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Secondo Mattioli, il gruppo è “un insieme di tre o più individui che interagiscono fra loro,
cooperando per il raggiungimento di uno scopo comune e sviluppando la consapevolezza di far
parte di una unità sociale autonoma all’interno del sistema sociale” (Mattioli, 2003a, p. 21).
Per “creativo” vogliamo intendere, invece, la capacità del gruppo di far propria la creatività, che noi
rimandiamo alla capacità di produrre idee nuove, e di trovare nuovi modi per esprimerle. La
creatività, in altre parole, è la capacità di prendere spunto dalla fantasia per realizzare qualcosa di
nuovo nella realtà (De Masi, 2003).
Per “dinamica relazionale”, infine, intendiamo sia un particolare processo comunicativo che si
verifica all’interno di un gruppo, sia la capacità del gruppo stesso di relazionarsi ad altri gruppi.
Tutti e tre questi concetti verranno discussi nei capitoli che seguiranno.
Nel primo capitolo tratteremo, infatti, il concetto di “gruppo sociale”, con i più importanti contributi
da parte della sociologia stessa. Per quanto noi vogliamo guardare avanti, non sarebbe possibile
farlo ignorando il lavoro di “vecchi” autori (ma per molti versi ancora troppo moderni) come
Simmel, Lewin, o Goffman.
Nel secondo capitolo tratteremo nello specifico il tema della creatività, così come era concepita
nell’800, e com’è andato sviluppandosi il pensiero a riguardo fino ai nostri giorni. Nello specifico
avremo modo di confrontarci con le idee dell’Arieti (Arieti, 1979) e di De Masi (De Masi, 2003).
Nel terzo capitolo prenderemo in esame alcune tecniche che generalmente vengono utilizzate per
studiare i gruppi sociali, e ci soffermeremo maggiormente su quella adottata per la nostra analisi:
ossia l’osservazione partecipante. Di conseguenza faremo numerosi riferimenti alla Scuola di
Chicago e soprattutto al lavoro di W. F. White (White, 1968).
Nell’ultimo capitolo sarà riportato il risultato di tutta la nostra ricerca, sotto forma di racconto
sociologico, ed avrà come obiettivo proprio quello di capire come il nostro gruppo preso in esame
sia riuscito a svolgere (o a non svolgere) un determinato compito.
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CAPITOLO PRIMO: I Gruppi
“La società non è una semplice somma di individui; al contrario, il sistema formato dalla loro associazione
rappresenta una realtà specifica dotata di caratteri propri. Indubbiamente nulla di collettivo può prodursi se non sono
date le coscienze particolari: ma questa condizione necessaria non è sufficiente. Occorre pure che queste coscienze
siano associate e combinate in una certa maniera; da questa combinazione risulta la vita sociale, e di conseguenza è
questa che la spiega. Aggregandosi, penetrandosi, fondendosi, le anime individuali danno vita ad un essere (psichico,
se vogliamo) che però costituisce un’individualità psichica di nuovo genere”.
(E. Durkheim, Le regole del metodo sociologico, V, p. 102).
“La sociologia (nel senso qui inteso del termine, che è spesso usato in modi equivoci) deve designare una scienza la
quale si propone di intendere in virtù di un procedimento interpretativo l’agire sociale, e quindi spiegarlo casualmente
nel suo corso e nei suoi effetti”.
(M. Weber, Economia e Società, p. 1).
“Il modo in cui ci è dato comprendere i fenomeni della vita ci fa avvertire in ogni punto dell’esistenza una pluralità di
forze; sentiamo che ognuna di esse aspira a superare il fenomeno reale, limita la sua infinità in rapporto all’altra e la
trasforma in pura tensione e in desiderio. In ogni fare, anche nel più creativo e fecondo, sentiamo che qualcosa non è
ancora giunto a completa espressione. Mentre ciò avviene con la limitazione reciproca degli elementi opposti, l’unità
della totalità della vita si rivela proprio nel loro dualismo. E solo nella misura in cui ogni energia interna preme oltre
il limite della sua manifestazione visibile, la vita acquista quella ricchezza di possibilità inesauribili che integra la sua
realtà frammentaria; solo così i suoi fenomeni fanno presentire forze più profonde, tensioni più irrisolte, una lotta ed
un accordo di proporzioni più ampie di quanto riveli la loro realtà immediatamente data”.
(G. Simmel, La Moda, p.11).
