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INTRODUZIONE
La riforma del mercato del lavoro
Nel corso dell’ ultimo ventennio, le tipologie contrattuali flessibili hanno
rappresentato il carattere dominante della legislazione attinente al
mercato del lavoro e al rapporto di impiego.
L’introduzione di una maggiore flessibilità ha rappresentato una
“manifestazione di stabile trasformazione nelle tecniche di regolazione
del mercato del lavoro ’’
1
.
L’obiettivo del legislatore è di realizzare un mercato del lavoro in grado
di soddisfare le esigenze di tutti coloro che ogni giorno si rapportano al
mondo del lavoro, tenendo presente anche le categorie di lavoratori in
maggiore difficoltà.
Difatti le prospettive dei giovani per un rapido accesso al mercato del
lavoro, pure se migliorate negli ultimi anni grazie alle maggiori
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Fra l’abbondante letteratura e senza pretesa di esaustività, cfr. D’ANTONA M., Occupazione
flessibile e nuove tipologie del rapporto di lavoro, in D’ANTONA M., DE LUCA TAMAJO R.,
FERRARO G., VENTURA L. (a cura di), Il diritto, op.cit., pag.2; VENEZIANI B., La flessibilità del
lavoro e i suoi antidoti. Un’analisi comparata, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1993, n.58, pag.235;
SCOGNAMIGLIO R., Lavoro subordinato e diritto del lavoro alle soglie del 2000, in Arg. Dir. lav.,
1999, n.2, pag.279; PERULLI A., Le relazioni industriali e i due fronti della flessibilità, in Giorn. dir.
lav. rel. ind., 1986, n.29, pag.85 ss. Ad avviso di GAROFALO M.G., Deregolazione del mercato del
lavoro, lavori atipici e diritti, in Riv. Giur. Lav., 1995, n.1, pag.301, la ricerca di flessibilità non è un
fenomeno degli ultimi anni, ma è “una costante della rivoluzione industriale”.
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flessibilità disponibili, appaiono ancora contraddistinte da difficili
processi di transizione dalla scuola al lavoro, dal lavoro alla formazione
e dalla formazione al lavoro
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.
Questi problemi però non riguardano solo i giovani; infatti anche i
lavoratori anziani, penalizzati dagli scarsi incentivi alla prosecuzione
dell’attività lavorativa e che non appaiono beneficiare delle tipologie
contrattuali flessibili adottate, continuano a ridurre la loro quota ufficiale
nella popolazione lavorativa.
L’occupazione femminile negli ultimi anni è stata più consistente nel
centro-nord ma continua comunque a soffrire di una difficile condizione
di accesso e di permanenza sul mercato del lavoro.
Non bisogna dimenticare tra l’altro che in Italia la qualità “non buona”
del lavoro riguarda anche l’ampia fascia di lavoro sommerso, irregolare e
clandestino che contribuisce ancora di più a creare condizioni di
esclusione sociale e di sottoutilizzo di capitale umano
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.
Per questo motivo la combinazione tra azioni di contesto utili ai processi
di allargamento della base produttiva e di innalzamento della
produttività, introduzione di flessibilità nel mercato del lavoro,
fuoriuscita dal sommerso, appare come una strategia interconnessa,
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Il tasso di disoccupazione di questo segmento è pari all’8.3%, mentre la media europea si posiziona
al 4.9%.
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MINGIONE E. PUGLIESE E. “Lavoro” Carrocci, Roma 2002.
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capace di innescare uno sviluppo economico ed una crescita
dell’occupazione regolare.
Il processo di riforma non può tuttavia fermarsi qui. Si deve francamente
riconoscere che la transizione dal diritto del lavoro ad un più ampio e
comprensivo diritto dei lavori che tenga conto dei reali assetti evolutivi
dell’economia e della società è appena iniziata. Fenomeni costantemente
richiamati da sociologi ed economisti, quali l’internazionalizzazione dei
mercati e l’incessante innovazione tecnologica, unitamente a mali di
antica data come l’economia sommersa e la fuga dal lavoro subordinato,
impongono ora un nuovo sforzo progettuale che consenta il definitivo
ammodernamento della disciplina dei rapporti di lavoro.
