semantica. L’interlocutore è così attivo e propenso ad associare il nome del prodotto a
una situazione positiva.
La comicità ha una lunga e fortunata tradizione nella pubblicità, in particolare in
quella britannica. Gli inglesi, infatti, nella pubblicità, e non solo, preferiscono l’ironia,
spingono l’acceleratore sull’impatto giocoso, la simpatia, la risata. Lo humour e l’ironia
targati UK sono presenti in ogni forma di espressione culturale, dalla letteratura, al
teatro, al cinema e configurano uno stile particolare di comunicazione contraddistinto da
quello di altri paesi.
Un’interessante spiegazione di questo tratto del popolo inglese è quella che viene
data da Frank Lowe, fondatore della Collett Dickenson Pearce e della Lowe Lintas, due
delle agenzie pubblicitarie più famose al mondo, vincitrici di moltissimi premi e
riconoscimenti:
Cose c’è dietro il sense of humour degli inglesi? Se guardiamo alla storia dello humour in
UK, lo vediamo iniziare con questo [scorso] secolo. La Regina Vittoria, con una ormai
famosa affermazione, sostiene “noi non ci divertiamo”. L’Inghilterra è un paese serio. La
media borghesia e l’aristocrazia sono convinte di compiere il proprio dovere nei confronti
di Dio, governando il mondo. Hanno questa grande responsabilità: hanno conquistato il
mondo, devono governarlo, cosa che prendono davvero sul serio. Ma, nel momento in cui
l’Inghilterra inizia a perdere il suo controllo sul mondo, poiché i Paesi conquistati
diventano indipendenti e le guerre la impoveriscono, l’unico meccanismo, che consente
agli inglesi di confrontarsi con questa improvvisa perdita di potere, è ridere di se stessi:
ridere per non piangere. Iniziano così a fare battute e a prendersi in giro. E certo, è molto
più facile, come fanno anche gli ebrei, farsi gioco di se stessi piuttosto che permettere agli
altri di farlo
1
.
Tuttavia, come vedremo nel capitolo dedicato più specificamente allo humour,
l’umorismo inglese ha origini più lontane di quelle individuate nel periodo della fine del
glorioso Impero ed è in qualche modo connaturato alla natura inglese.
L’umorismo inglese è diverso da quello italiano: è più sottile, fa ridere
sommessamente e cerca una partecipazione veramente attiva da parte dello spettatore.
Questo perché, come spiega John Webster, copywriter, art director e director di
numerose campagne di successo: « […] in Inghilterra c’è una sorta di sfiducia nell’hard
selling, si deve perciò entrare nella mente del consumatore in altri modi. Si deve essere
più sottili, meno aggressivi. Se ci si vuole far ascoltare da un inglese prima ci si deve far
amare. E lo humour aiuta in questo senso. Inoltre la gente, in Inghilterra, odia chi si
1
Cit. in M.A. POLESANA, La pubblicità intelligente. L’uso dell’ironia in pubblicità, Milano, Franco
Angeli, 2005, p. 103.
3
prende troppo sul serio»
2
.
Nella pubblicità italiana, invece, prevale la comicità, una comicità facile e
immediata, rispetto all’ironia e allo humour, che, anzi, spesso non vengono capiti.
Comicità figlia della commedia all’italiana e che si porta ancora dietro l’eredità di
Carosello. Serialità e iteratività delle formule e dei personaggi, continuo riciclaggio dei
motivi e dei generi della cultura popolare mediatizzata (cinema, teatro, TV), per lo più
in chiave di parodia, e atmosfera scanzonata continuano a essere le caratteristiche della
pubblicità umoristica italiana. Per questo motivo, volendo trattare dello humour come
tecnica pubblicitaria, la scelta è caduta su una serie di spot britannici.
Il presente lavoro inizia con una trattazione introduttiva sulla pubblicità, che ha
l’intento di evidenziare i mutamenti che essa ha subito e continua a subire nel passaggio
dalla modernità alla post-modernità. In particolare, sono stati affrontati il rapporto di
scambio reciproco che essa sta avendo con la società attuale e l’evoluzione del suo
linguaggio e delle sue tecniche in funzione dei cambiamenti sociali e culturali in corso,
ripercorrendo anche le tappe principali della sua storia. Con il secondo capitolo si entra,
invece, nel vivo dell’argomento oggetto di questo lavoro e, cioè, lo humour. Se ne
individuano i meccanismi di funzionamento, con riferimento alle principali discipline
che se ne sono interessate (filosofia, linguistica, antropologia, sociologia, psicologia
ecc.), se ne ripercorre a grandi linee la storia, per arrivare a trattare del suo utilizzo in
pubblicità, proprio nell’ottica di quel passaggio evolutivo che la pubblicità sta
conoscendo, mettendo anche in risalto i vantaggi e gli svantaggi di una tecnica
pubblicitaria che allo humour si affida.
