetico e
ideologico. Nella Dialettica dell’illuminismo (1947) Adorno e
Horkheimer denunciano il processo di autodistruzione
dell’Illuminismo, regredito ad una nuova forma di barbarie:
nella società di massa, secondo gli intellettuali della Scuola di
Francoforte, la cultura è prodotta e distribuita come qualsiasi
merce e il valore dell’ opera d’arte è funzione della sua
commerciabilità. Il valore d’uso è sostituito dal valore di
scambio e al posto del godimento subentra il prender parte e al
posto dell’intendimento il guadagno di prestigio. L’Industria
Culturale è causa di ubiquità, ripetitività e standardizzazione.
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Diversa è la posizione di Benjamin (Benjamin, 1936) che ha
teorizzato la perdita dell’aura da parte dell’opera d’arte
nell’epoca della sua riproducibilità tecnica ma non condivide
con la scuola di Francoforte il presupposto di degrado delle
forme estetiche nella società massificata. Secondo il filosofo
tedesco l’intellettuale che intenda schierarsi dalla parte del
proletariato deve partecipare alla condizione produttiva
dell’operaio, accettare la proletarizzazione del suo lavoro e
della sua stessa funzione intellettuale. L’opera d’arte perde
l’aura data dalla sua unicità e viene integrata nel contesto di
vita dei fruitori. Si giunge ad una sorta di democratizzazione
dell’arte che comporta l’estensione della facoltà di espressione
a larghi strati di persone, tradizionalmente confinate nel ruolo
passivo di pubblico, (Benjamin, 1936, pp 35-36),
[…] gruppi sempre più cospicui di lettori passarono - dapprima
casualmente - dalla parte di coloro che scrivono. Il fenomeno cominciò
quando la stampa quotidiana aprì loro la propria rubrica delle “lettere al
direttore”. […] la distinzione tra autore e pubblico è in procinto di
cambiare il suo carattere sostanziale. […] il lettore è sempre pronto a
diventare autore.
Sulla stessa linea vi è chi, più recentemente, individua un
rapporto tra l’arte ed alcuni prodotti della televisione
contemporanea: il tema dell’impiego del pubblico come
risorsa estetica è alla base della nozione di arte contemporanea
elaborata da Duchamp, che introduce il concetto di opera
d’arte completata dal godimento e dalla fruizione del
pubblico, (Senaldi, 2003). Facendo particolare riferimento al
reality show, Senaldi ritiene che, a cominciare dal Grande
Fratello, la tv si appropri di un’estetica e la rende popolare:
ponendo al di là dello schermo persone comuni ribalta la loro
normalità sugli spettatori, abbandonando l’usuale distinzione
tra emittente e ricevente, verità e finzione, consapevolezza ed
ignoranza. Alcune opere nell’arte contemporanea hanno
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ribaltato la logica secondo la quale comunicare vuol dire
trasmettere un messaggio da un emittente a un ricevente; la
metafora dello schermo come “finestra sul mondo”è stata
sostituita con l’idea di una comunicazione-boomerang in cui
la finestra si apre paradossalmente su chi la guarda,
realizzando la profezia di Lacan secondo cui “comunicare
significa ricevere indietro il proprio messaggio in forma
inversa, cioè vera”. Opere come Sleep, (1963), di Andy
Warhol, con l’uso della camera fissa e l’assenza di un
operatore dietro la macchina da presa, hanno a che vedere con
il concetto di “riflessione” della vita vissuta, più che di
riproduzione. Ancora il lavoro di Graham presentato alla
Biennale di Venezia nel 1976, Public Space/Two Audiences
dove, in un ambiente diviso da un vetro, gli spettatori
entravano nei due spazi simultaneamente osservando al di là
non un’opera d’arte ma altri spettatori che a loro volta
venivano riflessi da uno specchio. La “definitiva ambiguità fra
arte e realtà” è stata anticipata e voluta dall’estetica e dalla
struttura comunicativa dell’arte contemporanea.
Ma si tratta di un dibattito filosofico mai conclusosi tra
sostenitori di un’arte popolare e quelli di un’arte “classica”.
