2
Elementi fondamentali nello spiegare i risultati ottenuti appaiono essere proprio la
composizione delle esportazioni ed il tipo di strategia di sviluppo, e dunque di
politica commerciale, adottata. Si cerca di capire, alla fine, in che misura la
crescita al Sud possa essere spiegata da quella del Nord e se il presunto legame tra
le due abbia un carattere stabile, soprattutto a fronte del venir meno della
dicotomia prodotti primari/manifatturieri applicabile negli anni ‟50 e ‟60 agli
scambi Nord-Sud.
La parte 2 si concentra invece sul nesso esportazioni-sviluppo e sul dibattito
relativo alle politiche commerciali, per cercare di evidenziare come le politiche
commerciali e le strategie economiche ad esse conseguenti hanno influito sui
risultati proposti nella parte 1.
Innanzitutto si pone il problema della misura dell‟interscambio con l‟estero e della
determinazione del grado ottimale di apertura, nonché della considerazione degli
effetti delle politiche commerciali sull‟orientamento che dell‟apertura è
espressione. La discussione cerca di evidenziare, anche avvalendosi dell‟evidenza
empirica, come quella di aumentare l‟orientamento all‟esterno del regime
commerciale di un‟economia non sia un‟indicazione valida in assoluto, anche
perché l‟orientamento commerciale della stessa non vi dipende in modo lineare..
Inoltre, se le diverse teorie dello scambio di matrice classica o neoclassica
evidenziano i benefici derivanti dall‟apertura agli scambi, benefici ulteriormente
approfonditi dall‟analisi condotta nell‟ambito dell‟approccio liberista, il problema
rimane quello di capire quali condizioni mettono un‟economia in grado di godere
dell‟apertura al commercio estero. Ciò che si sostiene, in linea con l‟approccio
strutturalista e con quello riconducibile alla Nuova Teoria della Crescita, è che un
paese trae beneficio dall‟apertura agli scambi internazionali soltanto se ha già
raggiunto un livello di efficienza della propria struttura produttiva confrontabile a
quello dei concorrenti internazionali, e ciò soprattuto con riferimento ai settori ad
alto contenuto di conoscenza. Dunque gli scambi non costituiscono il motore della
3
crescita per un‟economia, ma un‟”ancella” di tale crescita, permettendo
l‟approfondimento di un vantaggio comparato già detenuto.
L‟apertura agli scambi dei Pvs avrebbe allora portato all‟approfondimento della
loro specializzazione in produzioni tradizionali e a basso contenuto di tecnologia,
impedendo l‟accumulo di conoscenza che permette di aumentare la produttività. Il
divario tra le produttività dei paesi già sviluppati al momento dell‟uscita
dall‟autarchia e di quelli ancora soltanto agricoli continua così a crescere.
Il problema diventa come recuperare tale gap, ovvero come permettere l‟aumento
del tasso di accumulazione della conoscenza. Delle due diverse alternative, la
liberalizzazione degli scambi e dell‟economia e la sostituzione delle importazioni,
si propende per quest‟ultima, che l‟accumulazione di conoscenza ha come
obiettivo centrale. Ma l‟implementazione della stessa, seppur in modo più
coerente all‟obiettivo rispetto al passato, appare ostacolata dall‟evoluzione del
contesto economico internazionale in cui, in nome del liberoscambismo, viene
tolta ai Pvs ogni possibilità di realizzare il learning necessario a tale
accumulazione.
Nella parte 3 l‟ottica si sposta dai singoli paesi e dalle loro politiche al
contesto internazionale in cui queste si inseriscono, poiché l‟efficacia delle stesse
dipende in modo cruciale dalle caratteristiche dell‟area di appartenenza, a loro
volta legate al grado di sviluppo e all‟evoluzione storica. Quest‟ottica consente di
considerare in quale misura gli scambi rappresentano il mezzo per l‟estrazione del
surplus del Sud da parte del Nord e il modo in cui ciò avverrebbe. Centrali in
questo processo appaiono le ragioni di scambio: quelle relative ai beni primari e
manifatturieri, ma soprattutto quelle Nord-Sud. Le differenze tra le due aree
vengono ricondotte a tre ambiti principali: quello macroeconomico, per cui la
diversa struttura dell‟economia e la maggior forza economica del Nord
consentirebbe a quest‟ultimo di continuare a crescere scaricando la conflittualità
interna sul Sud proprio attraverso le ragioni di scambio; quello tecnologico, che
rende ragione della diversità intrinseca che caratterizza le produzioni
4
manifatturiere delle due aree, evidenziando nuovamente la dipendenza del Sud;
quello socio-politico, che consente di ricondurre proprio all‟integrazione nel
sistema mondiale il carattere democratico delle società del Nord e l‟arresto della
tendenza all‟aumento dell‟ineguaglianza nella distribuzione dei redditi al
procedere dello sviluppo, ove la chiave per spiegare entrambi i fenomeni sarebbe
la sottrazione del surplus dalle economie del Sud.