“Il palcoscenico presenta delle finzioni; presumibilmente, invece, la vita presenta cose vere e non sempre ben imparate
in precedenza. Cosa ancora più importante, forse, è che in teatro un attore si presenta nelle vesti di un personaggio che
si riflette nei personaggi proiettati dagli altri attori; il pubblico costituisce un terzo elemento dell’interazione: elemento
essenziale, che, tuttavia, se la rappresentazione fosse realtà, non avrebbe occasione di esistere. Nella vita quotidiana i
tre elementi si riducono a due soli; la parte rappresentata da un individuo è adatta alle parti rappresentate dagli altri,
ma questi, a loro volta, costituiscono anche il pubblico”.
(E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, p. 9).
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1.1 IL GRUPPO SOCIALE
All’interno delle associazioni umane si verificano rapporti, eventi e formazioni di natura
psicologica del tutto particolari che non riguardano affatto l’essere umano come singolo, né hanno
origine in lui in quanto tale, ma sono determinati dal fatto che egli fa parte di un gruppo, di un
insieme.
Il gruppo, quindi, diventa di fondamentale importanza sia per l’individuo che per la società stessa,
acquisendo una rilevanza sociologica tale da portare ad intendere con la parola “gruppo” qualcosa
di molto più specifico e complesso del semplice “insieme di persone che stanno insieme”. Il gruppo
non è questo, non è un “insieme di persone”. Non è neppure un “insieme”, dato che molto spesso
non è indispensabile che le persone “stiano insieme” per poter dire di formare un gruppo.
Il famoso “senso del noi”, che non a caso lo caratterizza, produce una sorta di gruppo virtuale, che
automaticamente diventa reale nel momento stesso in cui i membri che lo compongono si
riuniscono (Mattioli, 2003a, p. 24)
1
.
Il gruppo, dunque, è prima di tutto proiezione mentale dei membri che ne fanno parte, come a dire
che di gruppi, all’interno di uno stesso, ne esistono molti. Non parliamo di sottogruppi, si badi bene,
ma di confini di gruppo, quei confini che generalmente stanno facendo dannare tutti gli scienziati
sociali che tentano di adottare su di essi metodi scientifici come la network analisys
2
.
Ma tornando al “senso del noi” (o we sense), uno dei primi a parlarne fu, agli inizi del ‘900,
William Sumner. Scrive al riguardo Mattioli:
“[Secondo Sumner] Quando un individuo mette in atto dei comportamenti relazionali nel gruppo agisce come membro
del gruppo, consapevole che tali condotte d’azione derivano dalla stua partecipazione al gruppo e sono significative per
il gruppo stesso”
3
.
Va oltre, Fabietti:
“Il senso di appartenenza è piuttosto una caratteristica di tutti quei gruppi [...] all’interno dei quali un certo
numero di simboli o pratiche [...] possono avere, su chi li condivide, un effetto di tipo “performativo” cioè di
avviare una concatenazione di rappresentazioni tutte afferenti al sentimento della propria identità la quale,
per essere avvertita come tale, non ha neppure bisogno di essere enunciata. [...] l’idea di comunità dovrebbe
essere collegata alle idee di appartenenza, esclusione ed identità”
4
.
Dunque, il senso del noi è qualcosa di più della semplice somma degli individui che ne fanno parte.
Kurt Lewin aveva visto giusto nel traslare la teoria della Gelstat al sociale. Il tutto, tale teoria
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predica, è più della somma delle semplici parti che la compongono, e così anche il gruppo è più
della semplice somma degli individui che lo compongono. Insomma, è come se il gruppo, nel
momento in cui si forma desse vita ad una nuova entità con una nuova identità, nel quale è presente
un continuo processo di ricreazione del gruppo, che, però, è sempre lo stesso, ma mai uguale a se
stesso. Basterebbe, infatti, che un solo membro cambiasse (di carattere magari) per dar vita ad un
gruppo all’apparenza completamente nuovo.
Ma questo non basta ancora per circoscrivere un gruppo sociale
5
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Un gruppo si avrà, quindi, nel momento in cui tre o più individui, interagendo fra loro,
coopereranno per il raggiungimento di uno scopo comune, sviluppando la consapevolezza di far
parte essi stessi del gruppo (Mattioli, 2003a, p.21)
6
.
Da non sottovalutare quei “tre o più individui” che servono per dare vita ad un gruppo. Perché
proprio tre o più?
Georg Simmel, in Soziologie, opera datata 1908, tra i tanti temi che affronta c’è anche quello di
stabilire quale debba essere il numero minimo di individui per dare vita ad un gruppo. Il sociologo
tedesco propone che tale numero debba essere “tre”, per il semplice fatto che due soli individui
rappresentano la mera coppia.