Indiscutibile è invece la nascita di un’Industria Culturale che,
passando attraverso gli antichi riti, i miti, il teatro, i mercati, le
fiere, le grandi esposizioni e gli spazi della metropoli,
producono seduzioni dello sguardo, dalla fascinazione
dell’immagine. La lanterna magica è il primo fenomeno tipico
dell’industria culturale: un’innovazione tecnica che trova solo
nel consumo la sua destinazione espressiva. Spettacolo e
consumi vanno di pari passo. Come pure nel teatro. Se le
grandi opere liriche sono ancora per ristrette élites, gli
spettacoli borghesi nei cafè chantant francesi già alla fine del
‘700, ma anche più tardi i Variétés e il teatro di Rivista
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italiano, legano lo spettacolo al consumo di bevande e cibo,
(Abruzzese, Borrelli, 2000). L’industria culturale ha radici
antiche ma sono radio e televisione a chiudere il cerchio ed
integrare il sistema rendendolo strumento di persuasione e
controllo da parte del sistema capitalistico. A partire dalla
stampa di massa e poi con i media elettronici, la cultura
diventa di massa, popolare, standardizzata e viene prodotta
come qualsiasi merce industriale.
La stampa di gutembergiana origine si può considerare il
primo mezzo di comunicazione di massa in quanto crea
interazione tra persone lontane attraverso l’accesso ad uno
stesso testo. Ma la stampa veramente di massa nasce negli
USA negli anni ’30 del XIX secolo, giunge in Europa
vent’anni dopo, accolta da critiche e allarmate deplorazioni,
accusata di banalizzare e imbarbarire il confronto politico
sollecitando le curiosità più estrinseche e superficiali dei
lettori. Riesce a raggiungere una enorme tiratura grazie al
modesto prezzo di vendita e, soprattutto, al livello elementare
del linguaggio degli articoli pubblicati. Ma la funzione
principale della Penny Press non è quella di assicurare
all’opinione pubblica borghese uno strumento di controllo e di
pressione sulla classe politica quanto quella di reperire o
costruire notizie, soprattutto di cronache e scandali, con stile
sensazionalistico per attrarre e distrarre grandi correnti di
opinioni intorno a questioni civili o politiche. Il passaggio
dalla stampa tradizionale a quella di massa rimanda alla stessa
differenza tra il giornalismo europeo e quello americano,
(Toqueville, 1835-40): la stampa diventa un’impresa che
opera in una dimensione di mercato e che tende non solo al
profitto economico, quanto al potere e al controllo sociale
delle masse.
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Le grandi rivoluzioni in campo tecnico e le trasformazioni
sociali avvenute nel XIX secolo portano, infatti, al trionfo
della società industriale borghese: a caratterizzare la civiltà
del primo Novecento è l’estensione a tutte le attività sociali di
quei principi di razionalità strumentale che governano i settori
dell’economia e della scienza. Anche l’autore viene
assoggettato alle regole del mercato: l’intellettuale diventa un
operatore culturale con competenze specifiche e settoriali
mentre il testo viene standardizzato, razionalizzato e fondato
direttamente su modelli del consumo. L’arte si esprime
nell’industrial design che integra qualità artistiche con i
prodotti dell’industria. Nascono i generi di massa, market
oriented, e l’art nouveau, prima avanguardia di massa ma
anche l’industria dell’evasione.
Liberati dai bisogni primari, ridotto il tempo del lavoro,
aumentati i salari, cresce il bisogno di intrattenimento e la
domanda di beni legati al tempo libero, soprattutto di beni dal
valore simbolico più che materiale. Il consumo tende ad
essere sempre di più una forma di agire comunicativo
attraverso cui gli individui trasmettono valori, identità e stili
di vita, (Codeluppi, 1988). In realtà è la triade desiderio,
immagine, consumo che caratterizza il XX secolo: la società
capitalista-industriale per aumentare i consumi crea nuovi
bisogni, spesso non soddisfabili e attraverso le immagini
alimenta a dismisura i desideri: per godere degli oggetti è
sufficiente possederne le immagini. Solo la produzione
letteraria prima, il giornale dopo e infine la tv, possono
soddisfare, anche se in modo vicario, incompleto,
immaginario, tali desideri smodati, che la società stessa ha
creato. La società del benessere e del consumo deve diventare
società dell’evasione e dell’immagine, la sola a permettere
una fuga dal presente. L’evasione dal reale, il sogno ad occhi
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aperti, avvicinano l’industria culturale alla cifra spirituale del
Romanticismo. Come pure la sospensione dell’incredulità,
l’illusione inconscia e lo stordimento dei sensi, che sono
propri dello spettatore cinematografico, (Hauser, 1955).
