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Secondo le più recenti ricerche, i danni sarebbero numerosi e non lievi: da quelli di
carattere fisico (postura scorretta e alimentazione sbagliata), a quelli di tipo psicologico,
dall’imitazione della violenza, all’induzione al consumo, dalla interiorizzazione di
stereotipi culturali e sociali errati, a una visione alterata dei rapporti sociali,
dall’apprendimento della volgarità ad una precoce o distorta educazione sessuale.
L’assunzione di responsabilità da parte dei gestori delle emittenti, dei produttori
televisivi, dei pubblicitari, pertanto non può più essere rinviata e già da qualche tempo ci
si è resi conto della necessità di regolamentare la programmazione televisiva in modo da
eliminare o almeno limitare eventuali danni arrecati al pubblico dei minori.
Nel 1989 La Convenzione Onu per i diritti del fanciullo pose con forza il problema
all’attenzione internazionale: l’articolo 17 si occupava dei mezzi di comunicazione e
sanciva il diritto del bambino a non essere danneggiato da essi
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.
In Italia, sin dall’inizio degli anni Novanta, la linea fu quella di affidare la tutela dei diritti
dei minori davanti alla tv a un Codice di autoregolamentazione. Si trattava di una
soluzione che avrebbe potuto apparire una sorta di escamotage, che affidava la soluzione
del problema alla coscienza e responsabilità individuale delle emittenti firmatarie,
vincolandole al rispetto di norme che esse stesse avevano sottoscritto, ma allo stesso
tempo evitava bene qualsiasi forma di censura, che sarebbe stata per di più
anticostituzionale. Un primo Codice venne sottoscritto dalle emittenti private nel 1993,
seguito successivamente da un documento di più ampia portata, il Codice di
autoregolamentazione del 1997, meglio noto come “Codice Prodi”, rinnovato a sua volta
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Art.17: «Gli Stati parti riconoscono l’importanza della funzione esercitata dai mass media e vigilano
affinché il fanciullo possa accedere a una informazione e a materiali provenienti da fonti nazionali e
internazionali varie, soprattutto se finalizzati a promuovere il suo benessere sociale, spirituale e morale
nonché la sua salute fisica e mentale. A tal fine, gli Stati parti: a) incoraggiano i mass media a divulgare
informazioni e materiali che hanno una utilità sociale e culturale per il fanciullo e corrispondono allo spirito
dell’art. 29; b) incoraggiano la cooperazione internazionale in vista di produrre, di scambiare e di divulgare
informazioni e materiali di questo tipo provenienti da varie fonti culturali, nazionali e internazionali; c)
incoraggiano la produzione e la diffusione di libri per l’infanzia; d) incoraggiano i mass media a tenere
conto in particolar modo delle esigenze linguistiche dei fanciulli autoctoni o appartenenti a un gruppo
minoritario; e) favoriscono l’elaborazione di principi direttivi appropriati destinati a proteggere il fanciullo
dalle informazioni e dai materiali che nuocciono al suo benessere […]».
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nel 2002. Allo stesso tempo, i diritti dei minori hanno trovato un primo riconoscimento
legislativo, sia nelle leggi che hanno regolato il sistema radiotelevisivo (la 223/90, la
249/1997 e la 112/2004) sia in disposizioni normative nate sulla spinta di alcune direttive
europee. Quanto ai programmi di informazione, la categoria giornalistica si è dotata di
numerosi codici deontologici, a partire dalla Carta dei Doveri del Giornalista, fino alla
Carta di Treviso, ma in essi, oggetto della tutela, sono i minori in quanto oggetto
dell’informazione, cioè nel caso specifico della televisione, solo i minori in tv e non i
minori davanti alla tv. Lo stesso per quanto riguarda la legislazione sulla privacy, che in
Italia è attualmente contenuta nella Costituzione (articoli 15 e 21), nel Codice penale
(Capo III - Sezione IV) e - parzialmente - nel Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196,
intitolato Codice in materia di protezione dei dati personali, noto anche come Testo unico
sulla privacy.
