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CAPITOLO I:
Introduzione allo studio della preterintenzione
1: Le origini storiche: il principio “qui in re illicita versatur
tenetur etiam de casu”
Sarebbe impossibile impostare un discorso sui problemi attuali
della responsabilità preterintenzionale senza conoscerne le origini
storiche e il contesto di riferimento all'entrata in vigore del nostro
codice.
Non va dimenticato che la struttura che i delitti preterintenzionali
(intendendosi i delitti in cui l'evento più grave causato dalla
condotta di base non è voluto dall'agente) possedevano nell'epoca
illuministica ha influenzato in maniera decisiva la nostra
codificazione e che la giurisprudenza fino ai giorni nostri ha
continuato a dare applicazione dell'istituto preterintenzionale
secondo canoni potremmo dire “antichi” e poco in sintonia col
nuovo dettato costituzionale e la giurisprudenza della Corte
Costituzionale.
Il principio di origine canonistica “qui in re illicita versatur tenetur
etiam de casu” si traduce in campo criminale in quello del cd.
volontario in causa1: l'omicidio è imputabile alla volontà
dell'agente anche quando egli, pur avendone la possibilità, non ha
rimosso le cause determinanti della morte: se ciò richiede
negligenza quando egli agisce in ambito lecito, il semplice fatto
che agisca in ambito illecito (cioè tenga una condotta che deve
evitare in quanto tale) rende l'evento a lui imputabile: chi volle la
1
S. TOMMASO D'AQUINO, Summa Theologica, Parte I, Tomo 2, p. 497, in
TAGLIARINI, I delitti aggravati dall'evento, Padova, 1979, p. 74
2
causa illecita volle anche l'evento illecito.
Un primo addolcimento di tale rigorosissimo principio troviamo in
quegli autori2 che, ai fini dell'imputazione dell'evento ulteriore,
richiedevano che il delitto commesso tendesse verosimiliter
all'evento, indicandosi col termine la direzione e potenzialità lesiva
del delitto commesso; altri3 richiedevano in ogni caso che
sussistesse la colpa. Si arriva così alla teorizzazione del dolo
indiretto, che presuppone la volontà di un atto oggettivamente
rivolto a creare pericolo per la vita umana, da cui segua
causalmente la morte.
Il principio in questione viene ulteriormente specificato dagli
studiosi di area tedesca4 i quali richiedevano, ai fini
dell'imputazione dell'evento più grave non voluto, che l'autore
sapesse, o dovesse sapere, che la morte non voluta poteva
facilmente seguire all'azione o all'omissione compiuta con
l'intenzione di nuocere alla vittima: il brocardo latino veniva così
amputato del suo inciso finale richiedendosi un requisito, seppur
minimo, di prevedibilità soggettiva; inoltre la pena veniva
diminuita. Si deve a Feurbach5 l'elaborazione del principio della
“culpa dolo determinata”: chi agisce in una sfera illecita non può
non rispondere delle conseguenze che, secondo le leggi della natura
e i principi della probabilità, derivano dalla sua azione, anche se
non volute: l'imputabilità si fonda su un rimprovero per colpa, ossia
per negligenza, anche se si tratta evidentemente di un concetto di
colpa presunta per essersi il reo dimostrato negligente col semplice
2
ALBERICO DA ROSCIATE, Super statutis, III, 1497, n. 59, in TAGLIARINI, I
delitti, cit., p. 77
3
FARINACIUS, Responsorum criminalium, ediz. Roma , Libro I, p. 168, in
TAGLIARINI, I delitti, cit., p. 78
4
CARPZOV, Practica nova rerum criminalium imperialis Saxonica, 1739, I, n. 15 e
ss.; BOHMER, Elementa jurisprudentiae criminalis, 5 ediz., 1757, I, par. 43 e II, par. 202, in
TAGLIARINI, I delitti, cit., p. 82
5
FEUERBACH, Lehrbuch des peinlichen Rechts, 5 ediz., 1826, par. 19, in
TAGLIARINI, I delitti., cit., p. 86
3
fatto di agire in un ambito illecito.
