cittadini solo sui loro interessi privati”
2
. Scalfari definisce
questo sistema, di cui in Italia è stato fautore il berlusconismo,
una “variante” di quello a cui ricorrono i governi autoritari o
dittatoriali che invece manipolano le coscienze al fine di
giungere a una sola credenza uniforme e condivisa da tutti.
Come dire che il regime opera cementando un’unica verità,
mentre oggi siamo in presenza della frammentazione in molte
opinioni private, individuali.
Ma perché è sempre stata dedicata tanta cura nella
“gestione” della mente delle persone? Perché l’opinione
pubblica è – sempre usando le parole del giornalista – “la
sostanza vitale sulla quale la democrazia imprime la propria
forma”. È indispensabile per avere consenso e gestirla
attraverso i mass media rende l’operazione più efficace, certa.
D’altra parte la comunicazione politica si regge su tre pilastri: il
sistema politico (o partitico), il sistema dei media e il cittadino
– elettore
3
(Mazzoleni, 2004). Quest’ultimo è attore cardine
perché esprime le proprie preferenze con il voto (o, in veste di
consumatore, con le proprie scelte), ma se la politica e i media
operano insieme per condizionarlo o per indirizzare le sue
decisioni diviene vittima e pedina ultima di un sistema
malsano, o anomalo ‐ per tornare all’espressione di Nanni
Moretti ‐ ma percepito come normale.
Oggi, dunque, si prospettano tanti interessi privati e la perdita
di vista del bene comune: questa secondo i due autori è la
2
Scalfari E., “L’opinione pubblica è rimasta senza voce”, in La Repubblica,
17/08/2008.
3
Gianpietro Mazzoleni (2004) definisce la comunicazione politica ''lo
scambio ed il confronto dei contenuti di interesse pubblico politico
prodotti dal sistema politico stesso, dal sistema dei mass‐media e dal
cittadino, non solamente nella sua veste di elettore''.
10
deriva attuale del pensiero degli italiani. Una deriva cui
soprattutto il regista addita le responsabilità alla stampa che
in qualche occasione ha dimenticato il suo compito di
rappresentante del lettore. Una stampa che non ha svolto il
suo ruolo di mediatrice tra istituzioni ed elettori ma ha curato
gli interessi dei poteri forti. Risultato? Lo smarrimento di una
coscienza collettiva che, tiene a specificare Scalfari, non
significa aver alimentato lo sviluppo di convinzioni
contrastanti e differenziate, che anzi in un sistema
democratico sono auspicabili. “L’aspetto inquietante –
prosegue il giornalista – consiste invece nel degrado
dell’opinione pubblica in una miriade di opinioni private, di
gruppo e di corporazione, di territorio e di individui”
4
. A
questo degrado il presidente del Censis, Giuseppe De Rita, dà
il nome di “mucillagine sociale”. È un’espressione usata già a
fine 2007 in occasione dell’uscita del rapporto annuale stilato
dall’istituto di ricerca e che ora sembra più attuale che mai per
descrivere un Paese incapace di “fare tessuto sociale”, che
non fa sistema, non si integra. Un’incapacità antropologica,
sottolinea Alberto Statera che ha intervistato De Rita per La
Repubblica
5
. E la colpa è, secondo il presidente del Censis, del
berlusconismo che ha creato una “poltiglia di opinione figlia
dell’emozione”. O forse più in generale la colpa è di un’intera
classe politica che ha trasformato le passioni in impulso e ha
messo da parte la storia e i principi. Il pubblico ha ceduto
spazio e potere al privato. È la stessa classe politica di cui di
recente abbiamo conosciuto le vere intenzioni e le vere
4 Scalfari E., “Il rischio federalista nel Paese spezzato”, in La Repubblica,
24/08/2008.
5
Statera A., “L’opinione pubblica non fa più sistema cos’ l’Italia resta
avvolta nella mucillagine”, in La Repubblica, 19/08/2008.
11
preoccupazioni, le proprie. Due giornalisti del Corriere della
Sera ne hanno messo a nudo vizi e difetti e infine gli hanno
affibbiato un nome grazie al quale ora ci rivolgiamo più
consapevolmente a essa, la Casta.