L‟esame dell‟economia internazionale negli ultimi 50 anni evidenzia infine come
l‟asimmetria tra Nord e Sud abbia trasformato il rapporto tra le due aree da
interdipendente (per cui gli effetti di una crisi vengono amplificati per entrambe le
aree dalla sua trasmissione dal Nord al Sud) a unidirezionale (per cui il Nord può
uscire più agevolmente dalla crisi trasferendola al Sud).
Ciò permetterà di concludere che il Sud ha ormai perso, nell‟ambito
dell‟attuale contesto politico-economico internazionale, qualsiasi capacità di
modifiacare la propria situazione socio-economica.
5
PARTE 1 Commercio
internazionale e crescita
economica: un inquadramento
storico e statistico.
Capitolo 1 Individuazione e classificazione dei Paesi in Via di
Sviluppo
Per entrare nel vivo di questo lavoro (che tratta di esportazioni, crescita e
interazione Nord-Sud) appare doveroso considerare proprio le esportazioni,
ovvero l‟importanza che questa grandezza economica riveste a livello globale e
per i singoli paesi (o per raggruppamenti significativi degli stessi). L‟esame dei
flussi di commercio internazionali tenterà di catturare gli aspetti più interessanti
delle dinamiche economiche internazionali che in essi si riflettono, e ciò con
particolare riferimento alla differenziazione tra paesi sviluppati (identificabili con
gli appartenenti all‟OCSE, quasi tutti localizzati nell‟emisfero settentrionale) e
paesi in via di sviluppo (Pvs, buona parte dei quali localizzati nell‟emisfero
meridionale o nella parte più a Sud di quello settentrionale)1. A questo scopo si
1
I termini “Nord” e “Sud” furono resi popolari dai rapporti della Commissione Brandt del
1980 e 1983 [Brandt (1980); (1983)], per riferirsi, rispettivamente, ai gruppi delle nazioni più
ricche e più povere a livello mondiale. I binomi centro-periferia, avanzati-arretrati, sviluppati-
sottosviluppati, precedentemente e tuttora utilizzati per identificare i gruppi di paesi cui la
Commissione si riferì in termini di Nord e Sud, richiedono una generalizzazione non meno ampia
di quella dalla stessa operata; la loro giustificazione risiede nella natura dell‟interazione tra i due
gruppi medesimi: essa si caratterizza infatti come asimmetrica (e ciò sia per l‟asimmetria nella
distribuzione del potere economico, sia per le differenze strutturali tra i due gruppi), mentre una
maggior simmetria caratterizza le relazioni tra i membri di ciascun gruppo, tra loro
economicamente più omogenei.
Più precisamente, il blocco del “Nord” include gli stati membri dell‟OCSE, il “Sud” i paesi
appartenenti al “Gruppo dei 77” che, operante in sede ONU, include tutti i Pvs tranne le Cina.
