8
insomma voglio imparare ad “ascoltare” ciò che la
fotografia mi indica. Al contempo realizzo che il
mio stesso bisogno è anche quello di altri milioni di
persone, che abitano, la società dell’immagine.
Una società che tuttavia, non favorisce l’ascolto
profondo né stimola quello educativo. Sono andato
quindi alla ricerca di uno strumento alternativo col
quale poter educare all’immagine come desideravo
e l’ho trovato nella fotografia d’arte.
Come ogni altra forma di scrittura (foto-phos e
grafia-graphis. Lett. “scrivere con la luce”) la
fotografia comunica, interpreta, emoziona e ci
insegna ma la fotografia d’arte, si distingue, da
tutti gli altri generi perché pretende delle precise
competenze di lettura visiva. Ricordo che è stato
incredibile quando ho ottenuto tali capacità.
Improvvisamente ogni immagine iniziava a
parlarmi nell’animo. Mi accorgevo con il passare
del tempo che non solo stavo iniziando a capire
qualcosa di più sulla tecnica fotografica, sull’arte,
ma iniziavo a capire qualcosa in più sugli uomini,
sul mondo e su me stesso. Riscontrare una valenza
educativa in alcune fotografie, tuttavia, non è
semplice. Serve volontà ma soprattutto un metodo
per scendere in profondità ed evitare di soffermarsi
sulla superficie delle cose. Nella società
dell’immagine tuttavia non è incentivato nulla di
tutto questo, anzi la tendenza generale dei media
è di spingerci a letture in superficie, si pensa a
come moltiplicare le esperienze o a nuovi mezzi
per accedere al reale. Nel flusso comunicazionale ci
si perde e si perde progressivamente anche la
9
capacità di interpretare veramente l’immagine
fissa, l’immagine fotografica. Milioni di analfabeti
dell’immagine invadono una società che
paradossalmente, è sempre più dell’immagine e
sempre meno della scrittura. Roland Barthes al
riguardo ci fornisce, un metodo d’analisi
interessante, per tornare a “sentire” l’immagine.
Il suo metodo
1
però, non è scientifico, anzi lo
stesso autore nega la possibilità di una lettura in
tal senso. I suoi ragionamenti prendono in
considerazione la soggettività pura, puntualizzando
la centralità del referente ed esaltano il silenzio
dell’occhio che indugia, sul punctum-particolare.
Barthes per teorizzare tutto questo parte da un
presupposto, ben preciso: “l’immagine fissa è per
natura predisposta alla rielaborazione dello
sguardo individuale e quindi, alla visione
personale
2
”. Trovo tale affermazione, illuminante ai
fini del mio lavoro, perché è il punto di partenza
per cogliere la grande valenza educativa della
fotografia d’arte. Il metodo di Barthes dunque ci
proibisce di categorizzare l’attrattiva verso una
fotografia. Ciò significa che non dobbiamo
giudicare uno scatto solo ed esclusivamente
secondo le categorie bello/brutto. La fotografia va
giudicata in base allo stimolo. Se c’è, si può
parlare di avventura poiché la fruizione è come un
viaggio, dentro e attraverso sé stessi. Ogni
percorso visivo diventa un’occasione per imparare
e chiaramente più ci si addentra nell’immagine, più
1
Roland Barthes, La Camera Chiara, Torino, Piccola Biblioteca Einaudi, 1980
2
Ivi
10
si percepisce il senso del luogo che si sta
esplorando. Non è un caso che s’inizia a sentire in
modo autentico, solo quando si scende in
profondità. É solo allora, infatti, che possiamo
determinare con certezza se uno scatto ci avviene
3
oppure no. Al riguardo posso aggiungere che è
sempre l’attrattiva che abbiamo verso alcuni
dettagli che anima la foto, che la fa esistere per
noi. C’è un tipo di utilizzatore, ad esempio, che
appena vede uno scatto, comincia a mettere in
azione la sua fantasia; egli vede in ciò la
caratteristica del vero intenditore e giudica il
valore di un’opera secondo l’intensità con cui
questa stimola la sua mente. Roland Barthes non
si limita a questo, la sua riflessione, scaturisce
come conseguenza di una corretta visualizzazione
dell’immagine. Così deve essere per il fruitore
ideale di fotografie d’arte. La foto, per
schematizzare, diventa oggetto di tre emozioni:
Fare, subire e guardare. L’operator è il fotografo
che fa. Lo spectator siamo tutti noi che
compulsiamo, che subiamo l’immagine, o meglio, il
suo messaggio. Infine, ciò che è fotografato, è il
bersaglio. Il referente. Lo spectrum. Inizialmente,
come spectator, m’interessavo alla fotografia solo
per sentimento, quindi mi capitava di giudicare gli
scatti, secondo l’affetto e l’effetto, che mi legava
alle immagini.
