Capitolo I
Prospettive della psicologia dell’invecchiamento
1. L’invecchiamento
¨ stato stimato che nell’antichità la speranza di vita alla nascita fosse intorno ai 20 anni
rispetto agli attuali 81. In Italia, attualmente gli over 65 sono il 20,1% della popolazione,
ma le stime prevedono che tale percentuale passi al 28,6% nel 2035 e al 32,7% nel 2060.
Nel 2060 si stima che in Europa gli over 65 saranno 505 milioni e che la percentuale
della popolazione di età pari o superiore agli 80 anni passerà dal 4,4% al 7,9% nel 2035
e al 12,1% nel 2060. L’aumento della speranza di vita e l’esigenza di comprendere i
cambiamenti correlati all’età sono stati il motore che, negli ultimi anni, ha dato una
spinta enorme agli studi e alla ricerca sull’invecchiamento. Si è così assistito a una sorta
di esplosione di conoscenze sulla vecchiaia e alla distinzione tra i diversi settori di
indagine: la gerontologia, che riguarda lo studio piø generale dell’invecchiamento e dei
problemi ad esso collegati, la geriatria, che si interessa, a livello prettamente medico,
delle patologie degli anziani, la psicogerontologia, che studia e valuta i cambiamenti
psicologici dell’invecchiamento. All’interno di quest’ultima disciplina è possibile
un’ulteriore classificazione, proposta da Birren e Schroots (1996), tra:
• psicologia dell’invecchiamento (Psychology of Aging), che studia i cambiamenti
comportamentali che avvengono con l’età nella prospettiva dell’arco di vita;
• psicologia della vecchiaia (Psichology of the Aged), che descrive problemi di
natura biologica, sociale e psicologica di questo stadio della vita;
• psicologia delle differenze d’età (Psichology of Age), che confronta gruppi di
differente età: giovani vs adulti, vs anziani, vs grandi vecchi.
I primi studi e le prime ricerche sull’invecchiamento possono trovare una collocazione
storica nel 1920. In questo anno è stato pubblicato da Botkin, scienziato russo, uno
studio condotto su 3000 anziani di San Pietroburgo che ha fornito i primi dati sulle
differenze tra invecchiamento normale e invecchiamento patologico.
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Uno dei primi studi di laboratorio sull’invecchiamento è stato condotto, invece, in
ambito etologico da Ivan Pavlov, un altro ben noto psicologo russo. Pavlov ha notato
come animali piø anziani, in quanto piø maturi, mostrassero maggiori capacità di
apprendimento rispetto a quelli piø giovani. Sempre nel 1920 Raymond Pearl ha trovato
che gli insetti appartenenti alla specie della Drosophila costituivano un modello animale
ideale per studiare l’invecchiamento biologico e la longevità. Nel 1922 Stanley Hall ha
pubblicato il primo libro sugli aspetti psicologici e sociali dell’invecchiamento negli
Stati Uniti.
Tuttavia, è solo a partire dal decennio 1950-1959, dopo la nascita della Società di
Gerontologia nel 1945, che si assiste a un aumento considerevole delle pubblicazioni in
psicologia dell’invecchiamento; dal 1968 al 1979 il numero di queste cresce in maniera
spropositata fino a raggiungere il 270%.
Negli ultimi 15 anni si è poi verificato un aumento di interesse su aspetti cognitivi
(soprattutto memoria, attenzione, linguaggio), correlati neuronali, processi sensoriali,
motivazione ed emozioni, personalità.
In questi stessi anni sono apparse numerose riviste scientifiche di psicologia
dell’invecchiamento come: <<Psychology & Aging>>, <<Journals of Gerontology>>,
<<Aging, Neuropsychology & Cognition>>, <<Experimental Aging Reaserch>>,
<<The Gerontologist>>, <<Reaserch on Aging; e sono stati pubblicati sempre piø
manuali che trattano di invecchiamento cognitivo quali: The Handbook of Aging and
Cognition [Craik e Salthouse 2000], Handbook of Cognitive Aging [Hofer e Alwin
2008], Handbook of the Psychology of Aging [Birren e Schaie 1996].
L’opinione pubblica è stata nel tempo sensibilizzata da articoli che appaiono su
quotidiani e riviste; anche in ambito cinematografico cominciano a proliferare film con
anziani come protagonisti che rappresentano temi quali le demenze, la disabilità e la
dipendenza o, in altri casi, rappresentano la vecchiaia come connotata da esuberanza,
freschezza e un velo di follia in cui al tesoro della maturità non manca una vena di
cinismo e di egoismo.
