CAPITOLO I: “INTRODUZIONE”
1.1 I MERCATI INTERNI DEL LAVORO: INTRODUZIONE AL CONCETTO
Secondo l’originaria accezione, il termine “Mercato Interno del Lavoro” indica un sistema di
gestione delle relazioni d’impiego basato su rapporti lavorativi stabili (nel tempo e nello
spazio) e su una preponderante allocazione interna della forza lavoro mediante promozioni a
livelli gerarchici superiori. Questo sistema si esplicita in regole e procedure amministrative,
spesso concertate dalle aziende con gli organi Statali e le organizzazioni sindacali di
rappresentanza, che all’interno di una data unità organizzativa governano la ripartizione delle
risorse umane, gli investimenti in addestramento e in formazione ed i caratteri della
retribuzione, permettendo così alle imprese di isolare le proprie decisioni in termini di salari e
livelli occupazionali rispetto alle forze esterne del mercato. Simili norme, che possono essere
più o meno formalizzate, rappresentano lo strumento principale, attraverso il quale il vertice
aziendale definisce i processi di assunzione e di licenziamento ed i livelli retributivi,
collegando questi a predefiniti percorsi di carriera.
Il concetto di mercato interno si distingue da quello di mercato esterno del lavoro in cui la
fissazione dei livelli salariali e l’allocazione della forza lavoro sono governati dalle forze di
mercato, ovvero dalla domanda e dall’offerta. I mercati interni e quelli esterni sono collegati
tra loro dai cosiddetti porti di entrata e di uscita, ovvero posti di lavoro in corrispondenza dei
quali si osservano gli spostamenti tra i due mercati. Il concetto di mercato interno non è di
facile delimitazione, in quanto concerne un complesso sistema di interazioni tra i lavoratori,
pratiche di gestione aziendale, vincoli di natura istituzionale e dinamiche del mercato esterno.
La concezione dei mercati interni del lavoro appena descritta è quella che emerge dalle prime
teorie sul tema nate tra gli anni Cinquanta ed i primi anni Settanta in un contesto industriale
dominato dalla logica produttiva di tipo fordista. Con il passaggio ad una produzione
industriale più moderna e più adatta ai cambiamenti che hanno investito il mercato dei
prodotti e la società contemporanea, anche la teoria dei mercati interni, per continuare a
rappresentare un valido strumento analitico ed interpretativo allo studio e allo sviluppo della
gestione delle risorse umane, ha la necessità di essere rinnovata e specificata secondo nuove
linee interpretative (Guidetti, 2001).
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1.2 UN CONCISO COMPENDIO
Nell’affrontare questo argomento, legato tanto al vecchio spirito fordista, quanto alle moderne
caratteristiche del sistema economico, ho ritenuto opportuno partire da un’accurata disamina
del contesto congiunturale di cui l’originaria teoria sui mercati interni è figlia. La trattazione
procederà, in un secondo tempo, con l’esposizione dell’approccio istituzionalista all’economia
del lavoro, nella cui ottica si inserisce la suddetta teoria. Verranno attentamente esaminate la
teoria della segmentazione dei mercati del lavoro e quella dei mercati interni del lavoro,
seguendo l’iniziale impostazione degli studiosi istituzionalisti. Successivamente saranno
analizzate le principali innovazioni che caratterizzano il sistema produttivo post-fordista e le
nuove esigenze che questo richiede in termini di organizzazione del lavoro. Saranno, di
seguito, esaminati i punti di incompatibilità tra la teoria dei mercati interni, nata in epoca
fordista e gli assunti teorici della nuova era industriale, per arrivare infine ad una previsione
relativa alle innovazioni che sarebbe necessario apportare alla concezione dei mercati interni,
affinché questi possano continuare a rappresentare un valido strumento di analisi delle attuali
strutture organizzative del lavoro.