Sappiamo essere per i maggiori illuministi italiani6 la pena uno
strumento di difesa sociale: in quest'ottica poco importa che il
danno che la minaccia della pena vuole prevenire sia stato causato
con dolo o con colpa, o che sia conseguenza non voluta: la pena
svolgerà al meglio la sua funzione se la sua entità non dipenderà
dal grado della colpevolezza, bensì dal danno prodotto dal delitto,
proprio perché imporrà al reo di considerare quelle che possano
essere le conseguenze ulteriori della sua azione, distogliendolo
quindi dal commettere delitti rispetto ai quali la conseguenza
ulteriore possa apparire astrattamente prevedibile; paradigmatico
pare l'esempio7 del mandante a bastonare (ossia a compiere un
semplice delito di lesioni) che si asterrà se avrà da temere
l'eventuale morte da lui non voluta.
L'impronta dell'in re illicita versari si riflette in maniera evidente
nei progetti di codificazione preunitari. Si veda il progetto di
codice penale per la Lombardia: “Non anderanno queste (azioni od
omissioni) esenti d'imputabilità, sebbene l'autore non avesse
specialmente divisato il male che si è derivato, qualora fossero
dirette a qualche altro reo disegno”.
Addirittura qui scompare qualsiasi considerazione della
prevedibilità! Così anche il Progetto di codice penale per il regno
d'Italia (1807) e la legge sugli omicidi della Repubblica italiana
(1804) equiparano totalmente l'evento non voluto ed addirittura
imprevedibile a quello voluto: l'unico correttivo ispirato alla logica
della prevedibilità è rinvenibile nel progetto di codice penale per il
Regno d'Italia dove si parifica la morte del neonato, conseguente
all'abbandono, all'infanticidio solo qualora l'esposizione sia stata
6
FILANGERI, Scienza della legislazione, Delle leggi criminali, vol. III, 1816, p. 188;
ROMAGNOSI, Genesi del diritto penale, in Opere di G. D. Romagnosi a cura di A. De Giorgi,
vol. VII, Scritti di dir. Pen., 1874, p.76 e ss., in TAGLIARINI, I delitti., cit., p. 92 e ss.
7
ROMAGNOSI, Discorso tenuto hella quarta seduta della Commissione sul progetto
di Codice penale il 10 dicembre 1808, in appendice a Genesi del diritto penale, cit.
4
“fatta in modo tale che presumibilmente (l'infante) dovesse
morire”, mentre è punito con una pena inferiore a quella per
l'omicidio volontario quando l'esposizione “sia fatta in modo che
l'infante possa facilmente essere raccolto”.
Risulta evidente come il principio “qui in re illicita versatur tenetur
etiam de casu” attraversò il periodo dell'illuminismo giuridico
senza subire alcun tipo di mitigazione.
Proseguendo nella rapida disamina dei codici preunitari possiamo
individuare tre diverse soluzioni in relazione all'evento non voluto:
1) soluzione del dolo indiretto: si equipara la responsabilità per
l'evento non voluto a quella per l'evento voluto con una
semplice diminuzione di pena quando l'evento non voluto
fosse non prevedibile o non facilmente prevedibile (codice
delle Due Sicilie e codice Sardo-Piemontese)
2) individuazione di un tipo generale o delle figure autonome e
particolari di delitti preterintenzionale, punite con pena
inferiore a quella prevista per l'evento causato dolosamente,
fondate sul mero nesso di causalità materiale e con
considerazione della prevedibilità solo in funzione di una
diminuzione di pena (codice Toscano)
3) imputazione dell'evento più grave non voluto solo se
commesso con colpa, con aumento di pena per tale delitto
colposo rispetto alla pena prevista per il reato che si voleva
compiere (Regolamento Gregoriano).
Si arriva così alla prima codificazione unitaria, il Codice
Zanardelli, che prevede, esattamente come l'odierno, una
disposizione sulla causalità (art. 45): “Nessuno può essere punito
per un delitto, se non abbia voluto il fatto che lo costituisce, tranne
che la legge lo ponga altrimenti a suo carico, come conseguenza
della sua azione od omissione”.