E’ come se uno dei tre elementi, a rotazione, andasse a costituire il “contesto” di gruppo, soprattutto
perché diviene palese la differenza di comportamento, nonché di dialogo, cha si ha tra due e tre
individui. Quella differenza è data proprio dalla presenza della terza persona. In altre parole,
sembrerebbe che quella terza persona rappresenti in un certo senso la “legge”, il “tribunale”, nel
quale vengono “giudicati” gli altri due. Inoltre, non risulta azzardata l’idea che quella terza persona
possa rappresentare la “cultura” nella quale il gruppo si trova, anzi, si ritrova. È, cioè, proprio verso
quella terza persona che gli altri due fanno riferimento e, a volte, sentono di appartenere.
In altre parole, come scrive ancora Mattioli:
“[Secondo Simmel] Perché si verifichi una relazione interpersonale “di gruppo” è necessario che esista un “terzo” che
con la sua compresenza costituisce e rappresenta il contesto di gruppo: inoltre, secondo Simmel, se una coppia perde un
membro scompare l’interazione, mentre un gruppo deve essere in grado di sopravvivere alla perdita di una unità, in
quanto nessuna unità di per sé deve apparire come requisito essenziale dell’esistenza del gruppo”
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Scrive bene Mattioli, “nessuna unità deve apparire come requisito essenziale”. Infatti, come si
vedrà anche dall’esperienza che mi sono proposto come studio, ci saranno sempre una o più unità
che reggeranno le fondamenta del gruppo. Unità senza le quali il gruppo cesserebbe di esistere. Ma
allo stesso tempo tali unità non devono apparire, appunto, come “motori” o “collanti” del gruppo
7
stesso, pur essendoli, soprattutto perché si rischierebbe di perdere gran parte di quella spontaneità
che è cara a Moreno
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.
Cooley distingue, invece, il gruppo primario, fondato su rapporti affettivi, da quello secondario,
fondato, al contrario, su rapporti funzionali.
In particolare, nel gruppo primario i confini sono permeabili, gl’individui spesso entrano ed escono,
o addirittura sono solo delle comparse. Inoltre, è un gruppo che non viene progettato e che si crea,
per dirla appunto con Moreno, spontaneamente. Il gruppo amicale, che risponde a bisogni affettivi e
che viene creato spontaneamente, è un classico esempio di gruppo primario.
Il gruppo secondario, al contrario, viene progettato. È un organigramma, nel quale i soggetti si
ritrovano quasi loro malgrado a farne parte, come se il tutto fosse confezionato, e nel quale si
svolgono ruoli più o meno personalizzati. I colleghi di lavoro danno vita ad un classico esempio di
gruppo secondario.
Pur tuttavia, ed Elton Mayo ne darà quasi una prova lampante nel suo studio sulle operaie di una
fabbrica di materiali elettrici, non è affatto raro che un gruppo secondario possa diventare un gruppo
primario
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Il confine tra i due tipi di gruppo, insomma, è molto sottile. Molto spesso, infatti, il gruppo primario
diventa funzionale (cioè secondario), quando, per esempio, si ritrova ad organizzare un’uscita,
dovendo decidere il posto, l’ora, chi ci deve essere e chi no, ecc., facendoci capire, anche
abbastanza intuitivamente, che sarebbe più giusto parlare di gruppi prevalentemente primari e
gruppi prevalentemente secondari. Addirittura si possono venire a creare gruppi primari all’interno
di gruppi secondari nel momento in cui lo scopo affettivo/emotivo comincia a prendere il
sopravvento su quello materiale/funzionale.
Lo scopo, in particolare, è l’ultimo elemento che dobbiamo accennare per dare un quadro generale
dell’idea di gruppo sociale.
In breve, come visto, un gruppo si forma soprattutto per soddisfare un bisogno, o per portare a
termine uno scopo. Esistono fondamentalmente due tipi di scopi: quelli della sfera affettiva/emotiva
(cioè quelli che rispondono allo stimolo dello stare insieme, di farsi compagnia) e quelli della sfera
materiale/funzionale (che sono quelli che si hanno per lo più nella sfera lavorativa).
Quando lo scopo viene raggiunto nei gruppi primari il gruppo non cade, mentre quando viene
raggiunto (o non viene raggiunto perché il progetto salta del tutto) in quelli secondari, molto spesso
questi ultimi si sciolgono.
Infine, nei gruppi secondari è facile che si vengano a creare degli scopi individuali, proprio perché
non esistono legami forti tra i componenti del gruppo
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