4
INTRODUZIONE:
PER UN’ETICA DELLA SOLITUDINE
Esperienze personali e fatti di cronaca mi hanno portato a riflettere sul significato che l’uomo ha all’interno
della società in cui vive. Può l’uomo con-vivere sempre con gli altri? Può l’uomo essere compreso dalle
persone che gli stanno intorno, siano essi amici, parenti o amanti? Nella vita quotidiana, ha l’uomo la
possibilità di capire i valori, il credo e le idee di coloro che operano intorno a lui?
La risposta istintiva che mi sono dato è negativa: nell’uomo esistono zone d’ombra che, anche se illuminate
razionalmente dall’Io stesso, non possono essere comunicate in larga parte agli altri, vuoi per le lacune del
linguaggio, vuoi per una debole ricettività dovuta agli altri a causa di esperienze diverse che creano
altrettante formae mentis, vuoi per una sorta di disinteresse verso ciò che non riguarda in primo luogo se
stessi.
Le capacità immaginative e catartiche dell’uomo tuttavia lo portano a sperimentare più di quanto
effettivamente gli sia possibile: il che equivale ad un tentativo di avvicinarsi agli altri sottoforma di
domande, che esprimono una curiosità di fondo che l’uomo ha in sé nei confronti di ciò che accade intorno
a lui. Ma questa esperienza mentale rimane sempre del tutto personale: ciò che gli altri sperimentano sulla
propria pelle sono contenuti non condivisibili totalmente e pertanto non interscambiabili. Una persona che
potesse introdurre in sé l’esperienza di tutto il mondo non potrebbe che essere simile a Dio.
L’uomo di conseguenza mi è sempre sembrato un anacoreta sui generis: pur vivendo in società, egli rimane
isolato per lo meno per gli aspetti fondamentali della vita. L’uomo è solo, aperto al mondo eppure chiuso in
se stesso, dotato di barriere cristalline tramite cui vede ma imprigionato in esse senza possibilità di
movimento ad ampio raggio.
C’è chi vive tale situazione come una risorsa, in cui l’Io, prima di darsi totalmente al resto del mondo deve
trovare la sua piena realizzazione e comprensione; c’è chi invece la vive come un isolamento totalizzante, in
cui la solitudine assume un connotato negativo. Condizione, questa, a mio modo di vedere dettata da un
credo contemporaneo, nato e cresciuto nei laboratori dell’economia, della politica e della massificazione,
per cui l’individuo non è nulla, mentre il gruppo è ciò che conta. A causa di questa abitudine del pensiero,
imposta dall’alto e non congenita all’uomo, l’individuo viene appiattito nella massa, che non è molteplicità
di individui ma quasi Leviatano totalizzante, in cui lo spazio per la propria personalità è schiacciato da un
pensiero sintetico.
In ciò forse sono stato influenzato da romanzi come Il mondo nuovo di Aldous Huxley o 1984 di George
Orwell o ancora Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, ma anche dalla biografia eroica di Caravaggio o solipsistica
di Giacomo Leopardi, o ancora dal concetto dello spazio discreto, dall’infinito di Zenone e dal pensiero
esistenzialista di Heidegger; e ho detto solo alcuni nomi di tutta una serie di autori, artisti e pensatori che,
in misura minore o maggiore, hanno contribuito a formarmi e da cui ho attinto.
Un mio lavoro poetico, Nuovi Profumi Universali, in forma non discorsiva e forse per questo non del tutto
soddisfacente intendeva dimostrare che l’Io si costruisce da dentro, prima di darsi all’esterno, e solo da
dentro prende forza. Nei vari tentativi di trascrivere organicamente in una prosa saggistica il mio pensiero,
mancava sempre lo spunto lessicale o il collegamento tra le varie manifestazioni di questo Io, solo ma pur
sempre sociale.
Il presente lavoro vuole essere quindi un inizio per tentare di pensare questa duplicità dell’Io, senza però
mancare di sottolineare come esso rimanga fondamentalmente isolato: un’etica della solitudine dovrebbe
indicare la via per mostrare come questo isolamento non debba essere interpretato in chiave negativa, ma
possa effettivamente costituire una risorsa all’interno di un mondo in cui l’Io non esiste più o è relegato nei
social network in forma del tutto virtuale e impotente.
