Capitolo I
CINEMA e GIORNALISMO
1.1 Stampa e Cinema: un rapporto
consumato tra stereotipi e immagini
romantiche
Due mezzi di comunicazione, di informazione e di
formazione ideologica e politica. Due potenti strumenti nella
comprensione del mondo, le cui strade si sono incontrate e
spesso scontrate fin dalla nascita del cinematografo. Due
universi che, intessendo un rapporto complesso e
affascinante, di frequente si raccontano e a volte si fanno
concorrenza.
Nato parecchio tempo dopo rispetto al giornalismo, il
cinema ha saputo cogliere fin dai suoi primi passi il ruolo
cruciale che il sistema dell’informazione svolge nella società,
e forse anche per questo ha presentato la figura del
giornalista nelle sue più diverse declinazioni. Raffigurato
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come reporter o detective, militante o cinico, provocatore o
profittatore, testimone imparziale o interprete partigiano,
ora eroe ora traditore, grazie a tali descrizioni lungo la
storia del cinema è possibile seguire un percorso che
commenta a suo modo la maniera in cui le diverse società si
rappresentano alla ricerca dell’informazione e del vero. Tale
ricerca resta uno dei diritti e dei bisogni fondamentali
dell’uomo moderno, anche se la questione si è complicata
nel corso del ventesimo secolo, con la progressiva perdita di
fiducia che la stampa ha subito presso la collettività e con il
divenire dell’informazione sempre più un fenomeno
audiovisivo – fatto che ha reso sempre più confusa la
frontiera tra cinema e giornalismo.
D’altro canto, alla nascita del cinematografo quotidiani e
periodici adoperano toni pieni di meraviglia e entusiasmo
nel tessere le lodi della nuova invenzione; presto le loro
colonne si riempiono sempre più di articoli, recensioni,
storie riguardanti la vita dei suoi protagonisti, e una dopo
l’altra prendono vita pubblicazioni specializzate: una volta
entrato, il cinema non uscirà più dalle pagine dei giornali.
Nei periodici le sezioni che ospitano la cronaca rosa sono
spesso dedicate ai professionisti dello spettacolo
cinematografico: esse contribuiscono a costruirne il mito
fino a farli diventare divi e a volte quasi divinità. Altre volte,
di questi eroi di cellulosa vengono resi pubblici invece vizi e
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difetti, questioni private che dovrebbero rimanere tali. Ma
anche questa è pubblicità, e il mondo del cinema impara
ben presto a sfruttare anche quella negativa, addirittura
favorendola in diverse occasioni: dai tempi d’oro di Via
Veneto, attori e colleghi vengono esposti come manichini in
vetrina in ogni occasione possibile.
Un particolare terreno di confronto fra cinema e altri
media è quello molto specifico della critica cinematografica,
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attività inevitabilmente “impura” in quanto si situa nel
punto di tensione fra le esigenze proprie del giornalismo e
quelle che caratterizzano un impegno estetico. Esercitata
infatti in ambito giornalistico, la critica utilizza linguaggi e
procedimenti enunciativi del giornalismo, ma prevede un
giudizio di gusto necessariamente singolare (anche se
emesso secondo criteri professionali) poiché prende in
considerazione il cinema come arte e non soltanto come
industria, divertimento o medium. Al contrario del
giornalista “classico”, che tende a sparire nel collettivo che
costituisce un giornale, il critico si esprime quindi per
definizione in prima persona singolare: in campo estetico
non esistono punti di vista collettivi.
Il rapporto tra i due mondi della stampa e del cinema è
stato così intenso che ha indotto alcuni studiosi a parlare di
un vero e proprio genere cinematografico, il “newspaper
movie”, nel quale i mass media si fanno luogo narrativo per
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eccellenza, e l’informazione e i suoi linguaggi da protagonisti
divengono tipologie interpretative.