6
farà riferimento principalmente agli anni successivi al 1965: e ciò non solo per la
limitatezza di dati sui Pvs affidabili e sufficientemente disaggregati riguardanti
periodi precedenti; ma soprattutto perché è circa da quell‟anno che iniziò ad essere
turbata la stabilità del contesto internazionale, fino a quel momento caratterizzato
da tassi di crescita del prodotto elevati e da un forte dinamismo degli scambi
internazionali: nel decennio 1955-65 il tasso di crescita delle esportazioni
mondiali fu più che doppio rispetto a quello relativo al decennio successivo. Ma il
carattere stabile e positivo dello scenario internazionale, riconducibile all‟avvio
della fase di sviluppo post-ricostruzione di quegli anni, iniziò ad essere turbato
proprio alla fine degli anni ‟60, per essere definitivamente travolto dagli eventi
degli anni ‟70. Se la forza della domanda mondiale aveva fino a quel momento
permesso ai Pvs di crescere nonostante il loro peso internazionale stesse
diminuendo a causa del crescente isolamento delle loro economie (ciò era il
risultato della diffusa adozione di strategie di sviluppo di sostituzione delle
importazioni), la continua perdita di quote di mercato che tale isolamento
comportava indusse, quanto meno, ad arrestare la tendenza ad un loro ulteriore
isolamento. La maggior differenziazione tra Pvs che ne conseguì giustifica una
loro analisi disaggregata in base ai gruppi di seguito definiti. Ma prima di
considerare i caratteri per cui i vari Pvs si sono differenziati in modo sempre più
palese soprattutto a partire dalla fine degli anni ‟60, approfondendo in questo
modo le differenze già esistenti nelle dimensioni, nella storia e nel passato
coloniale, nelle dotazioni di fattori e di risorse umane, appare utile richiamare le
caratteristiche che rendono ancora sensato considerare come più omogenee
rispetto a quelle dei paesi sviluppati le economie dei Pvs; e dunque l‟inclusione
Questa divisione tiene conto del maggior numero degli stati del mondo, esclusi quelli fino a poco
tempo fa ad economia centralmente pianificata dell‟Europa (classificati come Paesi “in
Transizione”), le cui caratteristiche ne fanno un‟entità che richiede secondo Murshed [(1992, pp.1-
2)] un modello separato. Nel testo che segue le diverse coppie di termini saranno utilizzate
indifferentemente.
7
nello stesso gruppo (Sud, Pvs) di paesi per molti versi diversissimi (come lo sono
Taiwan e Mozambico).
8
1.1 Caratteristiche comuni
Questi sono dunque gli aspetti che, nella loro globalità e pur con intensità diverse
a seconda del gruppo di paesi considerato, caratterizzano i paesi classificati come
“In Via di Sviluppo” [Todaro (1994, pp. 38-54)]; [Ghatak (1995, pp. 1-33)]:
a) il basso tenore di vita della maggioranza della popolazione (in buona parte
in stato di povertà assoluta), legato e rinforzato dall‟interazione tra esiguità dei
redditi, forte disparità nella loro distribuzione, gravi carenze nell‟ambito della
sanità, dell‟igiene e dell‟alimentazione (per cui la malnutrizione e la mortalità
infantile risultano elevate e ridotta la speranza di vita, mentre è diffuso un
senso generale di malessere e rassegnazione), inadeguatezza del sistema
scolastico-formativo;
b) bassi livelli di produttività del lavoro, legati all‟esiguità dei risparmi e
dunque all‟insufficienza degli investimenti, che rendono a loro volta carente la
disponibilità di capitale fisico ed umano e insufficienti ed arretrate le
tecnologie utilizzate (e questi elementi si rinforzano mutuamente
nell‟interazione con il basso tenore di vita, in quella che Myrdal [(1968b, app.
2)] chiama la “causazione circolare e cumulativa”), nonché all‟inadeguatezza
di strutture sociali e produttive, infrastrutture ed istituzioni pubbliche.
c) l‟esplosione demografica, dovuta all‟allargamento del divario tra i tassi di
natalità e mortalità: quest‟ultimo ridottosi drasticamente, come nei paesi
sviluppati per gli effetti del processo di modernizzazione2 portò ad un
sostanziale allungamento della speranza di vita, passata da meno di 40 a oltre
60 anni. Tuttavia questo secondo stadio della transizione demografica, in cui
al declino nei tassi di mortalità non corrispose quello dei tassi di fertilità3, in
2
Cui furono associati un miglioramento di tecniche e conoscenze medico-sanitarie, diete più
salubri, più alti redditi ed altri miglioramenti.
3
In Europa Occidentale il declino dei tassi di natalità iniziò all‟inizio del 1900.