5
L’UNICO ANELLO
Nel 1961, anno in cui venne dato alle stampe il volume di Emmanuel Lévinas Totalité et Infini, erano già
arcinoti altri due libri, di genere e stile completamente diversi, scritti da uno studioso inglese di linguistica e
filologia, John Ronald Reuel Tolkien: si tratta di The Hobbit (1937) e di The Lord of the Rings (1954-1955).
Non c’è un collegamento tra le due tipologie di opere, l’una un saggio di filosofia, gli altri due romanzi
fantasy; eppure, entrambi gli autori si rifanno al medesimo mito, che costituisce così il ponte che chiude il
triangolo.
Il mito in questione, di cui si parlerà più avanti, ha come protagonisti un anello d’oro, bello e misterioso,
che risiede nei recessi della terra, nascosto, e un personaggio curioso e pure fortunato, che usa questo
anello per i propri scopi.
Sembra di leggere proprio la storia raccontata in The Hobbit prima e in The Lord of the Rings poi1! Colui che
trova l’anello e che lo utilizza, divertendosi, è Bilbo Baggins, uno hobbit curioso e avventuroso. Ne Lo Hobbit
si racconta del momento in cui Bilbo trova l’anello: egli è all’interno di una montagna, si è perso e tenta di
trovarne l’uscita mentre scappa inseguito dagli Orchi…
La testa gli girava, ed era ben lontano dal sapere con un minimo di sicurezza in quale
direzione stessero andando quando egli era caduto. Tirò ad indovinare, e avanzò
strisciando per un po’, finchè improvvisamente la mano andò a sfiorare per caso qualcosa
che al tatto sembrava un sottile anello di metallo freddo, giacente sul fondo del tunnel.
Bilbo era a un punto cruciale della sua vita, ma non lo sapeva2.
Con questa prolessi, inizia un’avventura in cui Bilbo scopre le qualità di questo freddo anello, in modo
particolare quando verrà inseguito, più tardi, da una creatura indefinibile, Gollum…
[…] avanzava ansimando e inciampando. Mise la mano sinistra in tasca. L’anello gli sembrò
molto freddo mentre si infilava quietamente nell’indice che lo andava cercando.
Il sibilo, ora, era proprio dietro di lui. Si girò e vide gli occhi di Gollum che salivano su per la
china come piccole lampade verdi. Terrorizzato, cercò di correre più forte, ma
improvvisamente urtò col piede contro una sporgenza del terreno e cadde bocconi con la
spada sotto di sé.
In un attimo Gollum gli fu sopra. Ma prima che Bilbo potesse fare qualcosa, riprendere
fiato o tirarsi su, o brandire la spada, Gollum lo sorpassò senza accorgersi affatto di lui,
imprecando e sussurrando mentre correva.3
Scopre così che l’anello ha un magico potere: quello di rendere invisibile colui che lo indossa.
Passano gli anni e Bilbo non rivela a nessuno la sua scoperta. Il giorno del suo centoundicesimo
compleanno, nel villaggio in cui abita, Hobbiville, viene data una festa in suo onore, cui sono invitati quasi
tutti gli abitanti. Bilbo è ovviamente l’ospite d’onore e gli viene chiesto di fare un discorso: è il momento
ideale per fare uno scherzo divertente, in cui l’anello ha il suo compito…
1
Per i riferimenti testuali mi servirò delle traduzioni italiane delle opere di J.R.R. Tolkien, curate dalla casa editrice
Bompiani: Lo Hobbit o la riconquista del Tesoro, Milano, VIII edizione, 2002; Il Signore degli Anelli, La Compagnia
dell’Anello, Milano, X edizione Tascabili, 2002.
2
Lo Hobbit, op. cit., capitolo V, Indovinelli nell’oscurità, p. 117.
3
Ivi, p. 133.
6
“[…] desidero fare un annuncio. […] Mi rincresce dovervi comunicare che quantunque,
come vi ho detto prima, centoundici anni trascorsi in mezzo a voi siano davvero troppo
pochi, ora è giunta la fine. Me ne vado. Parto subito. Addio!”