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CAPITOLO II: “LE INCONGRUENZE DELLA CONCEZIONE
NEOCLASSICA DEL MERCATO DEL LAVORO”
2.1 L’HUMUS DELLE “PIONERISTICHE” TEORIE SUI MIL
Il tema dei mercati interni del lavoro (per brevità verranno di seguito indicati con l’acronimo
“MIL”) circola tra i sociologi e gli economisti sin dagli anni Cinquanta. In questo periodo il
modello produttivo ed organizzativo più diffuso nelle maggiori economie mondiali era
rappresentato dal sistema fordista, basato sulle teorie tayloristiche di divisione del lavoro in
mansioni semplici e ripetitive e caratterizzato dalla produzione in grande serie di beni
standard. Le imprese miravano a produrre volumi sempre più ampi di prodotti identici per
ridurne il costo unitario e pervenire così ad economie di scala.
Il modello fordista, soprattutto nei primi anni del suo sviluppo, prevedeva un’allocazione
della forza lavoro dettata prettamente dalle forze del mercato esterno, vale a dire, dalle
oscillazioni della curva di domanda e della curva di offerta. I salari non erano contrattati ma
imposti dalle forze di mercato e, di conseguenza, il loro livello era molto basso. Le condizioni
di lavoro erano insoddisfacenti ed il benessere del fattore umano e la sua formazione non
erano minimamente tenuti in considerazione. La qualità dei prodotti non era importante e,
grazie al massiccio abbandono dell’attività rurale ed agricola, le imprese potevano contare su
una grande quantità di manodopera dequalificata e a basso costo (Reyneri, 1996). Tutto
questo si traduceva in un livello molto elevato del saggio di rotazione della manodopera. Nel
1914 presso la Ford Motor Company questo saggio toccò addirittura il livello record del
370%: Ford si vide costretto ad assumere oltre 50.000 persone all’anno per riuscire a
mantenere un livello occupazionale medio che non raggiungeva le 14.000 unità (Brucchi -
Luchino, 2001).
Tuttavia già dagli ultimi anni della prima metà del secolo, qualcosa stava iniziando
progressivamente a cambiare. Nelle grandi imprese di tipo fordista, americane e non,
cominciavano a diffondersi regole per pianificare minuziosamente la collocazione della
forza lavoro ed i vari percorsi di carriera dei lavoratori. In questo modo le imprese si
isolavano volontariamente dal mercato esterno del lavoro. L’intenzione era di creare dei
percorsi di carriera interni, con sensibili aumenti retributivi legati alle promozioni, allo scopo
di trattenere all’interno dell’azienda i lavoratori e le loro competenze, formatesi nel corso del
rapporto lavorativo. Il ricorso al mercato esterno tramite nuove assunzioni, era previsto solo
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per i ruoli corrispondenti ai punti iniziali dei vari percorsi. Tutto ciò aveva contribuito a
formare dei veri e propri mercati interni del lavoro. Questo atteggiamento delle imprese destò
subito notevole interesse, soprattutto in quegli studiosi che non erano propensi ad accettare la
teoria economica neoclassica.
Il tema dei Mercati Interni del Lavoro, principale corollario della concezione del mercato del
lavoro segmentato, si inseriva infatti nell’ottica della teoria istituzionalista applicata
all’economia del lavoro, che vide la luce durante gli anni Cinquanta grazie ai contributi di
Dunlop e Kerr.
Il primo criticò con le sue opere la visione del mercato del lavoro in voga tra gli economisti
neoclassici, da lui definita come distorta (Dunlop 1957), mentre il secondo prese per primo in
esame il tema della segmentazione del mercato del lavoro, ovvero, della suddivisione dello
stesso in nicchie, ognuna delle quali avente una diversa dinamica di formazione dei prezzi ed
allocazione dei fattori. Kerr parlò, a tal proposito, di “balcanizzazione” dei mercati del lavoro
(Kerr 1954).
Sarà tuttavia necessario aspettare l’inizio degli anni Settanta e gli studi di Doeringer e Piore,
perchè il tema dei MIL possa diventare oggetto di una vera e propria teoria specifica.