Lo scrittore americano Walter Lippmann è stato il primo a
occuparsi del concetto di opinione pubblica. Secondo il suo
punto di vista, "in qualsiasi società che non sia talmente
assorbita nei suoi interessi né tanto piccola che tutti siano in
grado di sapere tutto ciò che vi accada, le idee si riferiscono a
fatti che sono fuori dal campo visuale dell'individuo e che per
lo più sono difficili da comprendere", di conseguenza, "ciò che
l'individuo fa si fonda non su una conoscenza diretta e certa
ma su immagini che egli si forma o gli vengono date"
(Lippmann, 1995, p. 26). Esiste pertanto un ambiente invisibile
di cui il cittadino non è osservatore partecipante ma di cui
viene informato da altri agenti, e tra questi i mezzi di
comunicazione.
Il giornalista statunitense ha pubblicato il suo saggio nel 1922:
è un periodo in cui i mass media stanno sempre più
rapidamente dispiegando le proprie forze ma le ricerche sugli
effetti prodotti sul pubblico sono ferme alla teoria ipodermica
(o del proiettile magico)
6
. Non si parla ancora di influenza
personale e non si conosco ancora quali sono (e se esistono
davvero) i condizionamenti che il singolo riceve
6
Più che una vera e propria teoria si tratta di un’opinione, molto diffusa tra
la fine dell’Ottocento e primi anni del Novecento, quando le ricerche sui
media non si avvalevano ancora di un metodo empirico. L’idea di base è
che i messaggi dei media vengono recepiti dal pubblico in modo uniforme,
che questi stimoli sono diretti e immediati e che le risposte dei singoli sono
uguali fra loro. Prevale in questo contesto l’immagine di un’audience
passiva di fronte al potere manipolatorio dei mass media.
12
dall’esposizione mediatica. È presto per sapere che in realtà ci
sono anche altri fattori che contribuiscono alla formazione
dell’opinione (la centralità degli opinion leader, il contesto
sociale, le possibilità di accesso all’informazione, ecc..) e che la
riscoperta delle reti sociali cancellerà per sempre l’idea di un
(tele)spettatore atomizzato e solo davanti allo schermo.
Insomma, siamo agli albori delle teorie sociologiche relative
alla comunicazione di massa ma Lippmann afferma che nel
passaggio d’informazione tra l’ambiente invisibile e il pubblico
si annidano degli effetti distorsivi. Le scelte che il cittadino
compie si basano su una rappresentazione non attendibile
della realtà
7
, se non altro mai sufficientemente completa tale
da permettergli di prendere decisioni avendo il pieno controllo
della materia in questione.
Anche il giornalista può essere autore e fautore di una
distorsione quando svolge il suo ruolo di cronista che racconta
al lettore il susseguirsi degli eventi. In tanti anni e tanti libri di
analisi della professione giornalistica è ampiamente emerso
che si può, anzi è imperativo etico, raggiungere l’obiettività
dell’informazione, mentre è pressoché impossibile fare
altrettanto con l’oggettività. Come sostiene Alberto Papuzzi
(2003, p. 11), “è la soggettività, la specifica capacità del
giornalista di interferire professionalmente con i fatti. Egli non
è semplicemente la longa manus del sistema
dell’informazione, un trasmettitore di dati. È il giornalista a
produrre la notizia, dandone una forma”. Il cronista seleziona
e filtra un evento sconosciuto, che pertanto deve essere
7
Anche senza distorsioni o condizionamenti, la rappresentazione della
realtà non coincide mai perfettamente con la realtà stessa, dal momento
che è una ripetizione di essa e che viene filtrata attraverso la soggettività di
chi la rappresenta.
13
portato alla conoscenza del pubblico, ma lo fa attraverso il
bagaglio culturale che si porta sulle spalle arricchito dalla sua
esperienza e professionalità. Un atteggiamento del tutto
naturale.