Il D.Lgs 196/2003 abroga la precedente legge 675/96, Tutela delle persone e di altri
soggetti rispetto al trattamento dei dati personali, che era stata introdotta per rispettare gli
Accordi di Schengen ed era entrata in vigore nel maggio 1997. Con il tempo a tale norma
si erano affiancate ulteriori diverse disposizioni, riguardanti singoli specifici aspetti del
trattamento dei dati, che sono state riassunte nel Testo Unico vigente, entrato in vigore il
1º gennaio 2004.
Si è scelto di suddividere la tesi in quattro capitoli:
-le fonti costituzionali alle quali la «pubblicità commerciale» viene ricondotta
-le leggi che hanno disciplinato il sistema radiotelevisivo
-le regole imposte dai vari codici di autodisciplina
-disciplina e tutela dalla pubblicità ingannevole e comparativa, seguita dall’analisi di casi
di ingannevolezza degli spot televisivi nei confronti dei minori.
L’obiettivo principale di questo lavoro è quello di comprendere quale sia il giusto limite
tra pubblicità televisiva e il diritto del minore ad una sana ed equilibrata crescita.
Nel primo capitolo cercheremo di analizzare la rilevanza giuridica della pubblicità e la
base posta a fondamento della sua disciplina, che pare sdoppiarsi, oscillando fra le norme
di cui agli artt. 21 e 41 Cost. Conclude il primo capitolo la definizione e la riflessione sul
concetto di “pubblicità radiotelevisiva” che ritroviamo nel Testo Unico della
Radiotelevisione.
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Le fonti normative saranno, invece, approfondite nel capitolo secondo: partendo dalla
legge 6 agosto 1990 n. 223 (c.d. Legge Mammì), proseguendo con la legge 31 luglio 1997
n. 249 (c.d. legge Maccanico), fino ad arrivare alla legge 3 maggio 2004 n. 112 (c.d. legge
Gasparri). Ognuna di queste norme ha rappresentato, chi più e chi meno, un importante
passo verso la diffusione di una cultura televisiva all’insegna del rispetto e della tutela
dell’utenza minorile.
Nel terzo capitolo ci occuperemo delle fonti deontologiche: il Codice di Autodisciplina
Pubblicitaria e il Codice di Autoregolamentazione Tv e minori, con particolare attenzione
alle disposizioni a tutela del minore.
Nel capitolo conclusivo, cercheremo di esaminare la disciplina e la tutela dalla pubblicità
ingannevole e comparativa e i problemi applicativi, analizzando casi di violazione rilevati
dagli organi incaricati al controllo e all’applicazione delle regole a tutela del minore.
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CAPITOLO 1 : FONTI COSTITUZIONALI
1.1 RILEVANZA GIURIDICA DELLA PUBBLICITÀ
La pubblicità è una forma di comunicazione. Più precisamente, come la stessa parola
suggerisce, è una forma di comunicazione al pubblico, cioè di quel tipo di comunicazione
che, invece di indirizzarsi a singoli soggetti in modo diretto e personale, si rivolge
impersonalmente alla collettività attraverso i mass-media o comunque mediante mezzi di
veicolazione idonei a trasmetterla ad un numero indeterminato di persone. Funzione di
tale comunicazione, quali siano le forme che essa assume, è in genere sollecitare nei suoi
destinatari un certo comportamento economico, di regola consistente nella domanda di
prodotti o servizi. La peculiare caratteristica di questo tipo di comunicazione non si
esaurisce nel rapporto contrattuale fra l'impresa e il singolo consumatore, poiché i mezzi e
le tecniche di cui si avvale moltiplicano a dismisura la sua efficacia oltre che dal punto di
vista quantitativo, anche qualitativamente, configurandola in modo diverso dalla semplice
comunicazione commerciale privata. Di qui il sovrapporsi, agli aspetti strettamente
privatistici, di altri di diversa natura, in relazione ai quali la pubblicità si configura come
un fenomeno che coinvolge l'intera collettività.