Nonostante il proliferare delle ricerche e dell’interesse è però ancora lontano il
raggiungimento di una visione completa dei cambiamenti legati all’età che permetta di
rispondere ad alcune domande chiave e di conciliare i dati discordanti che spesso
caratterizzano la ricerca in quest’ambito.
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Per comprendere l’invecchiamento sono soprattutto necessari studi a lungo termine o
longitudinali, spesso di difficoltosa esecuzione, in cui dall’infanzia si segue lo sviluppo
dell’individuo fino a età adulta molto avanzata, per comprenderne gli aspetti che lo
caratterizzano.
Solo con la conoscenza di come si evolve la “vita psicologica” e di come si intersecano
variabili cognitive, emotive e motivazionali (Carstensen 1995; 1998) potremo testare
infatti teorie generali e specifiche sull’invecchiamento, rispondere alle esigenze degli
anziani e favorire una migliore qualità di vita.
2. Cosa significa invecchiare
L’invecchiamento può essere definito come processo, o insieme di processi, che hanno
luogo in un organismo vivente e che con il passare del tempo ne diminuiscono le
probabilità di sopravvivenza. L’invecchiamento rientra nei processi di accrescimento e
maturazione e può essere definito come un percorso di modificazione di un organismo
lungo l’intero arco dell’esistenza. In un’accezione piø comune, l’invecchiamento indica
l’avanzamento verso la vecchiaia, ultima fase del ciclo di vita e stadio di sviluppo
inevitabile per gli organismi che vivono abbastanza a lungo. In quest’ottica si parla piø
propriamente di vecchiaia, uniformandosi ai criteri con cui si definiscono le età
precedenti, come l’infanzia, la giovinezza ecc.
L’inizio della vecchiaia è soggetto a molte variazioni individuali: sviluppo e
invecchiamento si svolgono in due fasi distinte della vita, ma il passaggio dall’uno
all’altro occorre senza soluzione di continuità e può avvenire ad età cronologicamente
differenti per i singoli individui, ma anche per le singole funzioni in uno stesso
individuo.
L’invecchiamento si svolge con modalità, ritmi e conseguenze variabili da individuo a
individuo, in relazione a fatti preesistenti, a condizioni contingenti e alle linee che hanno
caratterizzato l’esistenza di ciascuno. Neanche in uno stesso individuo l’invecchiamento
dei processi psichici segue una sequenza rigida e preordinata.
L’invecchiamento è un processo discontinuo dovuto a una serie di influenze interne ed
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esterne all’organismo, non sempre distinguibili e isolabili.
Le alterazioni strutturali e funzionali a carico dei diversi sistemi o apparati (cervello,
cuore, arterie, ossa…) che appaiono con maggiore frequenza negli anziani non sono una
conseguenza esclusiva del processo di invecchiamento, ma derivano dall’azione
concomitante di altri fattori. Ciò significa che gli effetti dell’invecchiamento di per sØ
non sono separabili da quelli delle influenze storiche o da quelli degli eventi normativi.
Infatti, eventi stressanti come una malattia invalidante oppure la morte del coniuge, pur
potendo colpire anche gli individui giovani, sono piø frequentemente associati alla
vecchiaia e quindi il loro effetto viene spesso studiato soprattutto su individui
fisicamente, psicologicamente e socialmente fragili come gli anziani. Tutto ciò ci guida
verso l’osservazione di una somma di effetti dovuta all’interazione di piø variabili.
L’invecchiamento è in sostanza un processo multifattoriale derivato dall’interazione di
fattori genetici, educativo - culturali, economici, sanitari, di personalità, ambientali,
fattori relativi alla struttura familiare, alle esperienze di vita.
Quindi, a seconda del punto di vista considerato (biologico, psicologico e sociale),
l’invecchiamento assume significati diversi. A livello biologico, l’invecchiamento è un
processo non volontario che opera in modo cumulativo con il passare del tempo
comportando modificazioni cellulari, dovute a infezioni, incidenti o intossicazioni
ambientali. Le teorie biologiche includono ad esempio la teoria dei radicali liberi e dei
metaboliti reattivi all’ossigeno che causano danni estesi all’organismo, o la teoria
ormonale secondo cui alti livelli di ormoni steroidi provocano un declino nel sistema
immunitario, o ancora la teoria immunitaria che vede l’invecchiamento come un declino
di tale sistema. L’età biologica (o età del corpo) è la posizione che la persona assume
rispetto alla speranza di vita a seconda della funzionalità dei suoi organi vitali; essa è
quindi un indicatore dinamico dello stato di salute e di funzionamento dell’organismo.