9
buona parte del Terzo Mondo non è ancora terminato. È allora la stabilità nei
tassi di natalità a costituire la vera differenza tra Nord e Sud rispetto ai
problemi demografici: risulta pertanto necessaria un pur sommario esame delle
cause alla base della stessa, sulla scia delle conclusioni di Kuznets [Kuznets
(1974, pp. 87-8)]. Nella scelta relativa al figlio addizionale o marginale,
vengono confrontati, come per ogni altro investimento, i relativi costi e
benefici economici. In pratica, la scelta è può essere considerata dipendere da
due elementi: il costo-opportunità del tempo della madre e il trade-off
finanziario tra meno figli “ad alta qualità ed istruzione” con elevati potenziali
di reddito ma “più costosi” e più figli di “bassa qualità”, a minor costo e meno
istruiti ma con prospettive di reddito molto minori. Pertanto la domanda di
nuovi figli da parte dei genitori diminuisce quando il loro costo aumenta a
seguito di fattori quali l‟aumento delle opportunità di istruzione o impiego
delle donne, l‟aumento delle rette scolastiche, l‟adozione di una legislazione
sull‟età minima per il lavoro minorile, il finanziamento pubblico di sistemi di
sostegno sociale agli anziani. La carenza di tutte queste istituzioni o misure
pubbliche nei paesi del Terzo Mondo fa allora capire perché i tassi di natalità
non si riducono [Todaro (1994, pp. 188-191; 199-200)]. Gli elevati tassi di
crescita della popolazione hanno allora come conseguenza l‟altissimo tasso di
disoccupazione, sottoccupazione (temporaneità delle occupazioni) o
disoccupazione mascherata (la produttività degli occupati è così bassa che una
riduzione delle ore lavorate avrebbe effetti trascurabili sul prodotto totale);
d) la sostanziale dipendenza dell‟economia nazionale dal settore primario, sia
in termini di prodotto nazionale che di popolazione occupata. La
localizzazione della maggioranza della popolazione nelle aree rurali, dovuta al
fatto che l‟agricoltura permette di soddisfare quelli che, ad un basso livello di
reddito, sono i bisogni vitali, accentua il dualismo agricoltura-industria, che si
esprime nelle ampissime differenze di reddito e produttività (abissali rispetto
ai livelli dei paesi sviluppati) e nella dualità dei sistemi monetari e finanziari,
10
tali solo nelle città. E in termini di esportazioni, ove per la stragrande
maggioranza di questi paesi il valore di quelle primarie è preponderante (se
non sempre in termini assoluti, almeno in termini relativi).
e) la ristrettezza o assoluta irrilevanza dei mercati dei capitali;
f) l‟asimmetria, la dipendenza e la vulnerabilità nelle relazioni internazionali,
per cui i Pvs sono costretti a subire le decisioni che li riguardano dato che esse
vengono prese nei paesi industrializzati: e tra queste rientrano gli aiuti
umanitari, le ragioni di scambio, i volumi esportati, il costo del capitale, le
politiche interne (attraverso le condizioni imposte da FMI, Banca Mondiale e
GATT-WTO).
1.2 Le differenze
Passando alla loro classificazione in gruppi omogenei, i criteri adottati saranno di
natura composita. Non appaiono infatti pienamente soddisfacenti quelli utilizzati
dall‟ONU, che distingue i Pvs in “Meno Sviluppati” (LLDC: i 44 più poveri), non
esportatori di petrolio (88) e membri che ne sono ricchi (13); né quelli adottati
dall‟OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) che
individua, utilizzando il criterio del reddito pro capite, 29 LLDC, 32 altri Pvs, 73
paesi a medio reddito, 11 di nuova industrializzazione (Newly Industrializing
Countries) e 13 membri dell‟OPEC; né il solo utilizzo del criterio del reddito pro
capite, che la Banca Mondiale usa per dividere i paesi in quattro categorie (reddito
basso, medio, medio-alto, alto -in quest‟ultimo include, assieme ai paesi
considerati del Primo Mondo, anche 5 che sono classificati come Pvs)4.
4
Nel 1990 il valore del Pil pro capite, riferito al 1988, che discrimina tra paesi sviluppati (cioè
ad alto reddito) e non era di 6000$USA (ma in questo modo vi rientrano anche Arabia Saudita,
Israele, Singapore, Hong Kong, Kuwait e Emirati Arabi Uniti, mentre ne sono esclusi Portogallo e
Grecia); quello che definisce la separazione tra paesi a basso e medio reddito era di 545$; e quello
che, nell‟ambito di questa classe, separa i paesi dal reddito più alto dagli altri è il valore di 2200$
[World Bank (1990, pag. IX; 178-9)].
11
Ecco perché se ne tenterà l‟integrazione con altri criteri: quello delle esportazioni
predominanti e quelli di tipo analitico (LLDC individuati dall‟ONU, NIC del Sud-
Est asiatico, paesi in Transizione, popolosi o meno per i paesi esportatori di
petrolio).
I Pvs verranno pertanto suddivisi in LLDC ed assimilati e altri LDC (paesi meno
sviluppati): la parziale eterogeneità geografica dei raggruppamenti individuati, pur
non permettendo di cogliere la dimensione geopolitica delle problematiche,
consente di rispecchiare le più rilevanti dimensioni del livello di sviluppo,
dell‟orientamento merceologico dell‟economia e del grado di autonomia nel
perseguire lo sviluppo economico nazionale. I paesi appartenenti al gruppo LDC
verranno poi ulteriormente suddivisi in NICs, altri paesi industrializzati,
esportatori di petrolio (popolosi o meno) e paesi orientati all‟interno (per questi
due gruppi e per i NIC si utilizza la classificazione proposta in Krueger [(1990,
pp. 97-103)]).