La metodologia d’indagine istituzionalista si pone essenzialmente come un’alternativa alla
teoria economica neoclassica del mercato del lavoro. Per meglio comprendere le sue
dinamiche si rende, dunque, necessario affrontare un’attenta disamina del punto di vista
neoclassico.
2.2 LA TEORIA NEOCLASSICA DEL MERCATO DEL LAVORO: ASPETTI
ESSENZIALI E PRINCIPALI CRITICHE
L’approccio metodologico all’analisi economica del mercato del lavoro, dominante durante la
prima parte del Novecento, è senza dubbio quello rappresentato dalla teoria economica
neoclassica. Questa descrive il mercato del lavoro similmente a qualsiasi altro mercato dei
beni seguendo i principi della concorrenza perfetta. Secondo tale prospettiva, la tendenza
delle imprese ad assumere lavoratori minimizzando i costi e la propensione dei lavoratori a
ricercare il salario più conveniente conducono automaticamente il prezzo del bene lavoro,
considerato rigorosamente come un bene omogeneo, ad un livello di equilibrio che sancisce
l’incontro tra la domanda e l’offerta. È il principio del prezzo unico, secondo il quale beni o
servizi omogenei non possono che avere, in equilibrio, lo stesso prezzo. Affinché questa
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teoria possa però essere valida, devono verificarsi alcune importanti condizioni (Brucchi –
Luchino, 2001) :
Il mercato deve essere composto da un numero talmente ampio di lavoratori ed
imprese da rendere inutile qualsiasi tentativo di controllo dei prezzi.
I lavoratori e le imprese devono operare in condizioni di perfetta informazione.
Le imprese ed i lavoratori devono appartenere a categorie omogenee.
Non devono sussistere costi di mobilità e non devono esistere vincoli istituzionali
inerenti alla velocità di aggiustamento dei prezzi e delle quantità scambiate; ci deve
essere, in pratica, un’elevata flessibilità dei prezzi e dei salari.
Gli agenti attivi sul mercato devono agire come price-takers e, di conseguenza, non
possono influenzare né il prezzo di vendita dei prodotti né il livello dei salari.
In queste condizioni le opportunità di arbitraggio tra gli agenti vengono eliminate e si instaura
un solo salario su tutti i mercati (teoria del prezzo unico).
Come risulta evidente questo modello teorico di perfetta concorrenza si basa su ipotesi molto
rigide ed irrealistiche, che difficilmente possono cogliere la complessità reale del mercato del
lavoro e sottolineare le sue peculiarità rispetto ad altri mercati. Le varie analisi empiriche,
condotte negli anni, confermano questa tesi. Il mercato del lavoro è ben lontano dal poter
essere definito come perfettamente concorrenziale ed è, difatti, caratterizzato dalle seguenti
marcate imperfezioni:
Presenza di frizioni e asimmetrie informative che condizionano l’incontro tra
domanda ed offerta di lavoro nel tempo e nello spazio. Gli agenti non operano in
condizioni di informazione perfetta.
Presenza di attori collettivi ed Istituzioni come sindacati, associazioni imprenditoriali
o lo Stato che influenzano l’incontro tra domanda ed offerta. Di particolare rilevanza è
l’azione svolta dai sindacati, che ha effetti non soltanto sugli iscritti ma sulla quasi
totalità dei lavoratori. In particolare, nel nostro Paese, nonostante il tasso di
sindacalizzazione (numero di iscritti ad un sindacato) non superi il 40%, ben otto
lavoratori su dieci sono interessati da qualche forma di accordo collettivo siglato tra i
datori di lavoro e le organizzazioni sindacali.
Natura di contratto di impiego e non di contratto di scambio. Colui che vende il
bene-lavoro ne rimane in qualche modo in possesso, perché la fruizione del suo valore
d’uso da parte del datore di lavoro dipende da una prestazione continuata nel tempo da
parte del lavoratore.