L’età psicologica può definirsi come l’età soggettiva che ognuno sente di avere e che
viene determinata dalle risposte date alle richieste dell’ambiente. A seconda quindi del
livello di funzionamento una persona può essere considerata psicologicamente giovane o
anziana indipendentemente dall’età cronologica. A livello sociale, l’invecchiamento è
legato invece alla posizione che l’individuo occupa all’interno della società cui
appartiene (attività lavorativa, crescita dei figli) e alle influenze e ai cambiamenti storici
e culturali cui ognuno di noi è soggetto. L’età sociale è determinata dalla posizione
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sociale raggiunta a una data età rispetto all’età media, per la quale suddetta età, si
raggiunge.
Per esempio in ambito universitario a 40 anni una persona può essere considerata ancora
“giovane ricercatore”, mentre in ambito sportivo o in professioni in cui vi è usura del
fisico a pari età si è già “vecchi”.
Nei decenni scorsi, età biologica e sociale erano sovrapponibili tra loro, mentre ora il
miglioramento delle condizioni fisiche ha allungato l’età biologica e non quella
socialmente attiva, così, vispi sessantenni già in età pensionabile si ritrovano con
un’aspettativa di vita di 25-30 fuori dal mondo del lavoro.
Il lavoro sociale, in senso piø ampio, include statistiche e proiezioni: in Italia, gli anziani
con piø di 65 anni sono circa 12 milioni; l’aspettativa di vita dal 2000 ad oggi è
aumentata di circa 2 anni. Il record della longevità è passato dai 112 anni nel 1980 ai
122 nel 1997, record non ancora superato; vi sono circa 800 persone al mondo che
hanno superato i 110 anni. Questo invecchiamento demografico si spiega con l’aumento
della speranza di vita dovuta alla diminuzione della mortalità infantile, al miglioramento
delle condizioni di vita e alla diminuzione del tasso di fertilità, ossia del numero medio
di figli che una donna mette al mondo nella sua vita riproduttiva.
Per queste ragioni oggi assistiamo al cosiddetto fenomeno del “nonno boom”, termine
che si contrappone a quello di “baby boom” che ha segnato invece il periodo successivo
alla seconda guerra mondiale.
3. Quando inizia la vecchiaia
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In ambito scientifico per convenzione si parla di “età anziana” per riferirsi all’ultima
parte dell’arco di vita. All’interno dell’età anziana attualmente si possono distinguere:
giovani – anziani, persone con un’età compresa tra i 64 e i 74 anni, anziani, tra i 75 e
gli 85 anni, grandi – vecchi, dagli 85 ai 99 anni, e centenari. Questa distinzione è
importante in quanto mette in risalto come l’età anziana sia caratterizzata piø da
differenze che da omogeneità, a differenza di altri periodi della vita caratterizzati da
maggiori somiglianze interne. Prendere in considerazione le differenze aiuta a
comprendere meglio i cambiamenti che avvengono con l’età: per esempio nei grandi –
vecchi si assiste alla diminuzione radicale di tutte le abilità cognitive a causa del
maggior declino a livello organico – biologico che limita la possibilità di utilizzare
strategie di compensazione; mentre nei giovani – anziani, in cui solo alcune abilità
risentono del peso dell’età, rimane la possibilità di compensare, attraverso abilità ancora
intatte, quelle che invece iniziano a declinare. Quanto ai centenari, particolarmente
interessante è il caso dei fuggitivi o centenari d’elitè, anziani che hanno compiuto 100
anni sfuggendo alle trappole dell’invecchiamento, ovvero senza diagnosi di demenza o
disturbo cognitivo. La categoria dei fuggitivi è quella che offre spunti piø interessanti
per la ricerca in psicologia dell’invecchiamento ed è anche a piø studiata perchØ essa
rappresenta un caso di resistenza cognitiva all’invecchiamento e ai disturbi tipici che lo
accompagnano.
Non solo, la “fuga” è in fondo il risultato di un’interazione tra variabili genetiche e
ambientali molto difficile da ottenere e può derivare dall’utilizzo dei processi cognitivi
di riserva che operano nonostante i cambiamenti neuropatologici tipici
dell’invecchiamento oppure dalla totale assenza di tali deficit.