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Lo scrittore e studioso americano Richard R. Ness,
consapevole che il personaggio del giornalista può apparire
in film che spaziano in generi differenti tra cui il western, il
film bellico, la commedia romantica e anche il musical,
sostiene che volendo definire il genere del newspaper
movie, bisogna prima distinguere tra film in cui sono
presenti personaggi-giornalisti, e film che sono incentrati sui
problemi legati alla professione giornalistica e al ruolo della
stampa nella società. Tra questi ultimi sarebbe possibile
secondo lo studioso identificare una formula specifica del
genere, costante in un’ampia serie di opere nonostante le
inevitabili varianti presenti in qualsiasi genere
cinematografico – differenze di stili e toni, ma anche
riguardo alle rappresentazione della stampa, che può essere
positiva o negativa. Ness sostiene che il modello è
identificabile in base ad una serie di elementi caratteristici,
codici stabiliti e un ordine sociale definibile in base a
caratteristiche riguardanti: gli aspetti iconografici
(l’abbigliamento e gli accessori, l’ambientazione, i dialoghi
rapidi e la sensazione di attività ininterrotta ecc…), la
caratterizzazione dei personaggi (individui isolati anche nella
vita privata e sociale, che nel corso del film raggiungono
una maturazione da una posizione di indifferenza o
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innocenza a una di consapevolezza e impegno), e
soprattutto il modello conflitto/risoluzione del conflitto
proposto – alla cui origine si trova comunque la ricerca della
verità, vera forza motrice dei film giornalistici. Lo scontro,
fisico ma soprattutto ideologico, può essere esterno (ad
esempio, con un individuo o un’istituzione che mira a tenere
nascosto qualcosa o manipolare la verità) o interno
all’ambiente giornalistico. Quest’ultimo tipo di conflitto è
generalmente messo in scena attraverso il confronto fra il
cronista e il suo direttore, momento spesso nodale del film
in quanto vi emerge il disaccordo sulla gestione delle notizie
e sulla questione della verità che divide i due livelli della
gerarchia di un giornale. Molti degli aspetti caratteristici di
questo genere, sottolinea Ness, con il tempo si sono
modificati: l’abbigliamento e l’aspetto del giornalista, per
esempio, inizialmente trasandati quasi a sottolineare
l’indipendenza del cronista e la sua indifferenza per
considerazioni puramente estetiche, sono diventati più
raffinati con l’apparire degli anchorman televisivi e degli
inviati speciali. Altri elementi sono invece rimasti più stabili,
come l’aspetto visivo e sonoro dell’immancabile redazione,
luogo privilegiato di ambientazione del newspaper movie.
Con l’affermarsi dell’informazione televisiva (e delle
concentrazioni delle proprietà delle imprese mediali) cambia
anche l’immagine della stampa e della sua influenza sulla
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società: da sempre relazione di amore-odio, con il tempo il
rapporto tra le due pende sempre di più verso la sfiducia
reciproca.
Il newspaper movie è un genere sicuramente assai più
diffuso nel mondo anglosassone e americano in particolare
che in quello italiano. Negli Stati Uniti infatti la stampa è
considerata sotto un’ottica particolare, e la sua libertà è uno
dei principi fondamentali della Costituzione (vi ha trovato
posto già nel 1791, menzionata nel Primo Emendamento);
viene considerata uno dei poteri fondamentali delle
comunità, anzi, una forza salvifica, poiché in grado di
bilanciare gli altri poteri democratici. Anche per questo,
nella cinematografia hollywoodiana le pellicole sulla stampa
sono diverse centinaia, compaiono molto prima del sonoro
(tra i primi, New York Journal’s War Issue - 1898, e John D.
and the reporter - 1907) e coprono l’intero arco della storia
del cinema fino ai nostri giorni: tra le pellicole più recenti,
Insider – Dietro la verità (The insider, 1999) di Micheal
Mann e Veronica Guérin – Il prezzo del coraggio (2003) di
Joel Schumaker.