Diverso è il caso in cui la distorsione è causata quando
la selezione viene effettuata dal giornalista, o dall’intera
organizzazione mediale, ricorrendo ad altri filtri o ad altre
logiche (di mercato, politiche, derivanti da altri interessi). Può
essere utile tornare ancora una volta sul terreno sociologico e
precisamente negli anni 60 e 70 quando un gruppo di ricerca
guidato da George Gebner decide di analizzare le conseguenze
prodotte dal consumo mediale. Gli studi si concentrano
particolarmente sul mezzo televisivo di cui ormai si conosce
per certo la capacità affabulatrice: la televisione racconta
storie stimolando l’immaginario dei soggetti, offrendo un
canale di evasione o il soddisfacimento dei bisogni e delle
fantasie. I risultati della ricerca hanno confermato che la lunga
esposizione ai programmi televisivi porta il telespettatore a
interpretare la realtà con le immagini e i valori che vengono
trasmessi dal piccolo schermo. È ciò che ha dato origine alla
teoria della coltivazione secondo cui negli spettatori forti si
verrebbe a creare un mainstreaming, un sistema coerente di
credenze, privo dei condizionamenti e delle influenze derivanti
da altri elementi esterni alla tv. Il rischio è lo scavalcamento
del mondo rappresentato rispetto a quello tangibile.
Un rischio, e qui torniamo al tema iniziale, che le stesse
organizzazioni mediali contribuiscono a creare ma che allo
stesso tempo possono risolvere. Infatti, la difficoltà maggiore
di chi opera nell’ambito dell’informazione è di far aderire il più
possibile l’ambiente simbolico con l’ambiente reale, la
14
narrazione di ciò accade nel mondo circostante con
l’esperienza diretta. A tal proposito scrive Francesco Giorgino
(2004, p. 290): “È evidente che le possibilità empiriche di non
far prevalere il primo sul secondo sono direttamente
proporzionali alla volontà per chi fa uso del mezzo e dei mezzi
di comunicazione di assolvere in buona fede e con correttezza
ai propri compiti”.
I mezzi di informazioni assolvono questo compito? Per
Nanni Moretti no. Schivando la questione in più di
un’occasione, diverse testate giornalistiche hanno tacciato le
opposizioni di voler tornare al solito “anti‐berlusconismo, che
è roba vecchia e annoia la gente”. In questo modo le proteste
contro la magistratura
8
, i tentativi di mettere il bavaglio
all’informazione limitando l’uso e la pubblicazione delle
intercettazioni, l’urgenza con cui sono realizzati decreti legge
in materia di giustizia e processi non sono percepiti, attraverso
il filtro di alcuni organi di stampa, come “aberranti” ma come
consueti. Di certo il problema di un rapporto malsano tra i
famosi tre pilastri della comunicazione politica non è solo
dovuto a Berlusconi, nonostante gli sia riconosciuto se non
altro di averlo avviato. Come già si accennava in precedenza
sono tanti e diversi i gruppi di pressione che interferiscono con
l’attività giornalistica. Sarà intento di questo lavoro provare a
elencare questi interessi, cercando di individuarne
organizzazione e scopi. Ma soprattutto di realizzare un
confronto con gli Stati Uniti, un Paese che si differenzia dal
8
Contro la magistratura il Presidente del Consiglio ha detto: “I giudici e i
pm ideologizzati sono una metastasi della nostra democrazia” (25 giugno
2008, assemblea di Confesercenti). Nel febbraio del 2006 si era già rivolto
all’ordine giurisdizionalista dicendo che “la magistratura colpisce puntuale,
a orologeria”.
15
nostro sia per le politiche di lobbying che per le logiche che
guidano il sistema dell’informazione. Un Paese che fin dalle
origini ha scelto la trasparenza, principio che in Italia, come si
avrà modo di leggere, è poco conosciuto.
Nota. In questo lavoro di tesi si farà spesso ricorso alla parola
“lobby” e ai suoi derivati dunque occorre fare delle
precisazioni circa il suo utilizzo. Lobby è un termine di origine
inglese ma che può essere considerato ormai entrato a far
parte della nostra lingua come accade per bar, sport, film ecc.
Per questo motivo non è necessario scriverlo al plurale come
la lingua madre richiederebbe (non si scrive lobbies). Così
come non richiede il corsivo, e lo stesso discorso vale quando
ci si riferisce al fenomeno, il “lobbismo”, o alle persone che
praticano tale attività, i “lobbisti”. Diverso il caso di “lobbiyng”
che non è stato ancora italianizzato.