Tra i criteri che definiscono l’inizio della vecchiaia, la dimensione fisica occupa un
posto rilevante perchØ è la piø facilmente percepibile a livello soggettivo, ma è anche
altrettanto riscontrabile dall’esterno.
Oltre al dato obiettivo della salute fisica, ci sono anche una vecchiaia percepita e una
vecchiaia attribuita secondo certi stereotipi culturali. La vecchiaia quindi inizia anche
quando un individuo si sente, si percepisce vecchio, sulla base delle proprie
caratteristiche di personalità e delle risorse (materiali e immateriali) che è in grado di
attivare , ma anche in relazione al contesto micro e macro nel quale vive. Uno cioè può
sentirsi vecchio a 90 anni, ma c’è qualcuno che si sente vecchio a 60.
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L’età anagrafica gioca quindi un ruolo secondario nel sostenere la percezione soggettiva
del sentirsi vecchi; semmai essa viene usata come riferimento rafforzativo, in un senso o
in altro, quasi per oggettivare ciò che comunque rimane soggettivo.
La terza dimensione da considerare è quella sociale e culturale con specifico riferimento
alla difficoltà di attribuire significati univoci a termini come “vecchiaia”,
“invecchiamento”, “anzianità” in contesti culturali diversi in continua evoluzione. Ad
esempio se si immagina il passato e si legge la storia di personaggi illustri, la vecchiaia
evoca saggezza e autorevolezza, assumendo significati positivi e suscitando rispetto,
emulazione, riconoscimento. Gli anziani sono consiglieri, mediatori, pacificatori e
riduttori di conflitto.
La stessa fragilità biologica non riduce la loro sapienza ma la ammanta di sacralità
attribuendole spesso un valore aggiunto. Se si guarda il presente, invece, la vecchiaia
può avere tutt’altro significato. Essa richiama malattia, marginalità, abbandono.
La saggezza dell’anziano viene sostituita dalle informazioni e dalle conoscenze
disponibili su fonti facilmente accessibili, l’esperienza viene soppiantata dalla ricerca
scientifica e dalle relative conoscenze e i vissuti di coloro che hanno già affrontato i
problemi dell’esistenza perdono di valore e di significato. Quanto appena detto permette
di comprendere la difficoltà e l’ambiguità che il linguaggio può incontrare per definire
un processo come l’invecchiamento, anche se si volesse stabilirne solo l’inizio.
La dimensione culturale comprende anche le immagini, gli stereotipi e i simboli che,
attraverso contenuti materiali o materializzabili, rappresentano e rendono visibile la
cultura. Il “bastone” ad esempio è un simbolo materiale della vecchiaia, congruo con gli
stereotipi che considerano l’anziano un malato bisognoso di aiuto, una persona non
autosufficiente, passiva e rassegnata; tuttavia questo simbolo si adatta solo in parte al
vecchio di oggi. Ancora, alcuni stereotipi della vecchiaia non riconoscono certi bisogni
e, di conseguenza, negano anche i diritti per soddisfarli; così la sessualità, la curiosità, il
desiderio di esperienze nuove sembrano non interessare le persone anziane, descritte
invece come disimpegnate, rassegnate, rinunciatarie, passive. Anche in questo caso non
c’è congruità con la condizione attuale. Teoricamente, dovrebbe esistere una
concordanza tra la cultura e gli stereotipi che la rendono visibile, ma ciò non si riscontra
sempre nella pratica perchØ alcune costruzioni sociali della vecchiaia si riproducono
continuamente attraverso meccanismi ripetitivi e inerziali di omologazione, pur non
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esprimendo adeguatamente la vecchiaia nell’attualità dei suoi significati. D’altra parte, i
soggetti interessati e coinvolgibili nella costruzione di nuove immagini e di nuovi
stereotipi non sono in grado di alimentare adeguatamente e di innovare i nuovi processi,
destinati a sostituire ciò che nel frattempo si è svuotato di senso. Così gli stereotipi del
vecchio malato, del vecchio disimpegnato, del vecchio rassegnato sopravvivono, anche
se nella realtà questi tipi di vecchi sono minoritari rispetto a quelli che godono di buona
salute e che stanno vivendo attivamente la propria età avanzata. Ed esse continueranno a
sopravvivere, fin tanto che non ne saranno omologati altri nuovi. Quando c’è
corrispondenza tra i modelli culturali e la vita quotidiana, questa dimensione svolge un
ruolo facilitatore del funzionamento dell’organizzazione sociale, che si traduce in una
coincidenza tra il sentirsi anziani e l’essere considerati anziani nel proprio contesto di
appartenenza.