Anche nella cinematografia di tradizione europea appaiono
spesso figure di giornalisti, ma lo sguardo nei loro confronti
sarà sempre diverso da quello hollywoodiano: non troviamo
reporter intraprendenti e interventisti nella vita sociale,
nemmeno quando la Nouvelle Vague negli anni Sessanta
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apre la strada ad un nuovo cinema che porta ad una nuova
considerazione del giornalista. In quel periodo sparisce
infatti dagli schermi il giornalista da belle époque, altero e
nobile, e subentra invece un tipo che non riesce a restare
impassibile a ciò che gli accade intorno (Vivere per vivere –
Vivre pour vivre, di Claude Lelouch, 1967), e che si adopera
concretamente per cambiare la situazione. Ma a differenza
dei colleghi americani, i giornalisti della cinematografia
europea quando agiscono lo fanno per motivi squisitamente
politici, che vanno oltre la loro professione (nel caso
americano, invece, quest’ultima è spesso in se stessa una
missione). Nel cinema europeo non solo il mestiere che
svolgono è tutto sommato secondario rispetto alle battaglie
che devono condurre, ma più realisticamente troviamo
maggiori sfumature nella loro caratterizzazione, e i cronisti
impegnati e quelli corrotti sono due facce della stessa
medaglia.
Nel cinema italiano la figura del giornalista è stata
piuttosto rara, escludendo le commedie troppo
disimpegnate per essere rilevanti nella nostra analisi. Ma vi
sono state alcune interessanti eccezioni, tra le quali
Professione: reporter di Michelangelo Antonioni (1975) e
Sbatti il mostro in prima pagina di Marco Bellocchio (1972).
Tale assenza negli ultimi anni è stata però colmata da
produzioni a volte anche di un certo valore e di forte
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significato politico, nelle quali il giornalista è una figura
davvero centrale: Il muro di gomma di Marco Risi (1991), e
i meno riusciti Vajont di Renzo Martinelli (2001) e Ilaria Alpi
– Il più crudele dei giorni di Ferdinando Vicentini Orgnani
(2003).
Che lo considerino genere a sé o sottogenere del noir
(come molti lo ritengono, dato che entrambi sono
caratterizzati dalla ricerca di un’altra verità possibile oltre
l’evidenza dei fatti), gli studiosi sono concordi nel sostenere
che il newspaper movie racconta di solito la ricerca della
verità da parte di un giornalista, e attraverso tale tensione
coniuga l’idea astratta della ricerca del Vero con quella del
ruolo svolto dai giornali nella costruzione di una società
moderna e civile. In questo l’arte del cinema e il giornalismo
d’inchiesta hanno molto in comune: entrambi possono
mostrare la realtà che è intorno a noi, con un procedimento
identico di ri-costruzione del mondo che è sempre
un’operazione soggettiva e parziale, ma che se sviluppato
con onestà può aiutarne la comprensione, anche se
entrambi possiedono solo una “metà” della verità: l’altra, è
nelle mani dello spettatore, in un caso, e del lettore,
nell’altro. Se l’inseguimento della verità (aspirazione e
diritto fondamentale dell’uomo moderno) ha portato cinema
e stampa ad un incontro “naturale”, non si può dire che
quest’ultimo sia sempre stato positivo o sereno: Hollywood
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che a volte ha riprodotto e amplificato le mitologie intorno
alla stampa, altrettante volte l’ha presentata sotto un’ottica
severamente critica.
Capolavoro e archetipo di questa messa in discussione,
per quanto non sia stato il primo della serie, è
universalmente riconosciuto Quarto potere (Citizen Kane) di
Orson Welles. La famosa pellicola del 1941 è infatti una
straordinaria macchina critica, che combina differenti livelli:
un attacco al modello reale che ha ispirato il personaggio di
Kane (il magnate della stampa William Randolph Hearst, che
tenterà a più riprese di bloccare il film), la critica al rapporto
proprietà/individuo e al funzionamento dei mass media -
prima di allora considerati soprattutto un fattore di libertà
(Kane alla fine non riesce più a controllare le sue
manipolazioni, né il proprio potere o le compromissioni con
il potere politico) -, una riflessione sul nesso tra la notizia e
la sua falsificazione, e soprattutto una messa in discussione
radicale dell’ideologia del percorso lineare verso il Vero e
della fiducia in una verità raggiungibile semplicemente
continuando a tendere verso di essa (la stessa struttura
labirintica dell’opera, e gli enigmi che restano non svelati,
mettono in discussione tale certezza e anche la
“trasparenza” della messa in scena classica).
“Così come la sceneggiatura, la forma cinematografica di
Quarto potere [l’uso del grandangolo e del piano sequenza,
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il lavoro sulla profondità di campo, il passaggio tra immagini
di natura diversa, i giochi sulla relazioni fra suono e
immagine] è esemplare della volontà di mettere in crisi il
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film “giornalistico” come genere ideologico”.