Sotto questo angolo visuale essa assume anzitutto rilievo giuridico come fatto pericoloso
o potenzialmente lesivo di interessi collettivi propriamente riferibili al ceto dei
consumatori, quali in particolare la fede pubblica nella sua più vasta accezione, o anche
(come corrispondente ad un interesse sociale) il diritto dei singoli alla libera
autodeterminazione. E ancora, come strumento d'impresa finalizzato all'acquisizione della
clientela, la pubblicità assume rilevanza giuridica anche in relazione agli interessi degli
imprenditori concorrenti nella misura in cui possa falsare il libero gioco della
competizione commerciale.
Ma il fenomeno può presentare rilevanza, anche indipendentemente dalle finalità
economiche che persegue, come puro fatto di comunicazione al pubblico. Entrano qui in
gioco altri interessi collettivi, non più riferiti ai soli consumatori o concorrenti ma a tutti i
soggetti suscettibili d'essere toccati dalla comunicazione pubblicitaria, interessi come
l'ordine pubblico e la pubblica morale, le convinzioni civili e religiose, la tutela dei
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minori, la salute e la sicurezza della collettività, la fruizione dei mass-media, l'estetica dei
luoghi pubblici e molti altri ancora.
Può dirsi dunque che la pubblicità acquista un rilievo giuridico in relazione alle varie e
diverse categorie di interessi con cui è permanentemente in rapporto, e che i confini della
sua liceità sono segnati dalle norme poste a tutela di tali interessi, da considerarsi come
altrettanti limiti alla libera esplicazione di questo tipo di comunicazione.
1.1.1 Gli aspetti costituzionali
Considerato che la pubblicità è comunicazione al pubblico riguardante un'iniziativa
economica, e quindi partecipa al tempo stesso, sia della natura di manifestazione di
pensiero sia di quella di attività economica, il diritto alla libera diffusione della pubblicità
potrebbe in astratto essere riferito tanto al precetto dell'art. 21 della Costituzione della
Repubblica (diritto di libera manifestazione del pensiero con ogni mezzo di diffusione),
quanto a quello dell'art. 41 (libertà dell'iniziativa economica privata).
Restano però fermi i limiti posti dallo stesso art. 41, comma 2, secondo cui l'iniziativa
privata non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla
sicurezza, libertà e dignità umana, rinviando alla legge per la determinazione dei
programmi e dei controlli diretti a coordinarla e ad indirizzarla ai fini sociali.
Sussistono invece molti dubbi circa la possibilità di ricondurre la pubblicità nella sfera di
applicazione dell'art. 21 della Costituzione, ed è stata proprio la Corte Costituzionale a
sollevarli, interpretando la norma in questione come intesa a garantire solo la libertà delle
comunicazioni "di cultura, di opinione e di informazione", fra le quali non rientrerebbe la
pubblicità commerciale.
Sul piano pratico, l'esclusione della pubblicità dalle manifestazioni di pensiero tutelate
dall'art. 21 e la sua inclusione fra le attività economiche contemplate dall'art. 41 si riflette
nella possibilità di assoggettarla a limiti per fini di utilità sociale nonché a tutela delle
fondamentali libertà del cittadino.
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1.2 LA TRASFORMAZIONE DELLE PUBBLICITA’ «COMMERCIALE», FRA
LIBERTA’ DI MANIFESTAZIONE DI PENSIERO E LIMITI ALL’INIZIATIVA
ECONOMICA PRIVATA
Oggi, l'espressione della libertà di manifestazione del pensiero valorizzata al punto da essere
indicata come «pietra angolare dell'ordinamento democratico» è affidata ai più diversi
mezzi, facendo cosi sorgere due interrogativi: la natura fondamentale del diritto è in grado
di riflettersi su qualsiasi veicolo adatto al suo esercizio, offrendo a questo una tutela
giuridica appropriata?
L'evoluzione delle modalità di comunicazione intesa come divulgazione del pensiero,
individuale e collettivo, dai più diversi contenuti e forme, non riguarda solo lo sviluppo
tecnologico dei mezzi relativi, ma anche il nesso fra il valore riconosciuto alla libertà di
parola e gli strumenti che permettono di realizzarla in concreto.