16
Introduzione
Negli Stati Uniti, le attività di lobbying sono un diritto tutelato
dalla Costituzione (1787). Il Primo Emendamento garantisce ai
cittadini e ai gruppi organizzati (tra cui, appunto, i gruppi di
interesse) la possibilità di far sentire la propria voce all’interno
dei lavori del Congresso. Al momento della stesura del testo
fondamentale, la maggiore preoccupazione dei costituenti
americani è stata, dunque, quella di porre un freno al potere
del Governo, che avrebbe potuto abusare della sua posizione
a discapito dei cittadini. La concezione liberale che sottende a
questo articolo della Costituzione ha fatto in modo che
oltreoceano si sviluppasse un ampio spettro di attività
lobbistiche, tutte regolamentate, dunque tutte realizzate alla
luce del sole. “Vi sono oggi negli Stati Uniti oltre centomila tra
gruppi di interesse e associazione diversissimi tra loro per
natura, dimensione, influenza ed orientamento, tra cui un
certo numero si possono considerare parte effettiva del
processo politico”
9
. Anche in Italia, i gruppi di pressione e di
interesse svolgono un ruolo rilevante in politica. Tuttavia,
l’assenza di una regolamentazione adeguata in grado di
dettarne le norme di condotta ha, probabilmente, causato il
dilagare di tali attività, che però vengono svolte per lo più in
modo poco trasparente.
L’ingerenza delle lobby si è fatta sentire soprattutto nel
mondo giornalistico italiano. Un sistema in cui l’alto livello di
parallelismo politico, la presenza del pluralismo esterno e una
debole professionalizzazione degli operatori mediali ne hanno
9
Spicciariello F., “Lobby e gruppi di pressione negli Stati Uniti d’America”,
LUISS University Press, 2006
17
decretato la subalternità agli interessi politici, economici e
finanziari. “Fino agli inizi degli anni Settanta ‐ scrive Beppe
Lopez su La Casta dei giornali (2007, p. 42) ‐ non esisteva
praticamente un solo quotidiano che fosse fatto per essere
venduto”. Nel Bel Paese, i quotidiani hanno sempre
rappresentato uno strumento gestito dalle elite (culturali e
politiche) per dare in pasto ai lettori idee, concetti, opinioni
perfettamente preconfezionate. Sempre Lopez (ibid. p.43)
afferma: “Erano concepiti e realizzati, spesso benissimo ed
assai efficacemente, proprio per non essere venduti. E cioè:
non far conoscere le cose alla gente, non pubblicare e anzi
nascondere le notizie, contribuire all’ottundimento dei sensi e
al controllo della pubblica opinione”. I fatti separati dalle
opinioni – la massima che guida il giornalismo anglosassone –
da noi in Italia è un ideale, sbandierato da molti, praticato da
pochi.
La natura del quotidiano e la logica che li guida hanno quindi
facilitato l’accrescere di tali torbidi rapporti. Il giornale è
sempre stato concepito come strumento politico e culturale
riferito agli “addetti ai lavori”, non come un servizio o un
prodotto da vendere. Di conseguenza, questa concezione ha
avuto delle ripercussioni negative sull’intera redazione: non
essendo vista come un’azienda, spesso è venuta meno
l’attenzione al personale e alla professionalità. Alimentando,
in tal modo, autoreferenzialità, autosufficienza, dimenticando
che il primo referente del lavoro giornalistico è il lettore.
Alle riunioni del mattino delle più importanti redazioni
siedono i giornalisti ma è una (o più?) mano invisibile a
guidare la matita sul menabò. Chi c’è dietro questa mano
invisibile?
18
Una casta ‐ la Casta – è stata già smascherata. Sergio Rizzo e
Gian Antonio Stella hanno dato alle stampe un documento
esemplare sulla dubbia condotta dei partiti e dei politici
italiani. Ma incidere sulle routine produttive del lavoro
giornalistico è aspirazioni di molti: sindacati, grandi aziende,
enti, associazioni, banche ecc. I poteri forti, insomma.