5
Pur senza una espressa distinzione tra dolo e colpa, dalla Relazione
accompagnatoria al progetto del 1887 e dalla Relazione
Ministeriale risultava evidente come fosse stata configurata una
responsabilità di base, quella dolosa, che presupponeva la
coscienza e volontà di azione ed evento, e due forme di
responsabilità speciali (ossia di volta in volta previste da singole
fattispecie della parte speciale del codice): quella colposa, quando
l'evento non voluto è cagionato per “inavvertenza, imprudenza,
negligenza, imperizia...” (formula che si trova nell'omicidio
colposo estendibile agli altri delitti colposi), e quella in cui l'evento
“non voluto o che poteva non essere voluto” si presenta come
“conseguenza diretta o ulteriore di un delitto doloso”. La
distinzione tra le due risulta affatto evidente: ai fini
dell'imputazione dell' evento non voluto come semplice
conseguenza dell'azione od omissione non è dato alcun rilievo alla
prevedibilità, ed il reo ne risponde senza che gli si possa muovere
un addebito di colpa: è una responsabilità sine dolo et sine culpa,
basata sul semplice nesso di causalità materiale. Esaminando la
fattispecie di cui all'art. 368, (omicidio preterintenzionale), si
specifica al secondo comma che il reo risponde (seppur con pena
ridotta rispetto all'ipotesi base, a sua volta punita meno gravemente
rispetto all'omicidio doloso) dell'evento non voluto anche quando
esso sia il prodotto di concause preesistenti a lui ignote o di
concause susseguenti da lui non dipendenti (con ciò tenendolo
responsabile anche delle conseguenze del tutto casuali). Risulta
evidente l'autonomia di tale fattispecie rispetto a quella
dell'omicidio doloso.
Si può quindi dire che il codice, tramite gli art. 45 e 368,
disciplinasse esplicitamente sia il delitto preterintenzionale che
quelli aggravati dall'evento, entrambi accomunati dal fatto che,
agendo in ambito illecito, si fosse dato causa ad un evento diverso
e più grave senza che rilevasse la sua prevedibilità né, tantomeno, il
6
fatto che fosse stato tenuto un comportamento cauto e diligente per
evitarne la causazione: rispetto ad alcuni delitti aggravati
dall'evento la sovrapposizione non era totale, perchè mentre nei
primi l'evento più grave poteva anche non essere disvoluto o
addirittura voluto (e quindi operare come circostanza aggravante),
requisito ontologico del delitto preterintenzionale era appunto la
non volontà dell'evento ulteriore: rispetto ad altri, dove l'evento
non era voluto, la sovrapposizione era al contrario completa e già
si metteva in luce in dottrina8 come questi avessero natura
preterintenzionale e rappresentassero quindi una categoria
autonoma non circostanziata.
Prima di addentrarci allo studio dello stato attuale dei problemi che
caratterizzano la figura del delitto preterintenzionale, avendo a
riferimento il nuovo codice e la Costituzione repubblicana, è
opportuno sottolineare come il quadro appena delineato fosse
assolutamente speculare a quello pre-illuministico, con perdurante
ed assoluta validità del principio “qui in re illicita versatur tenetur
etiam de casu”.
2: il principio di colpevolezza: il problema della sopravvivenza
della responsabilità oggettiva nel nostro ordinamento dopo la
sentenza 364/1988 C.Cost
Il percorso che ha portato il nostro ordinamento all'affermamazione
del principio “nulla poena sine culpa” è stato lungo e travagliato e,
per certi importanti versi, non può ancora dirsi concluso: l'entrata
in vigore della nuova Costituzione Repubblicana e l'importanza da
essa attribuita alla persona in quanto tale non hanno impedito che
per un lungo periodo le ipotesi di responsabilità oggettiva presenti
8
FINZI, Il delitto preterintenzionale, Torino, 1925, p. 179 e ss., in TAGLIARINI, I
delitti, cit., p. 120
7
nel sistema venissero considerate del tutto compatibili con essa: il
principio della responsabilità personale sancito dall'art. 27 Cost.