Fra i molti sviluppati dalle tecniche più innovative e adatti alla comunicazione, uno in
particolare sembra aver acquistato una capacità simile: nel volgere di pochi decenni la
pubblicità ha subìto una trasformazione forse impensabile per il Costituente. II fenomeno,
da sempre inteso secondo la formula restrittiva della pubblicità «commerciale», è oggi in
parte mutato.
Nell’interpretazione generalmente accolta, la Costituzione concepisce difatti l’iniziativa
di cui all'art. 41, comma 1 quale «libertà del cittadino» limitata, però, dal
«contemporaneo riconoscimento costituzionale di altre libertà».
Dunque, l'iniziativa economica privata veniva intesa dai Costituenti come libertà che non
può intralciare il pieno sviluppo delle altre e alcuni valori come l'utilità sociale, la
sicurezza, la libertà e la dignità umana.
Quale fenomeno si cela oggi dietro la nota formula della pubblicità «commerciale»?
E’ evidente la natura multiforme della stessa: strumento per la promozione di prodotti
d'utilizzo diffuso, veicolo di comunicazione di messaggi diversi (dalla prevenzione
medica alla propaganda politica, dalla divulgazione scientifica alla diffusione di
campagne di utilità sociale, ecc), esercizio stilistico in bilico fra una concezione di arte
del tutto innovativa e una tradizionale visione dell'attività imprenditoriale.
Proprio questa natura, però, fa sorgere incertezze sulla base giuridica cui ricondurre la
materia. Attualmente, la forma della pubblicità accoglie infatti contenuti diversi.
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L'articolo 41 Cost. insinua il dubbio che la pubblicità possa avere a volte, in realtà, una
portata ben diversa da quella connessa alla sola o, meglio, a quella finora accettata
realizzazione dell'iniziativa economica privata.
Lo sviluppo che ha investito la pubblicità «commerciale» pare quantomeno sdoppiare la
base giuridica posta a fondamento della sua disciplina, facendola oscillare fra le norme di
cui agli artt. 41 e 21 Cost.
1.2.1 L’indivisibilità dei diritti fra libertà di manifestazione del pensiero e limiti
all'iniziativa economica privata
Le risposte fornite dalla dottrina (e dalla giurisprudenza costituzionale) alla domanda
relativa alla base giuridica della pubblicità «commerciale» hanno indotto a individuare, di
volta in volta, negli artt. 21 e 41 Cost. le disposizioni costituzionali cui ricondurre tutela e
limiti del fenomeno analizzato. Al fondo, la discussione inerente alla distinzione fra
materie privilegiate e non, nonché la possibilità di riconoscere o meno all'iniziativa
economica privata la natura di diritto (di libertà o della persona, dotato di efficacia erga
omnes, oppure fondamentale, dunque irrivedibile) costituzionalmente protetto al pari di
altri simili.
La pubblicità «commerciale» è stata ricondotta all'art. 21 o 41 Cost. con motivazioni ben
diverse fra loro.
Alcuni hanno fondato la loro posizione su una logica per così dire relazionale.
Pur richiamando in modo indiretto il valore espressivo del messaggio pubblicitario e il
suo carattere informativo, hanno sostenuto che l'art. 21 Cost. deve rappresentare a priori
la base giuridica dalla quale far discendere garanzia e limitazioni del fenomeno.
Rinunciare a questa modalità significherebbe dover effettuare verifiche sui contenuti di
ogni singolo messaggio, valutando caso per caso se esso cada sotto la tutela della
disposizione discussa o meno. Così facendo, si correrebbe il rischio concreto di lasciar
esercitare (all'autorità amministrativa o altra) vere e proprie forme di censura. La
preoccupazione che induce a questa risoluzione del problema è dunque evidente. Essa,
però (al di là del breve cenno sul suo carattere di mezzo d'informazione economica), non
aiuta a definire la natura multiforme della pubblicità.