Gli stessi poteri che ostacolano la messa a punto di una
legislazione ad hoc che regoli le attività lobbistiche. L’ultimo
disegno di legge, "Disciplina dell'attività di rappresentanza di
interessi particolari", è stato presentato dal ministro
Santagata nel governo Prodi. Nel citato disegno di legge, che
quando è caduto il governo era ancora in discussione al
Senato, era previsto: l’istituzione di un registro presso il CNEL,
la stesura di un codice di deontologia professionale e la
possibilità di mettere in atto delle sanzioni reputazionali o
pecuniarie. Insomma, l’intento è di dare un volto e un nome
ai lobbisti anche per facilitarne il loro mestiere. Ma è dura
opposizione alla realizzazione di tali progetti. Perché?
A tale domanda si cercherà di dare risposta in questo lavoro di
tesi.
I gruppi di interesse intrattengono rapporti anche con i mezzi
di comunicazione, oltre che con la politica, sia per necessità (i
media offrono visibilità, contatto diretto con i cittadini) sia per
opportunità (si creano in tal modo un nuovo canale per
intervenire nella sfera pubblica). Nel primo capitolo si
cercherà, pertanto, di delineare il profilo del sistema
giornalistico italiano e di metterne in evidenza le differenze
con quello statunitense, cioè si tenterà di capire qual è il
contesto mediatico che le lobby si trovano a dover affrontare.
Hallin e Mancini hanno condotto una lunga analisi che li ha
19
portati ad individuare tre modelli di giornalismo
10
.
L’appartenenza ad uno dei tre è strettamente legata ad una
serie di caratteristiche socio‐culturali, politiche ed economiche
proprie di un Paese che ne condizionano evidentemente la
storia e le istituzioni. Affermando la “dipendenza di sentiero”,
i due studiosi hanno riconosciuto che le organizzazioni mediali
non sono immuni da questi aspetti.
Con il secondo capitolo, invece, si entrerà nel vivo delle
attività lobbistiche, ma non prima di aver chiarito cosa si
intende per lobby e quale evoluzione ha avuto il fenomeno
lobbistico fuori e dentro il suo territorio di origine, gli Stati
Uniti. Dopo averne dato una definizione si illustreranno
tecniche, figure professionali e strumenti principali, nonché
evoluzioni e prospettive future, legate soprattutto allo
sviluppo di Internet.
Ma il perno centrale della trattazione sul lobbying è la
regolamentazione: precoce, efficace, trasparente in America;
assente e lontana in Italia. Al terzo capitolo sarà dedicato,
infatti, un excursus storico sulle norme in materia di lobbying,
dal Primo Emendamento della Costituzione americana fino ai
falliti tentativi delle legislature italiane di portare anche nel
nostro Paese una legge ad hoc; per poi passare ad una
panoramica sull’attuale assetto legislativo che le lobby
incontrano o meno nei vari paesi internazionali.
Il quarto capitolo affronterà più da vicino il divario Italia‐Usa.
Quali sono le principali lobby statunitensi, quando spendono
per influenzare la politica e per difendere i propri interessi;
com’è la situazione nel nostro Paese dove, in assenza di un
10
Il terzo è relativo all’Europa centro‐settentrionale, ovvero un’area di
interesse che esula da questo lavoro di tesi, pertanto non verrà trattato in
modo approfondito.
20
pubblico registro delle lobby, si fa più fatica ad individuarle; la
responsabilità dei media che spesso latitano o lo hanno fatto
in passato, piegando la schiena ai poteri forti e voltando le
spalle ai lettori.
E proprio ai mezzi di comunicazione verrà dedicato l’ultimo
capitolo, nel quale si tenterà di far luce sui variegati interessi
che influenzano le routine produttive.
Infine, in appendice sarà possibile trovare la trascrizione
completa degli interventi di alcuni esponenti del mondo
giornalistico italiano che ho avuto il piacere di intervistare e,
tra cui, la ideatrice e conduttrice di Report Milena Gabanelli e
il giornalista del Corriere della Sera e co‐autore del libro La
Casta, Gian Antonio Stella.