Paradossalmente, sono proprio le stime del lavoro «atipico» e irregolare
a dimostrare come non sia tanto il lavoro a mancare: quello che manca,
piuttosto, sono regole e schemi giuridici in grado di interpretarne forme e
manifestazioni in modo da consentirne l’emersione e l’equa ripartizione
tra tutti coloro che partecipano al mercato del lavoro.
Comunque il punto fondamentale resta senza dubbio migliorare la
qualità del lavoro, e questo è possibile grazie ad un mercato del lavoro
flessibile, che oltre a migliorare la qualità e la quantità dei posti di
lavoro, sia capace di rendere più scorrevole l’incontro tra obiettivi e
desideri delle imprese e dei lavoratori e consentire ai singoli individui di
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cogliere le opportunità lavorative più proficue, evitando che essi
rimangano intrappolati in situazioni a rischio di forte esclusione sociale.
Un intervento molto importante per la riforma del mercato del lavoro
italiano, attuato in tale direzione, è costituito dalla legge 14 febbraio
2003, n°30, seguita dal decreto legislativo n. 276/2003, la quale
contempla la delega al governo per la realizzazione di un insieme di
interventi per la promozione di una società più attiva e aperta alle
esigenze dei nuovi mercati globali.
Detta legge contiene una serie di norme e un ampio ventaglio di schemi
contrattuali flessibili e adattabili, in grado di assecondare forme e
manifestazioni dei moderni modi di organizzazione del lavoro, ma ha
introdotto anche una massiccia dose di precarietà nello scenario
lavorativo.
In un’ottica evolutiva e di accrescimento, la flessibilità dovrebbe
prevedere un costante miglioramento delle conoscenze del lavoratore e
di conseguenza del livello occupazionale raggiunto, sia per il versante
economico sia per le competenze professionali.
Purtroppo il concetto di flessibilità, pur costituendo la nuova realtà
lavorativa, rischia di degenerare nel concetto di precariato perché il
continuo susseguirsi di rapporti di lavoro non è una scelta personale,
mirata ad una ricerca di un costante miglioramento, ma un obbligo
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derivante dall’ampia cautela dei datori di lavoro nell’assumere personale
a tempo indeterminato, specialmente in settori economici dove la
maggior parte delle commissioni ha periodicità di carattere stagionale.
Spesso il lavoratore si trova in una condizione di totale svantaggio nei
confronti del datore di lavoro, il quale può utilizzare il potere di rinnovo
e ricambio contrattuale come strumento di pressione nei confronti del
dipendente, oppure per tutelare l’azienda da un lavoratore rivelatosi non
adatto al settore d’impiego o che potrebbe costituire un peso per il
bilancio societario.
Gli obiettivi di questa riforma, non ponendo attenzione al problema della
precarietà che ne sarebbe potuta derivare, erano stati chiaramente
indicati dal governo già nel “Libro Bianco sul mercato del lavoro in
Italia. Proposte per una società attiva e per un lavoro di qualità” (ottobre
2001) e, successivamente, sono stati condivisi dalle trentanove
organizzazioni sindacali firmatarie del “Patto per l’Italia” (luglio 2002) .
Tali obiettivi si ispirano alle indicazioni delineate a livello comunitario
nell’ambito della così detta ‘’Strategia europea per l’occupazione’’ e
riguardano: la creazione di un mercato del lavoro trasparente ed
efficiente in grado di attuare una strategia volta a contrastare i fattori di
debolezza strutturale della nostra economia; l’introduzione di forme di
flessibilità regolata e contrattata con il sindacato in modo da bilanciare le
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esigenze delle imprese con le irrinunciabili istanze di tutela e
valorizzazione dei lavoratori; l’introduzione di nuove tipologie
contrattuali utili ad adattare l’organizzazione del lavoro ai mutamenti
dell’economia; la razionalizzazione dei rapporti di lavoro con contenuto
formativo; il perseguimento di politiche di lavoro facili e moderne e
l’affermazione di un maggior ruolo delle organizzazioni sindacali.
Il Decreto legislativo n. 276/2003 ha modificato e predisposto il riordino
dei contratti a contenuto formativo, introducendo in merito delle novità:
una di queste è il libretto formativo del cittadino che contiene le
esperienze formative della persona: da quelle sociali a quelle ricreative e
familiari.