3
Roland Barthes, utilizza questo termine per indicare qualcosa che si fa
evento in noi. Si riferisce, quindi, all’avventura che si vive, ogni volta che un
immagine ci attrae, ci colpisce e inevitabilmente ci spinge ad una attenta
lettura. Vedi: Roland Barthes, La Camera Chiara, Torino, Piccola Biblioteca
Einaudi, 1980, p.21
11
Insomma vedevo la fotografia come una ferita: io
vedo, sento, dunque noto, guardo e penso. Capii
ben presto che ciò che attrae davvero in una
fotografia è sempre un dettaglio e su questo
basiamo il giudizio. Barthes lo chiama punctum,
cioè ciò che ci punge. Tutto il resto invece non è
che Studium ovvero gli elementi appartenenti alla
dimensione del piacere o del non piacere. Il
punctum è certamente soggettivo, scovarlo stimola
la nostra mente, induce al ragionamento attivo ci
invita a scendere in profondità e a non fermarci
sulla superficie. Non a caso lo studium è sempre
codificato mentre il punctum no.
Nella fotografia (Vedi Pag.7), sono tanti i punctum:
gli operai mangiano con i guanti sporchi. Portano
tutti la coppola. Un operaio ha in mano una
bottiglia di whiskey... lo studium invece è uno solo,
l’altitudine, che genera un senso di pericolo. Una
lettura superficiale si fermerebbe qui, ma
prendiamo i punctum e iniziamo a ragionare:
Grazie agli indizi presenti nell’immagine ritengo
questa fotografia l’emblema di un’epoca. Il
fotografo denuncia la totale mancanza delle norme
di sicurezza tra gli operai della seconda rivoluzione
industriale. Lo scatto quindi, diventa uno
strumento di denuncia foto-giornalistica, ancora
oggi riconosciuto nelle sale dell’International
Museum of Photography e negli archivi della
Library of Congress. Le coppole ricordano
certamente l’Italia, molti di quegli operai
potrebbero essere miei connazionali immigrati. Ora
12
analizziamo la composizione. Le figure appaiono
piccole se confrontate con la metropoli,
sottostante. New York è immersa in una leggera
nebbiolina. La città si presenta come una giungla
in cui perdersi. “L’uomo della folla
4
” per un attimo
sovrasta la metropoli, la osserva dall’alto
consapevole di doverci rituffare e sparire, dopo il
lavoro. Ebbets, volutamente o no non si limita a
mostrare la città sottostante, ci mostra l’orizzonte
infinito fatto di palazzi, e quartieri, che si
disperdono a perdita d’occhio. Ebbets fissa un
attimo, un attimo che racconta molto di più di una
prospettiva stravagante. Questo scatto mostra
l’altro lato del sogno Americano, quello dei
sacrifici, delle ingiustizie. Questi non erano
semplici operai, erano angeli che costruivano il
futuro degli USA. In questo scatto traspare un
forte senso di umanità, deducibile da svariati gesti:
il penultimo operaio a sinistra sta aiutando il
compagno ad accendersi una sigaretta, i tre al
centro hanno un ghigno scherzoso.
Il metodo d’analisi che ho utilizzato, non è fine a
sé stesso. Come già ho accennato, ci deve essere
una certa volontà all’ascolto e condizioni
ambientali favorevoli. Nella società odierna,
caotica, dispersiva, urlata, rumorosa, la
disponibilità all’ascolto e all’attenzione cala.
4
Edgar Allan Poe, L’Uomo della Folla, in “I Racconti”, vol.1, Torino, Einaudi,
1996
13
I nostri sensi sono iper-stimolati e allo stesso
tempo sempre meno ricettivi.
Ciò di cui abbiamo bisogno, è silenzio. L’unico
elemento ancora in grado di rilanciare una
comunicazione attenta, e funzionale all’educazione.