21
Capitolo Uno
Pluralista e polarizzato:
il modello di giornalismo made in Italy
1.1 Il quotidiano in Italia: veicolo di opinione prima ancora che
di informazione
La lettura del giornale è
la preghiera del mattino
dell’uomo moderno
George Wilhelm Friedrich Hegel
11
Nelle democrazie occidentali i mezzi di comunicazione hanno
una struttura e un ruolo specifico, ma soprattutto diverso a
seconda dei paesi in cui operano. A determinare queste
differenze è in gran parte il contesto socioculturale, che non
funge solo da sfondo ma è talmente rilevante da incidere sulle
strutture profonde dei media. Il background interferisce anche
per via del peso che il passato e la storia di un Paese
continuano ad avere nelle azioni presenti. È quella che North
(vedi Hallin, Mancini, 2004 p. 17) ha definito “dipendenza di
sentiero”: “il passato ha una potente influenza” ma questo
“non significa necessariamente che le istituzioni presenti o
future debbano somigliare a quelle del passato, o che il
cambiamento non abbia luogo”.
Ma a rendere i sistemi di comunicazione differenti è anche la
configurazione del mercato stesso dell’informazione. Lo
sviluppo o meno della stampa di massa è l’elemento che più di
11
Giorgino F., Dietro le notizie, Milano, Mursia, 2004, p.246
23
ogni altro ha inciso sulla circolazione dei giornali: laddove lo
sviluppo è stato ampio e contestuale alla nascita del giornale
di massa (tra il tardo Ottocento e l’inizio del Novecento), i
livelli di lettura e diffusione dei quotidiani sono molto alti;
viceversa lì dove non si è verificata una capillare espansione, il
giornale ha sofferto sempre bassi livelli di circolazione. È facile
comprendere ciò se si osservano le stime sulle copie di giornali
diffuse: a guidare la classifica (2007)
12
è la Danimarca con
766,1 copie ogni 1000 abitanti e, a parte il secondo posto
guadagnato dal Giappone (631,7), seguono sempre Paesi
nordici, e in particolar modo la Svezia, la Norvegia e la
Finlandia (561). L’Italia è solo ventitreesima con 193,8 copie,
dopo Regno Unito, Germania, Irlanda, Spagna e Francia.
Perfino la Grecia, che per molti aspetti storici e sociali ha
vissuto trascorsi simili a quelli dell’Italia, ha una posizione
migliore in graduatoria con 334,8 copie. Dunque, ancora oggi
in Europa Settentrionale la stampa gode di buona salute
avendo costruito fin da subito, e consolidandolo nel tempo, un
rapporto stabile con il pubblico.
Del resto, il quotidiano è nato come fonte di conoscenza, un
canale attraverso il quale il pubblico è in grado di formare una
coscienza collettiva ma prima ancora individuale, propria. Il
cronista raccoglie i fatti, ciò che reputa essere di interesse per
il cittadino e in questo modo gli consegna uno strumento di
conoscenza e di interpretazione della realtà circostante.
Questo è il senso delle parole di Hegel, che ha compreso tutta
la necessità e il bisogno che “l’uomo moderno” ha di
un’informazione completa. Senza di essa si vive una
condizione di straniamento, di esclusione. E, infatti, fin dalle
sue origini, il giornale ha costituito per il singolo un elemento
12
World Association of Newspaper Trends 2007
24
di partecipazione alla propria comunità, un simbolo di
appartenenza socioculturale.
Eppure in Italia si è sempre letto poco e la situazione non
accenna a migliorare. E se la ragione primaria è, come si è
detto all’inizio, da ricercarsi in una lenta e tardiva diffusione
della stampa di massa, altri sono i motivi che, derivandone,
hanno finito con il peggiorare la situazione. Ancora una volta è
bene partire da un dato: il numero dei lettori è scarso,
soprattutto se il dato si paragona a quello degli altri Paesi. Il
rapporto internazionale del 2006 stilato dalla World
Association of Newspaper
13
ci condanna al trentatreesimo
posto per indici di lettura; ciò vuol dire che nel nostro Paese si
legge meno di Croazia, Slovenia, Cina e Turchia, ma
soprattutto meno rispetto al resto dell’Europa. Secondo
l’Audipress
14
, meno della metà degli italiani legge i quotidiani:
su una popolazione di poco più di 50 milioni di persone, si
stimano 22 milioni 798 mila lettori
15
(di cui 13.651.000 uomini
e 9.147.000 donne).