La parte finale di questo lavoro è costituita dall’analisi di due campagne
pubblicitarie, la prima realizzata dalla John Smith’s e la seconda dalla Goodyear, che
utilizzano, con strumenti e modalità differenti, lo humour quale principale tecnica
pubblicitaria e comunicativa.
2
Ibidem.
4
Capitolo 1
LA PUBBLICITÀ
1.1 Introduzione
Nel mondo sviluppato la pubblicità è una presenza costante, invasiva, dicono molti.
Una lunga e consolidata tradizione la definisce come stupida, noiosa, irritante, banale.
C’è pubblicità nei giornali e alla radio, nei programmi televisivi e al cinema, in Internet
e per strada, sui muri e sopra e dentro tram e autobus, nelle vetrine, sui sacchetti di carta
che ci portiamo in giro, nelle stazioni della metropolitana e negli aeroporti, nelle nostre
cassette delle lettere e fin dentro borse e tasche in forma di sms scritti sul display del
telefono cellulare. Entra non richiesta nelle nostre case, si intrufola nei programmi, ci
sottrae parte del piacere di assistere, senza fastidiose interruzioni, a ciò che stiamo
vedendo. Vi è sempre stato, inoltre, diffuso nel pubblico, una sorta di timore paranoico
della pubblicità quale persuasione occulta, di chi cioè approfitta della nostra labilità
psicologica per farci comperare ciò di cui non abbiamo bisogno, commettendo così una
sorta di microviolenza quotidiana sulle nostre scelte, tale da generare un diffuso
sentimento di difesa e diffidenza. Eppure negli ultimi anni, gli anatemi nei confronti
della pubblicità si sono attenuati, inediti fenomeni non solo di goodwill verso la
pubblicità ma anche vere forme di publimania hanno assunto crescente consistenza: i
termini “utile” e “divertente” (con cui, nei rari casi di consenso verso la pubblicità, se ne
legittimava la preferenza) sono apparsi riduttivi per definirne l’accettazione.
Ma la pubblicità, che in termini semplici può essere definita come un «sistema di
tecniche di comunicazione persuasiva, utili a promuovere i consumi»
3
, non è solo
costituita da una quantità di messaggi diffusi in una serie di luoghi fisici. È un luogo
della mente, produce segni e senso, interagisce con i desideri e i bisogni, influisce sulle
3
A. TESTA, La pubblicità, Bologna, Il Mulino, 2004, p. 9.
5
categorie estetiche e sui linguaggi, sul nostro stile di vita, sui criteri di giudizio e sui
valori. La pubblicità è, quindi, inevitabilmente, parte della scena sociale, la sua
evoluzione è parte della nostra storia. Essa è il risultato diretto dei cambiamenti e degli
sviluppi della società, in quanto la influenza e ne è influenzata. I pubblicitari utilizzano
linguaggi, immagini, idee e valori che fanno parte della cultura e creano messaggi che
vengono, a loro volta, inseriti nella cultura. Anche se noi non crediamo a quello che i
messaggi pubblicitari dicono riguardo a questo o a quel prodotto, la loro influenza è
senza dubbio forte. La pubblicità fornisce immagini della realtà e definisce il tipo di
persona che noi possiamo essere e il tipo di vita che possiamo condurre.
In sostanza, la pubblicità è una particolare forma di comunicazione che viene
commissionata dalle aziende agli specialisti del settore per poter raggiungere molteplici
obiettivi di tipo commerciale. Proprio per questo motivo essa riveste un ruolo sociale
particolarmente importante: rappresenta l’elemento che svolge il ruolo cruciale nel
processo di produzione della cultura promozionale, in quanto oggi qualsiasi oggetto
sociale, per avere successo, deve essere concepito come se fosse una pubblicità per se
stesso, come se fosse, cioè, una marca aziendale che ha il compito di sedurre il
consumatore. Per questo la pubblicità è estremamente pervasiva: non solo vende beni e
servizi, ma costituisce un bene essa stessa.
La pubblicità è una forma di comunicazione che si presenta come esplicitamente di
parte e non si nasconde, come fa ad esempio l’informazione giornalistica, dietro una
neutralità che viene dichiarata ma che, dati gli interessi economici e politici coinvolti,
non è riscontrabile nella realtà. In qualche modo, essa tende a stabilire un patto con il
suo interlocutore che rende più manifeste le sue intenzioni e dunque più facilmente
smascherabile il suo operato.