Devo porre l’accento sul fatto che l’invito al
silenzio, attraverso la fotografia d’arte, non è
mai un invito alla passività, o alla rinunzia,
ma è un invito a scendere in profondità nelle
cose. È un invito a percorrere il terreno della
personalità. Io sosterrò nell’arco del mio lavoro,
l’esistenza di un rapporto stretto tra fotografia
d’arte e il silenzio. Un rapporto che si crea nel
momento della fruizione dell’opera e che veicola
una comunicazione efficace ed efficiente. Voglio
analizzare, comprendere e valorizzare questo
rapporto poiché è una strada possibile per fare,
oggi, educazione all’immagine, proprio nel
momento in cui tutti parlano di società
dell’informazione eccessiva, di flusso, di economia
dell’attenzione.
Sono convinto che nella società dell’informazione
eccessiva, possiamo ancora ambire ad un ascolto
autentico, ma per farlo, il messaggio deve
recuperare come dimensione positiva, l’immobilità
e il silenzio. Dobbiamo riscoprire il valore educativo
della fotografia d’arte. Dobbiamo sostenere un
nuovo stato dell’ascolto. L’ipotesi che propongo è
che oggi: Lo stato dell’ascolto è il contenuto
estetico del silenzio e diventa lo statuto
fondante di uno sguardo educante. Per arrivare
a tale conclusione ho diviso il mio lavoro nel
14
seguente modo: nel primo capitolo della tesi, ho
focalizzato l’attenzione su una dimensione
particolare della fotografia, quella d’arte. Dopo
aver definito lo statuto della fotografia d’arte in
Italia, mi sono concentrato, nel secondo capitolo,
sul contesto ambientale in cui opero: la società dei
flussi. Nel terzo capitolo passo ad analizzare il
grado zero della comunicazione, il silenzio. La
fotografia d’arte ci insegna un nuovo stato
dell’ascolto, che è proprio percezione silenziosa. Su
questo rapporto quindi si basa la possibilità per la
fotografia d’arte di educare. Il silenzio, infatti,
diventa indispensabile per avere uno sguardo
consapevole e stimolare, attraverso l’immagine,
una coscienza critica.
Allo stesso modo, il silenzio non si presenta solo
come, efficiente dimensione dell’ascolto ma è
anche ottimo elemento per comunicare. Non è
vero quindi che laddove c’è silenzio non c’è
comunicazione, anzi c’è ne è di più e migliore. Ne
nasce un paradosso; da un lato, il silenzio nega la
comunicazione, ma dall’altro la favorisce. Laddove
c’è silenzio insomma, c’è assenza di parola, suono,
musica, ma anche una maggiore possibilità
d’ascolto, percezione e comprensione. Il suo valore
comunicazionale, oltretutto è cresciuto
notevolmente negli ultimi anni, in rapporto
indirettamente proporzionale alla quantità di
sottofondo sonoro nell’ambiente sociale. Per capirci
basta un banale esempio: Pensiamo alla fermata
del metrò. Quest’ambientazione urbana, è già per
sua natura caotica e chiassosa.
15
Il vocio della gente, lo stridore del metrò, gli
annunci in filodiffusione, i musicisti che chiedono
soldi ecc. A questo le persone hanno fatto
l’abitudine, anzi non contente, attendono alla
banchina, parlando al cellulare, ascoltando I-pod. É
come se, una volta abituati, a un certo livello di
rumore, necessitiamo sempre di superarlo. Tutto
questo, poi, va moltiplicato per altre migliaia di
situazioni simili. Il risultato è sempre lo stesso, la
nostra mente è sempre più stressata e il nostro
bisogno di silenzio cresce vertiginosamente.
Delineata questa condizione “ambientale” posso
chiudere il mio lavoro col capitolo quattro e
sostenere la necessità di utilizzare la fotografia
d’arte come mezzo per educare alla visione. La
fotografia d’arte ci invita a una nuova dimensione
dell’ascolto, una percezione silenziosa. Così
facendo si dimostra un mezzo controcorrente,
rispetto ai media di flusso.
Un mezzo che rilancia il ragionamento attivo,
profondo, etico, educativo. Fare ecologia
dell’immagine significa proprio questo, insegnare a
vedere per imparare ad ascoltare. Sempre nel
quarto capitolo, prima delle dovute conclusioni, ho
deciso di riportare alcune testimonianze di
persone/professionisti della comunicazione che
hanno in comune il fatto di avere a che fare
quotidianamente, con la dimensione dell’ascolto
silenzioso, col silenzio, con l’arte col flusso. La loro
parola, ma soprattutto il loro lavoro sono la
dimostrazione pratica del mio ragionamento.