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Natura incompleta ed implicita del contatto di lavoro. Lo scambio di una prestazione
lavorativa in cambio di una prestazione economica viene di solito sancito attraverso la
stipula di un contratto, che risulta incompleto nella definizione delle rispettive
obbligazioni e generico sulla durata della prestazione stessa. Si vengono così a creare
delle aspettative reciproche che non vengono espresse nel contratto, ma rimangono
implicite.
Forma multi-dimensionale del mercato del lavoro. Ciò non può essere considerato
come un organismo unico ed omogeneo ma come un sistema articolato in una pluralità
di mercati distinti suddivisi in segmenti non comunicanti tra di loro. Questa
segmentazione è dovuta alla presenza sul mercato di diversi gruppi di lavoratori con
caratteri personali, culturali e professionali differenti, che li portano a competere su aree
geografiche e per posizioni organizzative diverse, oltre che a ragioni di natura politica,
economica, razziale, sessuale e sindacale. Se la forza lavoro fosse omogenea e, di
conseguenza, se esistesse un unico mercato del lavoro, tutti i lavoratori potrebbero
accedere a tutte le opportunità occupazionali e non esisterebbe disoccupazione
involontaria. Al contrario sul mercato, anche in condizioni di equilibrio, si registra una
presenza di lavoratori disoccupati e di posti vacanti. Questo è da ascrivere alla presenza
di più segmenti di mercato e all’esistenza di anomalie, imperfezioni e frizioni che
impediscono al mercato di riassorbire completamente gli eccessi di offerta e di domanda.
La teoria neoclassica non è quindi in grado di spiegare la presenza delle evidenze empiriche e
dei fenomeni appena illustrati, ma si limita a descriverli semplicemente come se fossero
superflue e casuali imperfezioni di un mercato perfettamente concorrenziale. Per capire
meglio questo approccio può essere utile ricordare il contributo di Friedman (1953) che
rappresenta un esempio classico di analisi economica ortodossa. Secondo questo modello le
teorie economiche non devono necessariamente basarsi su assunzioni realistiche precisamente
contestualizzate poiché il loro obiettivo principale è di natura previsiva e non esplicativa,
pertanto non devono essere considerate né vere né false, ma come uno strumento da valutare
sulla base della sua capacità previsiva.
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CAPITOLO III: “LA SCUOLA ISTITUZIONALISTA”
3.1 CARATTERISTICHE DISTINTIVE DEL PENSIERO ISTITUZIONALISTA
L’approccio istituzionalista, al contrario di quello neoclassico, focalizza la propria attenzione
sulla spiegazione dei fenomeni economici, piuttosto che sulla loro previsione.
Nell’ambito economico l’istituzionalismo si sviluppa durante gli anni Cinquanta a partire dai
già citati contributi di Kerr e Dunlop. Successivamente questa scuola si lega ai nomi di
Doeringer, Piore ed Osterman. L’approccio istituzionalista non presenta molti elementi in
comune con i metodi di analisi convenzionali. Gli studiosi di questa corrente teorica si
impegnano ad individuare ed analizzare precisamente tutte le imperfezioni e le peculiarità del
mercato del lavoro trascurate dagli economisti classici, perseguendo così l’obiettivo di
osservare il mercato del lavoro anche da un punto di vista giuridico e sociale, oltre che
economico. Come sottolineato da Camuffo la scuola istituzionalista e, di conseguenza, tutte le
relative teorie come quella dei MIL hanno lo scopo principale di: “(…)bringing institutions
back into labor economics”(Camuffo, 2002). Lo studio del mercato del lavoro quindi non
deve e non può prescindere da un’accurata analisi dell’azione delle istituzioni sociali
considerate nella loro concretezza come ad esempio lo Stato, le istituzioni politiche o la
famiglia. Secondo questa teoria i presupposti irrealistici degli studi economici classici,
relativamente agli atteggiamenti delle imprese e dei lavoratori, non sono in grado di offrire
un’accurata e comprensibile spiegazione del funzionamento del mercato. Non è possibile
comprendere il mercato del lavoro unicamente tramite un’analisi dei comportamenti
ottimizzanti di ipotetici agenti economici che operano guidati da leggi di carattere universale.