1.2.1 I paesi i meno sviluppati (LLDC)
Ora, particolare significatività assume l‟individuazione di un gruppo di paesi
meno sviluppati all‟interno di quello dei paesi in via di sviluppo (i Least
Developed Countries -LLDC- tra i Less Developed Countries -LDC). Questa
categoria venne formalmente definita nella Conferenza ONU di Parigi dell‟1-14
Settembre 1981. I criteri ivi individuati [Jennings e Weiss (1983, 337-42)];
[UNCTAD (1984, pp. 1-8 -ediz. francese)] sono relativi al Pnl pro capite
(inferiore ai 100 dollari 1968), che indica un livello di sviluppo economico
inaccettabilmente basso e una povertà diffusa; alla quota della produzione
manifatturiera sul Pil, solitamente considerata caratteristica essenziale di una
moderna economia, ad indicare il grado di trasformazione strutturale che in questi
paesi sembra essersi verificata in misura molto marginale (tale quota è infatti
inferiore al 10%); il tasso di alfabetizzazione adulto (non superiore al 20% della
popolazione in età scolare), a suggerire la dimensione della base su cui poter
12
realizzare un allargamento delle risorse umane qualificate ed addestrate, che
evidenzia la carenza di manodopera qualificata e di capacità manageriale ed
amministrativa.
Se la carenza di risorse, che impedisce la realizzazione degli investimenti, e la
limitatezza delle entrate da esportazioni necessarie ad ottenere la valuta estera con
cui acquistare i beni d‟investimento o servire il debito sono comuni ad altri paesi a
basso reddito, la differenza cruciale attiene proprio alle carenze del capitale
umano di cui sopra e delle infrastrutture fisiche, a loro volta legate alle limitate
dimensioni del settore pubblico. È infatti da queste deficienze che derivano i
problemi di fondo della produzione e della struttura economica di questi paesi.
Con poche eccezioni, essi sono poi caratterizzati da un numero relativamente
basso di abitanti, da caratteristiche geografiche svantaggiate (mancanza di accesso
al mare, isole remote, condizioni climatiche o oro-idrografiche -quali deserti o
catene montuose- fortemente sfavorevoli), dal fatto che non furono punti focali di
interesse coloniale. Nel periodo successivo all‟indipendenza essi soffrirono “più
per la relativa trascuratezza che per lo sfruttamento di cui le potenze coloniali e gli
investitori internazionali li fecero oggetto” [Berry e Kates (1980, pag. 245)]5.
Questi paesi hanno infatti mercati interni limitati (e dunque nessun potere
contrattuale sui fornitori di beni e servizi), forti difficoltà nell‟assicurarsi l‟accesso
ai mercati esteri, infrastrutture e basi per la crescita delle esportazioni (queste
ultime ristrette ai beni primari e con un grado di trasformazione minimo) che,
ereditate dall‟esperienza coloniale, risultano inadeguate. Essi soffrono per la
diffusa malnutrizione, la carenza di acqua potabile sicura, servizi sanitari e sistemi
per l‟istruzione estremamente limitati. I tassi di mortalità e natalità sono tra i più
alti al mondo (al tempo stesso causa ed effetto della loro situazione), la
maggioranza della popolazione dipende dall‟agricoltura ad un livello di
5
Allo sfruttamento si accompagnava spesso la costruzione di infrastrutture e lo sviluppo di
istituzioni funzionali agli interessi dei colonizzatori, direttamente economici e operativi nel primo
caso, più legati alla perpetuazione della dominazione socio-culturale e alla costruzione dei
presupposti per un contesto politico stabile i secondi, che furono tipici degli inglesi.
13
sussistenza, con un accesso molto limitato all‟economia moderna e monetizzata
dato l‟isolamento in cui si ritrova, a sua volta accentuato dall‟insufficienza dei
mezzi di trasporto e comunicazione. Rilevante è poi anche la loro dipendenza
dall‟aiuto internazionale.
Il divario tra gli LLDC e gli altri LDC continua ad aumentare.