Si tratta, secondo il d. lgs. n. 276/2003, di uno strumento di registrazione
delle “competenze acquisite durante la formazione in apprendistato, la
formazione in contratto di inserimento, la formazione specialistica e la
formazione continua durante l’arco della vita lavorativa”
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.
Esso costituisce uno strumento utile alla persona, la quale ha la
possibilità di comunicare le proprie esperienze formative all’organo
competente come se fosse un curriculum. L’utilità del libretto formativo
del cittadino risponde a molteplici esigenze: le imprese hanno modo di
verificare il percorso e le competenze acquisite dal soggetto, le
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Art.2 (i) definizioni d.lgs.276/2003
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istituzioni possono valorizzare i sistemi di certificazione dei titoli
formativi conseguiti.
Come si può ben notare, tra i tanti interventi, la riforma del mercato del
lavoro italiano ha puntato alla revisione dei rapporti di lavoro con
contenuto formativo nella prospettiva di una formazione che raccordi
opportunamente i sistemi dell’istruzione e della professionalità, nel
rispetto dei principi e delle regole dell’Unione europea in materia di
aiuti all’occupazione.
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CAPITOLO I
APPRENDISTATO: RICOSTRUZIONE STORICA E
NORMATIVA
1. Ricostruzione del quadro normativo
Il contratto di apprendistato è uno dei più antichi rapporti di lavoro
conosciuti ed utilizzati. Infatti, mentre il contratto di lavoro diviene
oggetto di disciplina legislativa solo alla fine del XIX secolo, al contrario
la disciplina dell’apprendistato risale agli statuti delle corporazioni
medioevali di arti e mestieri
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. A quei tempi, il prestatore d’opera era il
maestro, titolare della bottega, che veniva ricompensato dall’allievo, o
meglio dalla sua famiglia, per l’insegnamento dell’arte o mestiere che gli
impartiva e per il fatto che, in genere, l’allievo veniva ospitato, educato,
e mantenuto nella casa del maestro.
Quindi, l’apprendistato era visto come l’insegnamento che il soggetto
chiedeva al maestro, il quale si obbligava a fornirglielo in cambio di un
corrispettivo pagato dal tirocinante.
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SALA CHIRI M., Il tirocinio, in Il codice civile. Commentario, diretto da SCHLENSIGER, 1992,
Milano, pag.2
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Nell’epoca moderna l’industrializzazione ha comportato la fine delle
corporazioni e dei mestieri e l’avvio al lavoro di molti giovani e bambini,
sottopagati e costretti a vivere in condizioni disumane e privi di ogni
istruzione e formazione professionale, in quanto il nuovo sistema
industriale richiedeva la semplice esecuzione di mansioni ripetitive
6
.
Il lavoro svolto dagli apprendisti era lo stesso che svolgevano i lavoratori
qualificati, ovvero alle stesse condizioni gravose e senza una formazione
teorica, prevedeva solo che fosse svolto sotto il controllo e la guida di
un lavoratore esperto
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.
Successivamente si è provveduto a salvaguardare la posizione del
fanciullo che rappresentava una figura sociale debole e che quindi
andava protetta. Si pensò di subordinare l’accesso al lavoro
all’adempimento degli obblighi scolastici, ma questa esperienza non
ebbe molto successo, mancando ancora una concreta normativa per la
disciplina dell’apprendistato. Solo nel ’30 con il r.d.l. 21 settembre 1938,
n. 196, sulla disciplina dell’apprendistato, si usa per la prima volta tale
termine per indicare il rapporto che comporta l’obbligo per il datore di
lavoro di “fargli acquisire una professionalità e di retribuire le
prestazioni dell’apprendista” .
6
MENGHINI L., Sezione I – art.2 comma 1, lett. a), b), c), e), f), g), h), i). I contratti a contenuto
formativo, in La legge delega in materia di occupazione e mercato del lavoro di CARINCI M.T.,
Leggi e lavoro (diretta da CARINCI F.), 2003, MILANO pag.107.
7
VARESI P.A., I contratti di lavoro con finalità formative, 2001, Milano, pag.25