All’opposto, la figura del giornalista paladino della
giustizia, per quanto ripetutamente messa in discussione,
risorge con una certa regolarità nella storia del cinema,
soprattutto nella cinematografia statunitense. Due pellicole
americane (entrambe del 1952) occupano un posto di rilievo
tra gli altri film della categoria: L’Ultima minaccia (Deadline
U.S.A., di Richard Brooks), appassionata difesa del quarto
potere, e Park Row, del regista Samuel Fuller, che da
giovane fu anch’egli giornalista.
Ma il prototipo (anch’esso non in senso cronologico) di
questo versante del newspaper movie, che è spesso
sconfinante nella mitologizzazione del giornalismo e dei suoi
protagonisti, è da molti considerato Tutti gli uomini del
Presidente (All the President’s Men) di Alan J. PaKula, del
1976. Quello che rende affascinante il film – che si riallaccia
appunto alla tradizione di un giornalismo democratico e
redentore, interamente votato alla denuncia degli abusi del
potere - è la sua costruzione narrativa: vi viene ricostruito il
procedimento metodico di una vera inchiesta, e più
precisamente di quello che è considerato uno dei migliori
esempi del giornalismo investigativo americano, il
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cosiddetto “Caso Watergate”. La pellicola ci permette infatti
di seguire i due giornalisti del Washington Post Carl
Bernstein e Bob Woodward (nel film, Dustin Hoffmann e
Robert Redford) nel loro impegnativo lavoro di ricerca di
informazioni riguardo al collegamento tra la Casa Bianca e il
caso Watergate e al coinvolgimento del presidente Nixon
nella vicenda che portò al suo impeachment.
Dopo Tutti gli uomini del Presidente, secondo alcuni critici,
non vi saranno altri film analoghi: tra le sue scene, il
giornalista americano avrebbe combattuto la sua ultima
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vera battaglia da autentico eroe, paladino della giustizia
che seduce la coscienza popolare e genera mito.
Tra i due poli del genere le sfumature potrebbero e
dovrebbero essere tante: il mondo dell’informazione, oltre
che un servizio alla comunità, è anche una realtà economica
e imprenditoriale, professione portata avanti non da santi o
eroi ma da uomini, umani (e pertanto fallibili) nei loro vizi e
virtù. Eppure, le pellicole che restituiscono al giornalista la
sua complessità descrivendolo nelle sue molteplici
sfaccettature, come un individuo che si interroga sul
fondamento etico della sua attività ma poi magari sbaglia
ugualmente, sono poche: tra le quasi mille pellicole sul
giornalismo che affollano la storia del cinema, si contano
praticamente sulle dita delle mani quelle che offrono
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un’immagine non stereotipata e verosimile sotto questo
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aspetto.
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L’ex reporter Bill Mahon sostiene per esempio che
nell’arco dei suoi molti decenni l’intera produzione
hollywoodiana presenta fondamentalmente solo quattro
stereotipi del giornalista: i “santi”, le “figurine”, i santi “con
l’aureola incrinata”, i “mostri”.
I “santi”, figure abbastanza rare (un esempio, i due
giornalisti di Tutti gli uomini del Presidente), sono sempre
buoni e onesti, animati da intenzioni più che nobili ed
eticamente scrupolosi. I giornalisti “figurina” si muovono
invece in gruppo, accerchiano la “vittima” gridando e
cercando di sovrastarsi a vicenda per bombardarla di
domande. Sono funzionali all’avanzamento della storia: una
volta assolto tale compito, scompaiono dal film. I giornalisti
appartenenti al terzo stereotipo, i “santi con l’aureola
incrinata”, sono più frequenti dei loro consimili angelici, ma
commettono errori e infrangono norme per ottenere le
informazioni, per quanto siano ugualmente animati da
buone intenzioni. Sono queste le figure più umane dei film
giornalistici americani, purtroppo non così frequenti come
Mahon s’illude. Infine, egli individua la categoria dei
“mostri”: personaggi spietati senza alcuno scrupolo, come
quello interpretato da Kirk Douglas in L’asso nella manica
(Ace in the hole, 1951) di Billy Wilder.