La pubblicità commerciale è solo una, la più vistosa, delle molte forme di
comunicazione intese a suscitare consenso a cui siamo esposti. Anzi, tra le molte forme
di comunicazione persuasiva, quella commerciale, spudorata e invasiva come appare, è
anche l’unica ad esplicitare l’intento di persuadere. È, inoltre, in buona misura confinata
in spazi e tempi identificabili sui mass media. Anche quando assume i modi indiretti
della promozione e della sponsorizzazione mantiene, per necessità, una dose di
chiarezza per quanto riguarda l’obiettivo di vendere qualcosa, o di creare gradimento e
simpatia attorno a qualcosa che può essere comprato e venduto. Poiché il suo carattere
6
persuasivo è palese, volendo ci si può regolare di conseguenza, magari attivando una
risposta automatica di diffidenza.
Per dirla con Dyer:
the primary function of advertising is to introduce a wide range of consumer goods to the
public and thus to support the free market economy, but this is clearly not its only role;
over the years it has become more and more involved in the manipulation of social values
and attitudes, and less concerned with the communication of essential information about
goods and services. In this respect it could be argued that advertising nowadays fulfils a
function traditionally met by art and religion
4
.
Lo scopo della pubblicità è di creare e convertire potenziali consumatori, quindi i
messaggi pubblicitari sono deliberatamente e consapevolmente articolati.
Certamente la pubblicità è considerata non solo una guida per l’acquisto dei prodotti,
ma anche un laboratorio di creazione di modelli da seguire per i comportamenti adottati
in tutto l’ambito della vita quotidiana. Come hanno messo in luce Francesco Casetti e
Ruggero Eugeni
5
, la pubblicità mobilita tre tipi di sapere:
come “conoscenza pratica”, che consente di risolvere le difficoltà che si
presentano nella vita quotidiana;
come “autoriconoscimento”, ovvero come possibilità di conoscersi ed
esplorarsi;
come “chiave per il mondo”, cioè come forma di galateo utile per gestire con
efficacia le molteplici relazioni sociali comportate da una società sempre più
complessa.
Le più avanzate conoscenze odierne rispetto al funzionamento della pubblicità portano,
infatti, a considerare quest’ultima come uno strumento che opera non determinando
direttamente delle azioni negli individui, ma stimolando il crearsi di un ambiente
mentale, di un contesto culturale e di una disposizione d’animo favorevoli, che potranno
successivamente tramutarsi nelle azioni desiderate da parte delle imprese. Per ottenere
questo risultato, i pubblicitari cercano soprattutto di associare ai prodotti significati e
immagini immateriali. Il consumatore, infatti, più che la soddisfazione di bisogni di tipo
funzionale, cerca nei prodotti una ricca gamma di significati sociali: il successo, il
4
G. DYER, Advertising as communication, Londra, Routledge, 1995, p. 2.
5
Cit. in V. CODELUPPI, Che cos’è la pubblicità, Roma, Carocci, 2001, p. 22.
7
potere, la considerazione pubblica, la bellezza, la salute ecc. Anzi, solitamente non
acquista un prodotto se prima questo non è stato dotato di specifici significati da parte
della pubblicità e del marketing aziendale. In tale processo, un ruolo fondamentale è
svolto dalla struttura formale posseduta dalla comunicazione pubblicitaria, ma un altro
ruolo ugualmente importante è riservato a quei grandi sistemi culturali, contenenti
significati e conoscenze, che esistono stabilmente nella società e ai quali la pubblicità
deve necessariamente fare riferimento.
La pubblicità, pertanto, può essere considerata, nell’attuale cultura sociale, l’attore
principale di due processi di trasferimento di significati e valori che avvengono nel
medesimo momento: dalla pubblicità al prodotto e da questo al consumatore attraverso
l’atto di acquisto. Tutto ciò, ovviamente, non potrebbe realizzarsi senza l’apporto
fondamentale dei consumatori; ne consegue che la pubblicità è meno potente di quello
che abitualmente si ritiene, come è d’altronde dimostrato anche dal fatto che i suoi
messaggi hanno efficacia soltanto se operano congiuntamente ad altre pratiche di
marketing. Ciò, però, non deve indurre a pensare che essa non produca effetti concreti.