veniva ritenuto non in contrasto con la responsabilità del soggetto
che fosse legato all'evento dal solo nesso di causalità materiale;
basti a riguardo notare come l'art. 27 Cost. venisse ancora
interpretato in chiave assolutamente restrittiva, come divieto di
responsabilità per il fatto altrui, dalla sentenza della Corte
Costituzionale9 in cui si legge che “L'art. 27, c. 1, affermando il
carattere personale della responsabilità penale, sancisce il divieto
di responsabilità per fatto altrui e non riguarda le ipotesi di
responsabilità oggettiva”. In altri casi il problema è stato
sostanzialmente eluso dalla stessa Corte,10 affermando l'estraneità
della responsabilità oggettiva rispetto alla questione sottoposta al
suo esame: ha ritenuto infatti che nell'art. 588, c. 2 non ricorra una
ipotesi di responsabilità oggettiva in quanto “il soggetto che
partecipi volontariamente ad una rissa non ignora di associarsi ad
una condotta suscettibile di gravi sviluppi per la incolumità
personale”. E' evidente come la Corte abbia voluto preservare le
istanze di prevenzione generale che sono alla base del'istituto della
responsabilità oggettiva e che, ancor prima, fondavano il principio
del versari: ma un diritto penale moderno che operi in un sistema
liberal-democrtatico e garantista non può fare della persona un
semplice strumento di politica criminale per fini di prevenzione
generale.
Occorre notare che da alcuni Autori11 l'istituto della responsabilità
oggettiva è stato ritenuto del tutto compatibile con l'art. 27 Cost.,
che non richiederebbe in alcun modo la sussistenza del dolo o della
colpa. Secondo questo orientamento restrittivo il suddetto articolo
vieterebbe soltanto la responsabilità per fatto altrui (già espressione
9
Corte Costituzionale, 11 maggio 1966, sentenza n. 42,
10
Corte Costituzionale 17 febbraio 1971, sentenza n. 21
11
PAGLIARO, Prinicipi di diritto penale, Parte generale, V ediz., 2003, p. 330 e ss.
8
della suddetta necessità di tutelare la persona umana da
strumentalizzazioni “disumane”) e non avrebbe alcun carattere
innovativo: del resto risulta chiaro come non si colga alcuna
sostanziale differenza tra imputazione del fatto altrui e imputazione
del fatto proprio, laddove quest'ultimo sia realizzato senza
partecipazione soggettiva, al di fuori di qualsiasi dimensione di
“controllabilità” da parte dell'agente; a rafforzare l'argomento
anche il terzo comma dell'art. 27 Cost. sulla risocializzazione del
reo: appare paradossale voler risocializzare un soggetto senza
tenere in alcuna considerazione il disvalore dell'azione legato al
suo atteggiamento soggettivo nella realizzazione del fatto:
chiarissima la Corte Costituzionale nella sentenza 1085/1988,
laddove si legge che “non avrebbe senso la rieducazione di chi,
non essendo almeno in “colpa” (rispetto al fatto) non ha certo
“bisogno” di essere rieducato”.
E' ormai pacifico in dottrina che il principio di colpevolezza vada
inteso come elemento del reato che introduce un criterio di
imputazione soggettiva in grado di esprimere differenti gradi di
“signoria” dell'uomo sull'avvenimento, “signoria” che spazia dal
dolo alla colpa incosciente, baluardo invalicabile della
responsabilità penale: la colpevolezza si configura così nella
possibilità di un giudizio di rimproverabilità del fatto al suo autore.