Scese dalla sedia e scomparve. Una luce accecante abbagliò per un attimo gli invitati.
Quando aprirono gli occhi, non c’era più nessuna traccia di Bilbo. Cento quarantaquattro
hobbit stralunati caddero a sedere. […] Erano tutti scandalizzati dal cattivo gusto dello
scherzo […].
[…] Quanto a Bilbo Baggins, fin dalle prime parole del discorso, aveva giocherellato con
l’anello d’oro nascosto in tasca: il suo magico anello che era riuscito a mantenere segreto
per tanti anni. Mentre scendeva dalla sedia se lo infilò al dito, e nessun Hobbit lo vide mai
più a Hobbiville.4
Le avventure di Bilbo Baggins e dell’anello misterioso proseguono, ma non interessano più per lo scopo di
questo lavoro. E’ chiaro comunque che ci sono alcuni aspetti interessanti da sottolineare: innanzitutto,
l’anello viene trovato casualmente da una persona che in quel momento è occupata in una azione
totalmente diversa da quella che prevede il ritrovamento di un monile; in secondo luogo, l’anello possiede
un magico potere, quello di rendere invisibile chi lo indossa; infine, la persona che viene così a possederlo
intende utilizzare l’anello con fini personali, sebbene coloro che subiscono le azioni non siano del tutto
felici.
E’ questa la medesima conclusione cui si arriva alla lettura del mito, cui si accennava sopra. Si tratta del
mito di Gige e dell’anello, raccontato nel secondo libro della Πολιτεία di Platone. Esso si inserisce in un
dibattito riguardante la giustizia, ovvero se essa sia più o meno conveniente dell’ingiustizia, cui partecipano
i protagonisti del dialogo: Socrate, Glaucone, Polemarco, Trasimaco, Adimanto e Cefalo. Proprio Glaucone,
onde dimostrare che nessun uomo è così virtuoso da poter resistere alla tentazione di compiere azioni,
anche terribili, se gli altri non lo possono vedere, racconta questo mito:
[…] Gige, antenato di Creso, re di Lidia […] era al servizio, in qualità di pastore, del sovrano
che allora regnava in Lidia. Un giorno, durante un violento terremoto accompagnato dal
temporale, la terra si spaccò e produsse una fenditura nel luogo in cui egli faceva
pascolare il gregge. Gige la vide e scese giù pieno di stupore. Fra le molte meraviglie che
scorse c’era, a quanto si narra, un cavallo di bronzo, cavo, con delle aperture. Egli vi infilò il
capo e vide là dentro un cadavere di dimensioni sovrumane, assolutamente spoglio ma
con un anello d’oro in una mano. Gige se lo mise al dito e uscì. Con tale anello partecipò
anch’egli alla consueta riunione dei pastori per dare al re il rendiconto mensile sullo stato
del gregge. Ma mentre era seduto con i compagni girò per caso il castone dell’anello verso
di sé, all’interno della mano; e così divenne invisibile, e quelli seduti accanto a lui dissero
che se n’era andato via. Egli allora, stupefatto, toccò di nuovo l’anello, voltò il castone
verso l’esterno e appena l’ebbe voltato ritornò visibile. […] Non appena ebbe compreso
ciò, fece in modo di essere incluso fra gli informatori del re. Giunse alla reggia, divenne
l’amante della regina e con lei congiurò contro il re, lo uccise e prese il potere. 5
Anche qui, dunque, un anello d’oro è il mezzo tramite cui si compie un inganno, sebbene più grave di quello
messo in atto da Bilbo Baggins; inoltre, anche qui, l’inganno è mezzo attraverso cui il possessore dell’anello
raggiunge uno scopo. Le due vicende, dunque, sono similari e rimandano, ciò che interessa allo scopo di
4
Il Signore degli Anelli, La compagnia dell’anello, op. cit., capitolo I, Una festa a lungo attesa, pp. 58-59. I corsivi sono
dell’autore.
5
Platone, Repubblica, Bruno Mondadori, Milano, V edizione, 1995, pp. 99 e 101.