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Se è vero che la stereotipizzazione del giornalista è
rimasta simile nel tempo, e per quanto sia sbagliato pensare
che ci siano da una parte un cinema classico che glorifica il
giornalista come eroe positivo e dall’altra un cinema
“moderno” che si limita a criticarlo, è certo però che negli
ultimi anni la rappresentazione del giornalista è peggiorata,
e sono sempre più numerosi i film che mostrano reporter e
colleghi sempre più cinici e privi di scrupoli, animati dalla
tensione verso la notorietà e guadagni vertiginosi. Film
come Salvador (1986) e JFK – Un caso ancora aperto (JFK,
1991) di Oliver Stone, Il falò delle vanità (The bonfire of
Vanities, di Brian De Palma, 1990), Eroe per caso (Hero, di
Stephen Frears, 1992) o Bob Roberts (di Tim Robbins,
1992), mostrano una stampa che non rivela più la realtà
bensì la crea, trascinata dagli aspetti più frivoli e superficiali
e agilmente manipolata dai potenti, e giornalisti egocentrici
e iperambiziosi, calcolatori capaci di ogni bassezza.
Complice l’emergere della televisione e dei suoi nuovi
modelli di informazione (nella maggioranza dei casi,
soprattutto negli Stati Uniti, essa ha certamente
rivoluzionato il giornalismo, e non in positivo), i giornalisti
vengono dipinti come un’élite per la quale l’informazione
non è un fine o una missione, ma un semplice mezzo e
strumento per raggiungere e mantenere il potere, e
mostrati sempre più di frequente nel migliore dei casi come
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ficcanasi e nel peggiore come una categoria che calpesta
con impudenza e arroganza l’uomo qualunque per il quale
un tempo si batteva. In questo Hollywood si dimostra
attenta non solo alle trasformazioni socioeconomiche e
politiche della stampa e della nazione in generale, ma anche
ai mutamenti nella percezione popolare della collocazione
del “quarto potere” nella società.
1.2 Tra cinema e giornalismo: gli “ibridi”
La raffigurazione del giornalista e dei professionisti
dell’informazione non è l’unica maniera in cui si è declinato
il rapporto tra cinema e stampa: la loro interazione si è
esplicata anche in diverse forme di commistione, opere “a
cavallo” fra i due mondi e con caratteristiche di entrambi:
quando viene fatta informazione attraverso il mezzo
cinematografico (per mezzo dei cinegiornali e a volte dei
documentari), o nel caso di produzioni nelle quali il cinema
si appropria degli strumenti comunicativi e dei meccanismi
del giornalismo, come nei film-inchiesta o nei film-
reportage.
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1.2.1 Il documentario (e dintorni)
All’inizio erano i Lumière. L’invenzione del cinematografo,
per convenzione storica attribuita ai due fratelli francesi,
nasce come strumento di registrazione del reale ed è figlio
del progetto fotografico che assilla tutto il diciannovesimo
secolo, il quale aspira appunto a riprodurre sempre più
fedelmente i movimenti del mondo. Dalla sua nascita il
cinema presenta due anime, due facce di una stessa
medaglia che differiscono per forma ma non per natura
(come invece molti hanno sostenuto): quella “spettacolare”
risalente a Georges Meliès e che viene chiamata di finzione,
e quella realistica - “obiettiva” - che appare con le proiezioni
delle “vedute” dei Lumière e dei loro operatori. In realtà la
contrapposizione è forzata, e l’antinomia è solo apparente:
non solo il realismo dei Lumière è relativo (come
testimoniano gli effetti di rallentamento e accelerazione
nelle proiezioni delle loro pellicole), ma anche perché lo
stesso Meliès attinge al territorio dell’informazione
ricostruendo i grandi avvenimenti della sua epoca (guerre,
eruzioni vulcaniche, l’affaire Dreyfus).
Le oltre 1422 vedute Lumière, chiamate anche “temi
d’attualità” o “attualità filmate” consistevano in una serie di
quadri isolati e scontornati che mostravano paesaggi, ma
anche grandi città e quella borghesia nel pieno della propria
espansione finanziaria e sociale della quale i Lumière sono
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