Un giudizio di rimproverabilità del fatto all'autore basato sul
criterio dell'imputazione soggettiva è coerente con una sintesi tra le
due “storiche” concezioni della colpevolezza: quella psicologica e
quella normativa. Sostenute entrambe da illustri Autori12, la prima
individua la colpevolezza nel nesso psichico tra l'agente ed il fatto
12
appoggiano la concezione normativa tra gli altri MUSOTTO, in Colpevolezza, dolo e
colpa, Palermo 1939, p.68; BETTIOL, Colpevolezza normativa e pena retributiva, in Annali
Triestini di Diritto, economia e Politica, 1943, p.126; sostengono quella psicologica tra gli
altri ALIMENA, Appunti di teoria generale del reato, Milano 1938, p. 39 e ss e
BELLAVISTA, Il problema della colpevolezza, Palermo, 1942, p. 74, in ANTOLISEI,
Manuale di diritto penale, Parte generale, XVI edizione, p. 324
9
esteriore (dolo o colpa), la seconda nel rapporto di contraddizione
tra la volontà del soggetto ed una norma: se da una parte la
concezione psicologica, pretermettendo il carattere antidoveroso
che la volontà deve possedere, non permette alcun rimprovero (una
volontà che non contrasti con un dovere non può costituire né dolo
né colpa), è altrettanto vero che la concezione normativa
all'opposto tende a ridurre l'elemento soggettivo ad un giudizio di
riprovevolezza per un contegno diverso da quello dovuto, giudizio
di riprovevolezza (o rimproverabilità) che si forma non già nella
psiche del reo, bensì in quella di colui che lo pronuncia, il giudice;
relegando il contenuto psichico della volontà in secondo piano,
questo orientamento non sembra considerare che, superata la logica
della “vendetta” pubblica, solo la produzione di un fatto
soggettivamente evitabile può giustificare la punizione.
Il giudizio di rimproverabilità del fatto al suo autore (principio di
colpevolezza) può a questo punto essere definito con la formula
usata da Antolisei13: “l'atteggiamento antidoveroso della volontà
che ha dato origine al fatto materiale richiesto per l'esistenza del
reato”.
Se la volontà del soggetto non è in grado di rappresentarsi il
disvalore di ciò che compie, la pena non si giustifica: la sentenza
364/1988 Corte Costituzionale presuppone esattamente questo
concetto.
Prima di questa storica sentenza la Corte era già intervenuta ad
ammorbidire il suo atteggiamento nei confronti della responsabilità
oggettiva con una sentenza del 1976,14che dichiarava l'illegittimità
costituzionale dell'art. 116 della legge doganale del 1940 e dell'art.
301 del d.p.r 43/1973, per contrasto con l'art. 27 Cost., sul rilievo
che “prescindono del tutto dalla valutazione dell'elemento
psicologico nella condotta del soggetto e comminano la confisca
13
ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Parte generale, sedicesima edizione, p. 325
14
Corte Costituzionale, 29 dicembre 1976, sentenza n. 259
10
delle cose destinate a commettere il reato senza tenere conto della
loro appartenenza(......).Nè può appagare la responsabilità
obiettiva che, ingiustamente posta a suo (dell'agente) carico, ha
dato causa a provvedimento di confisca di cose che, al proprietario
sottratte, hanno poi formato oggetto di violazione di norme
generali”.
Venendo ora all'esame della sentenza 364/1988, occorre
sottolineare come la Corte ravvisi due accezioni possibili per il
termine “colpevolezza”, l'una immanenente e l'altra trascendente il
sistema della legislazione ordinaria: la prima designa i requisiti
subiettivi della fattispecie previsti da ogni norma dell' ordinamento,
la seconda la dimensione costituzionale. Si tratta appunto di
individuare, attraverso un'interpretazione autonoma della
Costituzione, quali siano i requisiti minimi per l'imputazione senza
la previsione dei quali il fatto non può essere legittiammente
sottoposto a pena: fra questi la Corte individua “la possibilità di
conoscenza dell'illiceità del fatto commesso”. La Corte individua
nella dimensione garantistica del principio di colpevolezza un
necessario presupposto per un approccio coerente con la grande
area della responsabilità oggettiva: si legge infatti che “ove non si
ritenga di restringere la cd. responsabilità oggettiva “pura” alle
sole ipotesi nelle quali il risultato ultimo vietato dal legislatore non
è sorretto da alcun coefficiente subiettivo, va, di volta in volta, a
proposito delle diverse ipotesi criminose, stabilito quali sono gli
elementi più significativi della fattispecie che non possono non
essere “coperti” almeno dalla colpa dell'agente perchè sia
rispettato il disposto dell'art. 27, primo comma, Cost., relativa al
rapporto psichico tra soggetto e fatto(.......). Ed anche a proposito
dell'esclusione, nel primo comma dell'art. 27 Cost., del tassativo
divieto di responsabilità oggettiva va precisato che (ricordata
l'incertezza dottrinale in ordine alle accezioni da attribuire alla
predetta espressione) se nelle ipotesi di responsabilità oggettiva