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toccare non soltanto il campo della rappresentazione, ma anche e soprattutto quello
della psicologia. In ogni caso una tematica studiata, conosciuta e indagata da una figura
importante per l’apporto che è riuscito a donare sia all’interno del campo delle arti
visive che in quello delle scienze psicologiche: Ernst Hans Gombrich, storico e
psicologo dell’arte austriaco, scomparso recentemente (Londra 3 novembre 2001).
Il suo prezioso contributo fu rivolto in particolar modo allo stile dei fenomeni artistici,
utilizzando i contributi che la moderna psicologia ed epistemologia hanno saputo donare
alla comprensione della percezione.
Nato a Vienna il 30 marzo 1909 da una famiglia colta e benestante di origine ebraica,
Gombrich studiò storia dell’arte all’università di Vienna, ma in seguito alle persecuzioni
naziste fu costretto ad abbandonare la sua città e ad emigrare a Londra, dove per
qualche tempo collaborò con i servizi segreti britannici. Nella capitale inglese entrò in
contatto con l’Istituto di Ricerca Comparata per la storiografia e la metodologia
dell’arte (che in seguito prenderà il nome di Warburg Institute) di cui divenne prima
un’esponente di spicco e in seguito il direttore dal 1959 al 1976.
Il nome di Gombrich però rimane legato soprattutto alla fama raggiunta da due delle
sue opere principali: La sua prima opera, intitolata Storia dell’arte (pubblicata per la
prima volta nel 1950 e tradotta in Italia con il titolo la “Storia dell’arte raccontata da E.
Gombrich”) e l’altra opera più famosa e divulgativa intitolata Arte e illusione, entrambe
concepite nella maturità e divenuti grandi successi editoriali.
In questi scritti, come del resto in tutta la carriera del loro autore, emerge
quell’esigenza di far avvicinare l’arte ai suoi fruitori, di indagare a fondo i suoi
meccanismi storici, culturali, epistemologici che caratterizzano il “guardare” l’opera
d’arte. Le domande che ci pone Gombrich e alle quali tenta di rispondere, alcune delle
quali prenderemo in considerazione in questo breve scritto, ci fanno vedere l’altra faccia
della medaglia rimasta nascosta ai nostri occhi a causa di stereotipi derivanti dalla
tradizione culturale e sociale, o dettati dall’abitudine. Tali quesiti posti dalla figura di
Gombrich sono come rivelazioni illuminanti di nuovi punti di vista, davanti ai nostri
occhi bendati dal velo dall’apparenza o dell’inattenzione. Cosa si guarda, quando ci
troviamo di fronte a un quadro? Che cos’è che rende l’arte indispensabile? .
A differenza dei suoi predecessori come Warburg o Panofsky
1
, i quali tentarono di
approcciarsi al campo artistico in modo pragmatico o cercando di applicare all’arte quei
1
Warburg Aby (Amburgo 1866-1929) storico dell’arte, a lui si deve la fondazione della biblioteca
Warburg per la scienza della cultura, trasformata poi nel celebre istituto che nel 1933 fu trasferito a
6
risultati scientifici dedotti in campo psicologico, Gombrich si pone con un
atteggiamento emancipato dall’approccio prettamente filosofico con cui l’arte fu
analizzata fino a quel momento, per intraprendere una via più pratica di indagine
storico- artistica, sviluppando un metodo di studio interdisciplinare.
Seguendo il pensiero di Warburg, un determinato quadro doveva avere un certo
significato che affondava le sue radici in uno specifico ambito culturale pur
rimanendone però indipendente: alcuni elementi potevano essere riscontrati ovunque, a
prescindere dalla tradizione culturale di provenienza. Panofsky invece tentò di
razionalizzare questa tesi indagando le fonti letterarie di quella capacità di
riconoscimento che porta lo spettatore a comprendere la figura che ha davanti ai suoi
occhi, ma Gombrich spinse oltre la sua indagine, teorizzando la specificità propria del
linguaggio artistico e l’impossibilità di formulare un giudizio univoco nei confronti
dell’opera d’arte, mettendo in risalto la figura del singolo individuo all’interno della
strutturazione dei linguaggi artistici. Attraverso questa tesi sviluppata da Gombrich, la
produzione artistica cominciava ad oscillare tra la “convenzione” imposta dall’ambiente
culturale in cui si formava, e la “correzione” che di tale ambiente donava il singolo
individuo.