16
17
1. Statuto della fotografia
d’arte
In questo capitolo, intendo fare il punto della
situazione d’un rapporto difficile e complesso,
quello tra arte e mezzo fotografico. L’analisi si
sviluppa allo scopo di ricreare un quadro generale,
uno statuto, per quello che da molti è considerato
un genere: la fotografia d’arte. Nel mondo, la
letteratura sull’argomento è piuttosto fiorente,
seppure di nicchia. Gli studiosi, non hanno punti di
vista unitari e ciò conferisce larghe vedute e
confronti vari ed interessanti. Per questo motivo e
per altri, nessuno ha mai scritto uno statuto della
fotografia d’arte che abbia messo d’accordo il
mondo accademico. Non c’è solo il problema di far
collimare vedute divergenti ma c’è anche il fatto di
inquadrare l’arte, di per sé mutevole e sfuggente,
dentro degli schemi statici.
Ho scelto quindi di trattare l’argomento parlando di
“questioni” che ritornano costantemente nella
storia dell’immagine e che mi permettono di
parlare di fotografia d’arte. Quindi se mi domando
cos’è la fotografia d’arte posso dire che è una
questione di genealogia, di funzioni, d’idee, di
essenzialità, di originalità e che sono stati i libri di
fotografi come Stieglitz, Strand, Weston ecc, a
indicarmi metodi e funzioni.
18
1.1 Fotografia e Arte
Quando Sir John Herschel, astronomo, fisico e
chimico suggerisce per l’invenzione di Daguerre e
Talbot il nome greco di fotografia, in altre parole,
scrittura della luce, ne coglie sino in fondo la
natura di linguaggio iconico, nuovo e insieme
antico, incomparabilmente facile da imparare e da
usare rispetto a tutte le precedenti arti visive e a
tutte le lingue scritte o parlate e immediatamente
e universalmente comprensibile. L’immagine
generata dalla nuova invenzione, insomma, è
un’im-magine in cui la luce fisica del sole,
attraverso l’ob-biettivo, è capace di illuminare e
rivelare l’uomo e il mondo. Intendere la fotografia
come mero mezzo di riproduzione del reale è
riduttivo, c’è qualcosa di più soprattutto nel
momento in cui questa incontra l’arte. In un certo
senso anche quest’ultima illumina e rivela l’uomo e
lo fa attraverso l’artista col suo ego e il mezzo che
sia un pennello, uno scalpello o la luce. E ora
chiariamo il secondo punto: cos’è l’arte?
Nel suo significato più ampio, questo termine,
comprende ogni attività umana (svolta
singolarmente o collettivamente) che, poggiando
su accorgimenti tecnici, abilità innate e norme
comportamentali, derivanti dallo studio e
dall’esperienza, porta a forme creative di
espressione estetica.
L’arte va intesa secondo il suo significato
etimologico (dal greco technè) termine che indica
l’esercizio di un lavoro, di una pratica, condotti con
una certa abilità o sapienza. Niente a che fare
19
dunque con la nozione rinascimentale, tesa a
indicare qualcosa di alto e prezioso, evidentemente
non alla portata di tutti, ma neppure niente a che
fare con l’idea di tecnica in senso stretto, quale
insieme un po’ freddo di regole e procedure
codificate manualisticamente, così come spesso si
sente applicare allo stesso campo fotografico.
Nella sua accezione moderna, l'arte è strettamente
connessa alla capacità di trasmettere emozioni e
per questo motivo si sente spesso supporre che le
espressioni artistiche, pur puntando a trasmettere
“messaggi”, non costituirebbero un vero e proprio
linguaggio, giacché non hanno un codice condiviso
tra tutti i fruitori, che interpretano le opere
soggettivamente: “La fotografia d’arte dunque, si
presenta come un messaggio senza codice perché,
paradosso dei paradossi, gli elementi che la
costituiscono non sono autentici segni del
momento
5
”. In effetti, l’idea che la fotografia, sia
solo un’impronta diretta della luce su un materiale
sensibile, ha sempre imbarazzato gli studiosi e i
semiologi. Eppure ciò significa il sostenere
l’esistenza di un linguaggio, significa
inevitabilmente parlare di una scrittura fatta di
luce. Dal 1970 tuttavia, molti studiosi iniziano ad
accorgersi che la tecnologia a fondamento del
processo, pare stabilire comunque una
connessione fisica, una certa contiguità, tra
oggetto-referente e l’immagine. La difficoltà, resta
nel riconoscere alla fotografia, quel rapporto di
5
Roland Barthes, L’Ovvio e l’Ottuso, Torino, Einaudi, 1985