Oggi si tende a pensare che il tipo di influenza esercitato dalla pubblicità sia del tutto
simile a quello che viene quotidianamente esercitato dalle altre istituzioni sociali che
diffondono messaggi dotati di grande forza: la televisione, il cinema, la carta stampata
ecc. Inoltre, bisogna considerare le possibilità che la pubblicità possa produrre anche
effetti sociali positivi. Comunque, la vera natura del ruolo sociale esercitato dalla
pubblicità è quella di «specchio deformante»
6
rispetto ai valori sociali. «La pubblicità
attinge ma al tempo stesso contribuisce a costruire il nostro immaginario collettivo, i riti
e i miti del nostro tempo. Si ispira all’inesauribile serbatoio degli accadimenti
dell’attualità, è uno specchio quotidiano, costante dei nostri gusti, delle nostre idee»
7
.
Un ruolo certamente legato alla capacità della pubblicità stessa di produrre una
raffigurazione ridotta e semplificata della realtà sociale, nella quale le persone
rappresentate sono irreali perché incarnano semplicemente categorie demografiche o
tipi sociali astratti, anziché persone definite con precisione, come avviene abitualmente
nella letteratura e nel cinema. La pubblicità, infatti, avendo la necessità di comunicare
velocemente e a un livello estremamente semplice, privo di ambiguità, fa in modo che
6
V. CODELUPPI, op. cit., p. 18.
7
G. Fabris (1997), cit. in M.A. POLESANA, La pubblicità intelligente. L’uso dell’ironia in pubblicità,
Milano, Franco Angeli, 2005, p. 18.
8
le espressioni facciali, le pose, i comportamenti e le situazioni reali dei soggetti
rappresentati tendano a un elevato grado di standardizzazione e cerca di annullare le
differenze individuali. Crea cioè quel fenomeno che Goffman ha denominato
«iperritualizzazione»
8
, in quanto produce rappresentazioni pubbliche delle persone
(soprattutto per ciò che riguarda il loro ruolo sessuale), delle attività e delle situazioni
fortemente stereotipate. La pubblicità attinge pertanto agli elementi simbolici e agli
stereotipi culturali comuni con cui gli individui cercano di solito di dare un senso alla
propria vita e al mondo che li circonda.
Ma qual è dunque la natura della pubblicità? La tesi prevalente è che essa sia uno
strumento di costruzione della realtà sociale. In quanto tale, viene fortemente
influenzata da come la realtà è percepita dai soggetti, ma produce a sua volta
un’influenza su tale percezione. Pertanto, contribuisce evidentemente ad indebolire,
rafforzare o comunque modificare il senso di tutti i materiali culturali che utilizza. Può
dunque essere vista, anche a causa della sua natura pervasiva, che la porta ad occupare
molteplici spazi sociali, e della ripetitività dei suoi messaggi, come una delle più
importanti istituzioni culturali del mondo odierno.
1.2 Un po’ di storia
La pubblicità non era sconosciuta nell’antica Grecia e a Roma: uno dei primi metodi
utilizzati per pubblicizzare qualcosa fu, infatti, quello delle scritte ritrovate sui muri di
Pompei e sulle rovine dell’Antica Roma: si trattava di insegne, in genere costituite da
segni vistosi, dipinte sulle pareti e sugli edifici che annunciavano feste, gare, spettacoli
o fiere.
In generale, comunque, nell’antichità la necessità di pubblicizzare è nata soprattutto
con il passaggio dall’offerta di prodotti per strada a quella all’interno di un locale chiuso
come la bottega. Questo passaggio rese necessario ricorrere ad un segnale esterno
particolarmente vistoso per richiamare l’attenzione dei passanti.
Fu soprattutto nel Rinascimento, con il grande sviluppo delle città e dei traffici
commerciali internazionali, che si manifestò quell’esigenza di valorizzare le virtù di un
prodotto che è alla base del funzionamento della pubblicità contemporanea. Esigenza
8
V. CODELUPPI, op. cit., p. 18.
9
che all’epoca, in realtà, non esistendo ancora i giornali, veniva prevalentemente
soddisfatta dai venditori ambulanti, i cosiddetti banditori, che davano luogo ad una
semplice ma efficace forma di pubblicità, le cui formule linguistiche stentoree hanno
influenzato per lungo tempo il linguaggio pubblicitario, che ancora oggi ne reca delle
tracce.
Ma se è sempre stato vero che per vendere beni e servizi bisogna farli conoscere e
presentarli in una luce favorevole, il salto di qualità dalla semplice segnalazione
dell’esistenza di merci alla formulazione di messaggi progettati per promuovere le
vendite e strutturati per essere diffusi su larga scala avviene solo qualche secolo fa,
quando si verificano due condizioni: nasce l’industria e nascono i mezzi di
comunicazione di massa. La pubblicità nasce, dunque, quando produttore e
consumatore non sono più in contatto diretto, quando i beni di consumo prodotti in
migliaia di esemplari vengono fatti conoscere dai mezzi d’informazione, che stampano
migliaia di copie, e sono trasportati dai mezzi di comunicazione che riforniscono con
regolarità i più lontani mercati.