Se ci si sofferma agli ultimi anni, l’elemento maggiormente
destabilizzante è stato l’ingresso delle nuove tecnologie
digitali nel settore dell’informazione: di certo un fenomeno di
13
La World Association of Neswpaper (WAN) è un’associazione mondiale
no‐profit sulla stampa. Fondata nel 1948, vi aderiscono circa 76
associazioni nazionali di giornali, organi di informazione individuali, una
decina di agenzie stampa e 10 organizzazioni per la stampa a carattere
regionale. La Wan rappresenta circa 18 mila pubblicazioni sparse nei
cinque continenti.
14
L’Audipress è una società che realizza indagini collettive di tipo
quantitativo e qualitativo sulla lettura dei giornali quotidiani e periodici e
su ogni dato relativo alle caratteristiche della lettura e dei lettori.
15
I dati si riferiscono alla seconda rilevazione del 2007 ovvero al periodo di
analisi compreso tra il 10 Settembre e il 16 Dicembre 2007.
25
vasta portata, non prevedibile, che ha fortemente inciso sulle
dinamiche e le strutture della stampa. Ha costretto l’intero
settore, ma più in generale tutti i mezzi di comunicazione
tradizionali, a rivedere meccanismi, funzioni e modelli. Perché
è stato il senso stesso della partecipazione del pubblico al
processo di comunicazione ad essere stravolto dalle possibilità
offerte dai new media, primo fra tutti Internet. Non sarebbe
sbagliato pensare che la minor fruizione dei quotidiani sia
anche strettamente legata al facile accesso che gli utenti
hanno sui siti di informazione attraverso il Web. Non sarebbe
sbagliato, ma non sarebbe esaustivo. Infatti, come afferma
Alessandro Barbano (2003, p. 59): “si deve avere il coraggio di
rileggere il futuro dei rapporti di forza tra carta stampata e
media digitali: la prima non è debole a causa di questi ma, in
quanto già debole ed indifferenziata, ne subisce la
concorrenza in maniera più pesante”. Infatti, la scarsa
propensione alla lettura, che il quadro sopra ha ben delineato,
è espressione di un male endemico che ha sempre
contraddistinto la stampa italiana. Basta pensare che “dal
dopoguerra ai nostri giorni la stampa ha conosciuto uno
sviluppo faticoso, a tal punto che il termine ad essa più
frequentemente associato è stato, ed è tuttora, quello di crisi,
[…] i momenti di buona salute rappresentano rare interruzioni,
destinate a sfiorire rapidamente” (Morcellini, Midulla, 2003, p.
279). E la situazione si aggrava ulteriormente se i dati si
confrontano a livello globale.
Le conseguenze di tale disaffezione vanno, quindi, innanzitutto
ricercate nella natura stessa del quotidiano made in Italy.
Lontano dalle severe regole di matrice anglosassone, il
giornalismo in Italia ha sempre ceduto al fascino del
commento, a tutto discapito dei fatti, della notizia vera e
26
propria. Se oltre oceano, nel periodo in cui si forgiava la figura
del reporter, nelle redazioni circolava il motto “fatti, fatti,
nient’altro che fatti”, qui i nostri cronisti assumevano il ruolo
di interpreti della realtà, preferendo al concetto di obiettività
quello di onestà. Rinunciando ad inseguire una oggettività
impossibile da raggiungere, i giornalisti italiani raccontavano
ciò di cui erano testimoni e di riferire, onestamente, pezzi di
realtà. L’interpretazione, come filtro attraverso cui portare a
conoscenza dell’opinione pubblica i fatti, ha connotato in
modo anomalo l’informazione, molto spesso corollario
dell’opinione e non viceversa. La stampa in Italia ha svolto
principalmente una funzione pedagogica, o per parafrasare
Carlo Sorrentino (1996, p.215) è stata più “educativa” che
“informativa”.
Questo tipo di approccio ha tenuto il quotidiano – che già
faticava a raggiungere un’espansione adeguata ‐ fuori dai
circuiti mediali della massa, della grande opinione pubblica,
per finire tra le braccia dell’elite culturali e politiche.
27