Londra. Warburg è ricordato come uno degli studiosi che promosse il rinnovamento della storia dell’arte
tra Otto e Novecento. Era interessato al rapporto tra simbolo e significato nelle rappresentazioni
artistiche, nasce qui la sua ricerca sulla trasmissione dei simboli dall’antichità classica all’arte moderna.
Questi interessi di ricerca portano Warburg a occuparsi di antropologia e storia della religione più che di
storia dell’arte in senso stretto. È proprio in questo ambito che i suoi contributi agli studi artistici
risultarono i più fecondi, contribuendo ad allargare all’antropologia e alla scienza della cultura l’ambito
della storia dell’arte. Con lui ebbe inizio la scuola “iconologica” che introdusse nella storia dell’arte
ricerche attente al ruolo dei miti, alle influenze scientifiche (Panofsky) e alla psicoanalisi (Gombrich). I
suoi scritti furono raccolti e pubblicati sotto il titolo La rinascita del paganesimo antico, 1932.
Erwin Panofsky (Hannover, 30 marzo 1892 – Princeton, 14 marzo 1968) è stato uno storico dell'arte
tedesco. La sua formazione si svolse a Berlino e successivamente nelle università di Friburgo, Monaco e
di nuovo Berlino. Dal 1921 al 1926 fu libero docente all’Università di Amburgo, venendo in contatto con
Aby Warburg e Fritz Saxl. Nel 1926 è nominato professore di storia dell’arte presso l’Università di
Amburgo dove vi insegnò fino al 1933, anno in cui, a causa del nazismo fu costretto a lasciare la
Germania. Del 1927 è Die Perspektive als «symbolische Form», in «Vorträge der Bibliothek Warburg»,
Leipzig-Berlino, tradotto in Italia col titolo La prospettiva come forma simbolica, Milano 1961, in cui
studia la prospettiva non come mero espediente tecnico, per dare all'immagine verosimiglianza, ma come
portatrice di una specifica visione del mondo. In questo modo la prospettiva assunse il significato di
forma simbolica, veicolo di una particolare Weltanschauung prodotta da una determinata epoca. Il
termine Weltanschauung appartiene alla lingua tedesca ed esprime un concetto fondamentale nella
filosofia ed epistemologia tedesca. Spesso applicato in vari altri campi, in primis nella critica letteraria e
della storia dell'arte, non è letteralmente traducibile in lingua italiana, poiché non esiste nel nostro
vocabolario una parola che le corrisponda appieno. Essa esprime un concetto di pura astrazione che può
essere restrittivamente tradotto con "visione del mondo" e può essere riferito ad una persona, ad una
famiglia o ad un popolo.
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La figura di Gombrich può essere descritta come un ingegno sempre volto a fornire
risposte efficaci nei confronti di una disciplina dai contenuti difficilmente identificabili
come il campo artistico, e in più come un attento divulgatore, preoccupato di risolvere i
problemi riguardanti la spiegazione storico-artistica.
La nostra intenzione è mettere a fuoco i punti interessanti e fondamentali che ho
riscontato in alcune delle sue opere principali e le problematiche che intende affrontare
e sviluppare, in relazione a quelle nuove scoperte che hanno in qualche modo fornito un
nuovo modo di approcciarsi all’arte e di compiere una rivalutazione del ruolo svolto
dall’arte nei confronti dello spettatore.