Si può dire, in sostanza, che la pubblicità, così come oggi la conosciamo, nasce con
la stampa: dalla metà del XV secolo, infatti, dopo l’invenzione della stampa a caratteri
mobili, fu possibile affiggere nelle strade delle principali città europee i primi manifesti
stampati. Il 17 ottobre 1482 Jean du Prè realizzò un manifesto per il grande perdono di
Notre Dame de Reims, e nel 1498 Pierre Le Caron pubblicò un piccolo manifesto per
l’entrata di Luigi XII a Parigi
9
, mentre nel 1477 il manifesto realizzato dallo stampatore
inglese William Caxton per promuovere le cure termali a Salisbury, rappresenta
probabilmente il primo esempio di manifesto di tipo commerciale
10
.
Fino all’Ottocento, comunque, i manifesti furono per lo più costituiti da avvisi
ufficiali, l’opportunità offerta al commercio dalla diffusione di materiali stampati non
venne colta con immediatezza, e d’altra parte l’uso dei manifesti era sottoposto a rigide
regolamentazioni.
Nel Seicento, grazie all’evoluzione delle tecniche di stampa, nei principali paesi
europei potè iniziare la diffusione delle gazzette (in Germania e Olanda nel 1609, in
Francia nel 1620, in Inghilterra nel 1622) e con esse nacque anche la réclame, quella
che possiamo considerare la prima vera forma di pubblicità, ancora priva di illustrazioni
9
A. TESTA, op. cit., p. 47.
10
V. CODELUPPI, op. cit., p. 7.
10
e basata su un testo simile a quello degli articoli giornalistici. I primi ‘veri’ annunci
pubblicitari appaiono nel 1629 sul Mercurius Britannicus e nel 1631 sulla Gazette di
Parigi
11
. Si trattava di brevi testi privi di illustrazioni, paragonabili a quelle che oggi
vengono definite classified o small ads. Le più significative pubblicità di questo periodo
furono, indubbiamente, quelle dei medicinali brevettati e delle cure miracolose.
Dalla metà del XVII secolo la gamma e i tipi delle pubblicità iniziarono a modificarsi
a seguito di un processo di sviluppo che portò il messaggio pubblicitario dalla semplice
‘raccomandazione’ dei prodotti a contemporanei esempi di persuasione e propaganda,
divenendo così molto più diretto e meno sobrio. In questo stesso periodo cominciano a
diffondersi in Inghilterra giornali di soli avvisi pubblicitari, primo fra tutti The Public
Advertiser
12
.
Fu soltanto nel Settecento, comunque, che cominciò a diffondersi massicciamente la
réclame sui giornali, soprattutto su quelli inglesi come il Tatler, creato nel 1709, e lo
Spectator, fondato nel 1711. Nel XVIII secolo, infatti, il numero delle persone che
sapeva leggere crebbe enormemente, così come crebbe il tempo disponibile per farlo tra
le classi medie e alte. I giornali e le pubblicazioni commerciali fiorirono, insieme al
volume delle pubblicità in essi contenute. Lo stile continuava comunque ad essere
quello dei classified ads; solo raramente venivano usate semplici illustrazioni per
attrarre l’attenzione del lettore.
Grazie all’invenzione della litografia, creata da Aloys Senefelder nel 1796, dai primi
decenni dell’Ottocento i primi manifesti murali con immagini in bianco e nero e
caratteri a stampa cominciarono a tappezzare i muri delle città più importanti come
Londra e Parigi.
I giornali, infatti, erano letti da un pubblico alfabetizzato ancora troppo limitato
rispetto alle esigenze di comunicazione verso le nuove masse urbane che le imprese
venivano sempre più sviluppando. Per i manifesti, tuttavia, veniva ancora
prevalentemente adottato un tipo di costruzione grafica che, come gli annunci stampa
sino a quel momento realizzati, era fortemente condizionato dal modello proprio del
libro e delle scrittura letteraria: un testo scritto con una struttura tipografica compatta,
indifferenziata e lineare, con solamente qualche titolo per movimentare l’insieme. Si
trattava, cioè, di una pubblicità concepita essenzialmente per essere letta.
11
A. TESTA, op. cit., p. 47.
12
Ibidem
11