Quando invece tale relazione viene a mancare, cioè quando i meccanismi di
omologazione culturale descrivono una vecchiaia diversa da quella riscontrabile nei fatti
e vissuta dagli stessi soggetti.
Dal punto di vista soggettivo, questa mancata corrispondenza accentua il senso di
marginalità e di non appartenenza come se la persona anziana si sentisse “diversa” da
quella che dovrebbe essere. Di qui i probabili atteggiamenti e processi di adattamento
conformistico ai modelli omologati, che si traducono in impedimenti e ostacoli rispetto
alla necessità di riconoscere i caratteri originali del proprio invecchiare. Dal punto di
vista sociale, la sopravvivenza di modelli obsoleti influenza la formazione delle
decisioni politiche e organizzative, con il rischio che certi bisogni rimangano senza
risposta e che certi altri vengano indotti, soltanto allo scopo di poter fruire delle risposte
già messe in atto.
L’aumento degli anni di vita media impone, in sostanza, di reinterpretare continuamente
le immagini e gli stereotipi che rappresentano l’età avanzata, in modo da riconoscere i
nuovi significati di cui essi si fanno di volta in volta portatori.
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4. Invecchiamento normale e patologico
In epoca romana c’era chi considerava la vecchiaia di per se stessa malattia (senectude
ipsa morbus est) e fino a poco tempo fa non si distingueva ancora tra invecchiamento
normale e malattia cronica. Si pensava che tutte le abilità mentali declinassero dopo l’età
adulta. Inoltre non vi era modo di studiare l’invecchiamento in quanto non erano molte
le persone che riuscivano a raggiungere età elevate. Le situazioni di vita piø agiate e il
miglioramento delle condizioni igieniche, alimentari, ambientali, e delle conoscenze
mediche hanno favorito l’allungamento della speranza di vita permettendo di
conseguenza a studiosi e ricercatori di occuparsi della relazione tra vecchiaia e malattia.
La vecchiaia può essere una fase lunga che si caratterizza per diversi elementi, primi tra
questi gli elementi fisici e biologici, che trovano una sintesi espressiva nello stato di
salute inteso come grado di autonomia o non autonomia funzionale (fisico-psichico-
sociale).In quest’ottica la vecchiaia appare come l’età in cui aumentano le probabilità di
ammalarsi, anche di piø patologie contemporaneamente (comorbilità), non sempre
legate tra loro da un rapporto causale.
Infatti, sebbene esistano delle patologie correlate con l’età, generate cioè dalla vecchiaia
stessa, non è facile stabilire una correlazione di tipo causa effetto tra vecchiaia e
malattia. Molte patologie sono piuttosto la conseguenza della condizione di fragilità
tipica della persona che invecchia e della riduzione delle sue difese immunitarie.
Nell’età adulta avanzata il potenziale biologico degli esseri umani si indebolisce
causando varie forme di fragilità, intesa come una riduzione delle riserve di cui
l’individuo dispone e che lo rende piø vulnerabile all’ambiente e meno idoneo a gestire
alcuni compiti della quotidianità.
Tale condizione di fragilità che l’età può portare con sØ determina maggiore
vulnerabilità alla manifestazione di malattie croniche, malattie degenerative e incidenti
(cadute, fratture). Tra le principali cause di morte nell’invecchiamento vi sono problemi
cardiovascolari, ictus e cancro.
Tra le piø comuni malattie croniche, che hanno cioè un inizio lento e una lunga durata,
vi sono: l’artrite reumatoide che causa l’infiammazione dei legamenti, l’osteoporosi,
l’ipertensione con i connessi problemi coronarici e vascolari e il diabete. Tra le malattie
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neurodegenerative croniche troviamo invece: la demenza, il morbo di Alzheimer e il
morbo di Parkinson.
Queste malattie croniche, anche se non sempre invalidanti, influiscono comunque sulla
funzionalità e sullo stato generale di benessere, causando spesso un declino della salute
mentale con ricadute su coloro che si prendono cura dell’anziano. Incidenti e fratture in
tarda età, pur non avendo frequenza così elevata, possono avere conseguenze alquanto
severe per le difficoltà di recupero completo; inoltre, molto spesso, soprattutto in tarda
età, l’ospedalizzazione che ne consegue produce comorbilità e può portare al decesso.