I 47 paesi che l‟ONU attualmente classifica come LLDC sono i seguenti:
Afghanistan, Benin, Bhutan, Botswana, Burkina Faso, Burundi, Chad, Etiopia,
Guinea, Haiti, Lao, Lesotho, Malawi, Maldives6, Mali, Nepal7, Niger, Rwanda,
Samoa (Occidentale)8, Somalia, Sudan, Tanzania, Uganda, Yemen (lista approvata
nel 1971)9; Bangladesh10, Gambia, Repubblica Centrafricana (1975); Capo Verde
e Comoros (1977); Guinea Bissau (1981); Gibuti, Guinea Equatoriale, Sao Tomé
e Principe, Sierra Leone, Togo (1982); Cambogia, Kiribati, Liberia, Madagascar,
Mauritania, Mozambico, Myanmar (ex Birmania), Isole Solomon, Tuvalu,
Vanuatu, Zaire, Zambia (aggiunte in seguito, fino al 1994 -[United Nations (1992,
pag. xiii)].
A questi si aggiungono poi i membri del FMI il cui Pil pro capite stimato dalla
Banca Mondiale non eccede i 425$ 1986 (e si tratta di Ghana, Guyana, Kenya,
Pakistan11, Senegal, Sri Lanka12, Viet Nam) [International Monetary Fund (1994,
pag. 115)].
1.2.2 Pvs, politiche commerciali ed esportazioni
Con il termine di NIC ci si riferirà sì ad un gruppo di paesi di nuova
industrializzazione ma, diversamente da quanto fatto dall‟OCSE (che vi include
anche Argentina, Brasile, Grecia, Messico, Portogallo, Spagna e Yugoslavia), in
6
Data l‟assoluta esiguità delle dimensioni (238000 abitanti nel 1993, 300 kmq di superficie,
227 milioni di dollari di PIL) si è deciso di trascurare queste isole classificate come LLDC.
7
Considerato nel gruppo dei paesi orientati all‟interno.
8
Trascurata per le ridotte dimensioni e l‟esiguità dei dati.
9
Incluso tra gli esportatori di servizi.
10
Si veda nota 7.
11
Si veda nota 7.
12
Si veda nota 7.
14
esso vi sono ricompresi solo quelli dell‟Estremo Oriente Asiatico, caratterizzati da
politiche commerciali fortemente orientate all‟esterno e da una rapida crescita: vi
appartengono Taiwan (che nei primi anni ‟50, di fronte ad un alto tasso di
inflazione interna e a un regime di scambi e pagamenti molto restrittivo, intraprese
rilevanti riforme delle politiche commerciali iniziando a sperimentare una rapida
crescita di esportazioni e Pil), Hong Kong e Corea del Sud (che seguirono nei
primi anni ‟60), Singapore (che vi si aggregò nel 1965, una volta staccatosi dalla
Malaysia) e Tailandia, paesi per cui le esportazioni manifatturiere
rappresentarono, mediamente e nel periodo 1984-86, più del 50 di quelle totali;
l‟Indonesia, con un rapporto medio, sempre nello stesso periodo, tra esportazioni
petrolifere ed esportazioni totali superiore al 50; la Malaysia, le cui entrate da
esportazioni non furono dominate né dai manufatti, né dai prodotti primari (e
dunque, secondo la classificazione in base al tipo di esportazione, rientrerebbe
nella classe dei paesi a base d‟esportazione diversificata). I paesi appartenenti a
questo gruppo sono tutti caratterizzati da una graduale liberalizzazione dei regimi
di scambi e pagamenti, mantenuta anche negli anni ‟80.
Dall‟altra parte vi è il gruppo degli Inward Oriented Countries: Pakistan, India, Sri
Lanka, Nepal e Bangladesh, che mantennero anche nel corso degli anni ‟80 le loro
politiche e strategie di sviluppo relativamente orientate verso l‟interno; ciò grazie
anche al loro limitato livello di indebitamento all‟inizio degli anni ‟80 [Krueger
(1990, pp. 88-91)].
Tra gli esportatori di petrolio (le cui entrate da esportazioni petrolifere
risultarono almeno superiori alla metà di quelle totali nel periodo 1984-86) sono
classificati Bahrain, Brunei, Kuwait, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Iran,
Irak, Libia, Oman, Qatar. Questi paesi, descritti come “non popolosi”, dagli inizi
degli anni ‟70 goderono di riserve di valuta estera e di entrate da esportazioni così
ampie che le loro politiche commerciali e di cambio non furono influenzate dalle
necessità di gestione della bilancia dei pagamenti, ma rispondevano a
considerazioni interne; a parte l‟Irak, inoltre, tali paesi furono creditori esterni