E’, dunque, l’immagine lo spirito del XIX secolo, strumento
privilegiato della pubblicità in quanto linguaggio accessibile
alla massa, perchè di immediata comprensibilità o di forte
impatto emotivo. La pubblicità riveste i prodotti commerciali
di valore simbolico, attraverso l’immagine semantizza la
merce associandole idee, valori, stili di vita. Come l’immagine
sacra parlava alla folla di doveri sociali e religiosi, esortava
alla preghiera ed invitava all’obbedienza, ora l’immagine
pubblicitaria parla di noi stessi, dei nostri piaceri, dei nostri
gusti, dei nostri interessi, (Talmeyr, 1896).
Presto la pubblicità diviene l’elemento propulsivo
dell’industria culturale: le aziende cominciano a finanziare
periodici illustrati, radio e televisione, ottenendo la possibilità
di rendere visibili i loro prodotti e, di fatto, sono loro a
produrre conoscenza collettiva, a formare i consumatori.
Ma l’immagine non serve solo a vendere, che siano prodotti o
sogni: per il sociologo Giddens nella tarda modernità si è
verificata una separazione del tempo dallo spazio e dello
spazio delle relazioni sociali dal luogo fisico, ovvero le
relazioni avvengono tra persone lontane o assenti. La
riproduzione degli oggetti e delle esperienze attraverso
l’immagine ridefinisce i confini tra il reale e l’illusorio,
(Abruzzese, 1995).
I media elettronici trasformano il senso del luogo creando un
ambito “pubblico” dove non è necessario recarsi fisicamente,
incrementano le fonti informative e la conoscenza condivisa,
allargano la sfera di ciò che è pubblicamente visibile ai
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comportamenti ritenuti tradizionalmente privati, al
“retroscena”, (Elias, 1969-80).
Successivamente è la televisione a modificare il rapporto tra il
tempo della produzione e quello del consumo comunicativo: i
programmi radiotelevisivi vengono fruiti nello stesso tempo in
cui vengono irradiati ma la vera grande differenza risiede
nella capacità della tv di creare uno spazio/tempo
smaterializzato nell’etere e condiviso simultaneamente da
fruitori sparsi in tutto il mondo.
In passato il sapere era distribuito in senso verticale, dalla
fonte e produzione di conoscenza ai beneficiari: con la
televisione gli spettatori/fruitori si sono trasformati in attori
sociali attivi con una propria cultura del consumo. Con
l’introduzione del telecomando si costruiscono palinsesti
personalizzati, indipendenti dalle strategie delle emittenti e,
ancor di più, con i media digitali, la contaminazione dei
linguaggi e dei discorsi più disparati porta le nuove
generazioni ad un atteggiamento tipicamente postmoderno.
L’ultimo traguardo dell’integrazione tecnologica è il triangolo
radio-tv/telefonino/internet, dove il consumo dei prodotti
dell’industria culturale diventa mobile e sempre a portata di
mano.
Neanche la categoria del post-moderno riesce quasi più ad
imbrigliare il linguaggio così complesso e contaminato del
flusso comunicativo attuale. Non vi è più un luogo adibito ad
un tipo di comunicazione, tutti i media comunicano attraverso
tutti i linguaggi possibili: immagini, suoni, dati, programmi
televisivi, film, viaggiano nell’etere, nel cavo, ovunque senza
alcuna frontiera. Ma in tutto questo fluire di messaggi, storie e
personaggi, la televisione continua a conservare la sua
centralità propulsiva essendo ancora, per la maggior parte
della popolazione, il solo mezzo di comunicazione di massa.
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Le cose tenderanno a cambiare ma lo scenario attuale la vede
ancora regina dell’intrattenimento e dell’informazione.