La società moderna, e tutte le forme in cui essa si manifesta, è costituita da un complesso di
istituzioni, ossia di forme radicate di organizzazione e regolazione del comportamento
individuale ed associato. Con questo approccio gli studiosi istituzionalisti, partendo dai
fenomeni che si verificano nel mercato del lavoro, formulano una serie di ipotesi sui
meccanismi e le strutture che ne spiegano l’andamento. Iacobacci (1992) definisce questo
metodo come realista mentre Camuffo parla di:”Institutional realism”(Camuffo, 2002).
La loro analisi si caratterizza per una forte presenza di fattori esplicativi, vengono infatti
vagliati tutta una serie di elementi politici e sociali, di solito trascurati dagli studiosi classici,
che sono in grado di influenzare le relazioni tra lavoratori ed imprese. Questi fattori non
vengono considerati come semplici difetti del mercato ma come elementi essenziali per
comprenderne il reale funzionamento, dal punto di vista economico e sociale. Il filone
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istituzionalista è stato a volte criticato per aver fatto sovente ricorso a sistemazioni “ad hoc”,
che pur evidenziando aspetti contingenti e particolari del mercato, non sono riuscite a
connettere in un quadro di riferimento generale la domanda, l’offerta ed il prezzo del lavoro
(Cain 1976). In questo senso gli istituzionalisti hanno preferito descrivere, piuttosto che
spiegare, i particolari aspetti del mercato, rischiando spesso di degenerare in un empirismo
sterile, limitandosi ad una semplice descrizione di fenomeni, slegata da una solida intelaiatura
teorica. Il sorgere di questo aspetto problematico è favorito anche dalla complessità che
caratterizza l’analisi empirica per la varietà dei fattori su cui è fondata (economici, politici,
sociali, istituzionali..). Questa molteplicità di elementi rende problematica la definizione di
modelli statistici testabili universalmente, e determina un’attività analitica molto complessa. È
comunque innegabile il fatto che, grazie al contributo dell’istituzionalismo economico e
sociale, sia stato possibile comprendere tutta una serie di fenomeni non dominabili con altri
approcci come, ad esempio, la disoccupazione involontaria, i comportamenti discriminatori, la
formazione di segmenti non comunicanti dei mercati del lavoro, la rigidità verso il basso dei
salari e la teoria della job competition di Thurow(1975), che si contrappone alla wage
competition della teoria classica (Costa – Giannecchini, 1997).
Gli studi dei teorici istituzionalisti sono inoltre caratterizzati dall’adozione di particolari
metodi di ricerca differenti da quelli all’epoca convenzionali: interviste, studi dei casi, metodi
qualitativi di ricerca. Queste procedure spesso hanno richiesto un’osservazione dei fenomeni
indagati attiva e personale, di solito supportata da interviste aperte e non-strutturate con gli
attori economici. L’introduzione di questi metodi qualitativi, anche se ha destato non poche
perplessità, non è stata mai considerata come un indebolimento del rigore scientifico che ha
da sempre contraddistinto il metodo neoclassico. È stata, al contrario, valutata quale una
metodologia solida e sana, poiché le ipotesi che produceva, anche se non rispondevano a
precisi schemi di analisi economica, potevano essere convalidate da un’analisi comparata e
trasversale grazie all’insieme dei dati raccolti nelle diverse indagini empiriche compiute sul
campo.
3.2 TEORIA DEI MERCATI DEL LAVORO SEGMENTATI
Il primo studio riconducibile ad una concezione istituzionalista del mercato del lavoro è
rappresentato dal contributo di Kerr sulla cosiddetta “balcanizzazione dei mercati del lavoro”
(Kerr, 1954), in cui viene messa in luce l’esistenza di gruppi di lavoratori con differenti
caratteristiche e, di conseguenza, di opportunità lavorative. Da questa intuizione si svilupperà
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