Nonostante la presenza di malattie anche croniche nell’invecchiamento e soprattutto
nella quarta età, una proporzione rilevante di anziani gode di un buon margine di
autonomia e di indipendenza. Studi longitudinali condotti su coorti di centenari
mostrano come la maggioranza di questi grandi vecchi arrivino alla fine della loro vita
in relativa buona salute senza essere passati per la tappa della dipendenza cronica.
L’invecchiare deve essere, dunque, distinto dalla malattia. Invecchiare porta con sØ
cambiamenti universali e irreversibili, ma non è necessariamente invalidante; la malattia
può essere alleviata o ritardata nel suo insorgere, colpisce solo una parte della
popolazione, ma è invalidante.
La difficoltà di distinguere i normali processi di invecchiamento dai processi
degenerativi non generalizzati ed evitabili ha portato a formulare l’ipotesi che esistano
tre processi separati di invecchiamento (Birren, Schaie, 1996): l’invecchiamento
primario, secondario e terziario.
L’invecchiamento primario rappresenta l’invecchiamento “normale”, progressivo,
irreversibile che riguarda tutti e che comporta modificazioni biologiche e psicologiche
(cognitive e affettive) in una sostanziale stabilità del quadro di personalità.
Nell’invecchiamento secondario, definito “patologico”, al quadro dell’invecchiamento
primario si aggiungono alcune malattie croniche o no. Tuttavia, mentre le modificazioni
dovute all’invecchiamento primario sono irreversibili, quelle patologiche dovute
all’invecchiamento secondario si possono talvolta curare con successo o almeno
rallentare nei loro effetti negativi.
L’invecchiamento terziario si riferisce al declino rapido e irreversibile che caratterizza
l’avvicinarsi dell’organismo alla morte e che comprende spesso un calo improvviso
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delle prestazioni fisiche e cognitive dell’individuo. Questo deterioramento può durare
mesi o anni ed è caratterizzato da perdite in tutti i campi delle abilità mentali.
A questi cambiamenti ci si riferisce con la terminal drop hipothesis o ipotesi del crollo
finale (Berg,1996), secondo cui la motivazione all’autoefficacia, legata alla coscienza
della propria capacità di controllo sui comportamenti della vita quotidiana, ha un crollo
nella fase finale dell’invecchiamento, il terminal drop, in cui l’individuo sembra
arrendersi quasi volontariamente agli ostacoli che fino a poco tempo prima aveva
considerato superabili. Questo lasciarsi andare e non investire piø energia neanche in
compiti fondamentali per la propria sopravvivenza, come il muoversi e il nutrirsi,
rappresenta il venir meno del desiderio di esercitare personalmente qualche tipo di
influenza sulla realtà. L’abbandono di questa motivazione fondamentale alla
“competenza” è appunto alla base dell’autoefficacia.
Nonostante la distinzione tra questi tre processi faciliti la ricerca sugli stadi
dell’invecchiamento, in questo quadro nessuna età cronologica è stata messa in relazione
con la sequenzialità dei tre tipi di invecchiamento per sottolineare l’impossibilità di
suddividere il processo in questione in sequenze rigide e preordinate che siano
universalmente valide.
5. Teorie dell’invecchiamento
Quando la longevità media della popolazione dei paesi occidentali non aveva raggiunto i
livelli di speranza attuali, gli studi focalizzati sull’invecchiamento presentavano modelli
molto semplici di questo processo come il modello del “massimo adolescenziale” che
descriveva la vita come una parabola il cui punto piø alto della curva era raggiunto
intorno ai 20-25 anni. Dopo questa fase, in cui il soggetto raggiungeva il culmine delle
sue prestazioni in compiti sia fisici sia cognitivi, cominciava un declino inesorabile,
prima rallentato e poi sempre piø precipitoso, verso lo stato della vecchiaia. Questo
modello postula però un declino generalizzato delle diverse capacità, senza operare
distinzioni tra invecchiamento biologico e invecchiamento psicologico; inoltre esso
trascura l’importanza dell’accumulo di conoscenze e di capacità nell’età adulta che può
portare in diversi campi alla possibilità di nuove acquisizioni.A partire dagli anni
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