Teorie dei mass media e centralità del
mezzo televisivo
“La scienza della comunicazione è ancora in uno stato
preparadigmatico”, (Craig, 1993), vale a dire che è priva di
un approccio teorico largamente condiviso dagli studiosi,
ovvero in grado di spiegare, prevedere e controllare i dati
empirici, (Rosengren, 1993). Pur in assenza di un paradigma
condiviso, sono numerose le ricostruzioni circa l’evoluzione
delle teorie dei media, (Dervin, Grossberg, O’Keefe, Wartella,
1989; Curran, 1990; Jensen, Rosengren, 1990). Tra queste la
“ricostruzione per cicli” della Noelle-Neumann, (1973) con le
sue tre fasi: fino agli anni Quaranta i media vengono visti
come onnipotenti, in grado di manipolare e sottomettere una
folla amorfa di individui isolati; è il periodo in cui prevale la
teoria ipodermica e le tesi dei teorici della Scuola di
Francoforte, Adorno e Horkheimer. Nella fase successiva il
potere dei media è ridimensionato dal paradigma degli effetti
limitati: la riscoperta del gruppo primario dà importanza alle
reti sociali e all’influenza personale e smentisce l’assunto
dell’atomizzazione sociale degli individui, presumendo
l’intervento di variabili intermediarie tra il ricevente e il
messaggio. Si apre, così, la terza fase, quella del ritorno
all’idea dei media potenti, avvalorata dalla stessa Noelle-
Neumann: il focus dell’attenzione si concentra sugli effetti a
lungo termine, sulla capacità dei media di costruire le
rappresentazioni sociali della realtà, di influire sull’opinione
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pubblica e sull’agenda, (Bentivegna, 2003). In realtà a
riaccendere la preoccupazione intorno agli effetti è la
centralità acquisita dal mezzo televisivo, a causa della sua
capillarità e pervasività in termini di consumo e quantità di
pubblico raggiunto. La presenza costante della televisione
nella vita quotidiana lascia spazio a teorie apocalittiche sulla
dipendenza dai media nella formazione dell’opinione pubblica
e nella conoscenza stessa della realtà.
Dalla teoria ipodermica a quella della dipendenza dai media,
dunque, è possibile rintracciare una complessità crescente,
dimostrata dall’introduzione di variabili intervenienti
all’interno del processo comunicativo e dall’attenzione al
contributo di altre discipline. Tra i postulati sui quali si fonda
la teoria ipodermica, ma anche la teoria critica, si trova il
concetto di pubblico come massa indifferenziata, composta da
individui isolati e privi di reti sociali; vi si rintraccia l’assunto
che i messaggi veicolati dai media siano potenti fattori di
persuasione che penetrano il destinatario come un ago
ipodermico; infine si presume che i messaggi siano ricevuti da
tutti allo stesso modo, ovvero attraverso un’univoca
interpretazione e senza barriere difensive.
La teoria critica è ancora più allarmante perché individua un
pubblico che non può sottrarsi in alcun modo ai messaggi
veicolati dai media, neppure quando si tratta di un invito al
divertimento. I teorici tedeschi ritengono che i media
costituiscano un unico sistema, una vera industria (culturale)
che segue la stessa logica di qualsiasi altra produzione. I
prodotti di tale industria paralizzano l’attività mentale dello
spettatore.
Questi preoccupanti postulati, in realtà, non sono avvalorati da
dati empirici e, a causa del fallimento di alcune campagne,
cominciano ad affacciarsi ricerche sulla ‹‹comunicazione
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persuasoria››. Il fallimento dimostra l’esistenza di fattori di
mediazione tra i messaggi ed il pubblico, in primis
quell’influenza personale che, secondo il modello di
Lazarsfeld del ‹‹flusso a due fasi della comunicazione››, può
avere più peso del messaggio diretto. Esisterebbero insomma
degli opinion leaders con maggiore capacità persuasoria di
altri all’interno del gruppo di appartenenza.
Saranno le teorie di Eco e Fabbri (1978) a smentire l’univocità
della lettura dei messaggi elaborando il concetto di decodifica
aberrante per cui un messaggio può essere interpretato
attraverso un codice diverso da quello usato dal comunicatore,
riservando il diritto di elaborare definizioni alternative a
partire da caratteristiche personali o situazioni concrete.
Nell’ambito della audience research, ormai, è scontato che le
audience siano molteplici e che il momento della ricezione
debba essere posto in relazione con il contesto culturale sulla
base di un ‹‹approccio etnografico››.
Morley, (1986), ha studiato le reali modalità di consumo
televisivo che si realizzano in ambito familiare: piuttosto che
pensare che la tv abbia un effetto distruttivo sull’unità
familiare, esamina tutte le opportunità che il mezzo offre ai
membri della famiglia per incontrarsi, avere momenti da
dedicare al divertimento privato, argomenti di cui parlare. La
fruizione può tradursi in una sorta di rumore di fondo, in una
forma di compagnia ma può anche avere una dimensione
relazionale che crea cioè un terreno comune di interazione.
Ma già negli anni ‘40 la teoria degli ‹‹usi e gratificazioni›› fa
riferimento a tali funzioni; Katz, Gurevitch e Haas (1973)
hanno costruito una tipologia di cinque classi di bisogni che i
mass media possono soddisfare.
a) bisogni cognitivi (acquisizione di elementi
conoscitivi);
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