Ciò che intendo dimostrare con questa tesi è che l’arte può e deve essere giudicata
come una conoscenza in grado di leggere il mondo circostante e noi stessi. L’arte può
essere una conoscenza del mondo, basata su fondamenti diversi rispetto alla conoscenza
scientifica. Intendo dimostrare questa tesi compiendo un percorso filosofico e artistico,
attraverso il rapporto tra percezione, intelletto e arte.
Vorrei fare emergere, il rapporto tra la figura dello spettatore e l’opera artistica, e il
problema di come la visione della realtà possa essere suggestionata o aiutata dall’occhio
dell’artista. Infine vorrei sottolineare il rapporto tra l’artista e la sua opera, e indagare il
processo visivo compiuto dal pittore nei confronti della realtà circostante.
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1. Gombrich: L’immagine e l’occhio.
1.1. Il tempo e il movimento nell’arte
Gombrich in uno dei suoi testi che ci proponiamo di analizzare L’immagine e l’occhio
(1982) tocca l’argomento di come possa essere rappresentato o semplicemente dedotto
il movimento nel campo artistico.
L’elaborato comincia, sottolineando la discrepanza che intercorre tra il problema dello
spazio e della sua rappresentazione in pittura, il quale ha avuto ampio margine di
discussione nei secoli passati e nella nostra contemporaneità, suscitando l’attenzione di
critici d’arte, artisti e studiosi, a differenza dell’altro tema del tempo e del movimento
che ricoprì un ruolo marginale nella rappresentazione artistica.
Gombrich tenta di individuare le cause di questo disinteresse, e intende ricercarle
all’interno della definizione del passare del tempo in pittura. Porta l’esempio del
“Giudizio di Ercole” nell’opera di Lord Shaftesbury
2
.
Gombrich ci dice, infatti, che: “L’impostazione tradizionale del problema del passare
del tempo in pittura, risale almeno al primo Settecento, e più precisamente alla classica
formulazione di Lord Shaftesbury, nelle Characteristicks. Il primo capitolo si apre con
l’affermazione che questa favola, si può rappresentare in vario modo a seconda
dell’ordine del tempo:
1. Momento nel quale si vede Ercole sorpreso dall’apparizione delle due dee:
Virtù e Piacere.
2. Momento in cui Ercole si mostra incuriosito e perplesso riguardo alla contesa
che si è accesa tra le due dee.
3. Infine il momento che ci vedrebbe come testimoni oculari riguardo al tormento
di Ercole per la decisione da prendere tra le due dee e con tutta la sua forza
tenta di padroneggiare sé stesso”.
2
Shaftesbury, Anthony Ashley Cooper conte di (Londra 1671-1713), filosofo inglese. Impegnato
politicamente nel partito dei whig, dovette ben presto abbandonare questa sua inclinazione a causa della
sua salute malferma e si ritirò a vita privata pur mantenendo un certo interesse in campo politico. Scrisse
numerose opere tra le quali pubblicò La Ricerca sulla virtù e il merito 1699 ricavata da una bozza che
Shaftesbury aveva schizzato all'età di vent'anni. Durante gli ultimi due anni di vita trascorsi a Napoli, si
dedicò a studi di estetica, componendo saggi e abbozzi, inclusi nella sua opera principale Caratteristiche
di uomini, maniere, opinioni, tempi, mentre l’ampio saggio intitolato Plastica o l’origine, il progresso e
la potenza delle arti e del disegno, dal quale abbiamo tratto il nostro esempio, fu pubblicato nel 1914 con
il titolo Caratteristiche seconde o il linguaggio delle forme.
9
In realtà Shaftesbury prese in considerazione anche una quarta possibilità, consistente
nel rappresentare l’istante in cui Ercole è conquistato dalla virtù, ma decise di scartare
quest’ultima possibilità, in quanto considerata priva di efficacia drammatica.
La tematica più interessante da portare alla luce in questo esempio è il ruolo che
ricopre il tempo in pittura e la ricerca di una sua definizione attraverso l’impiego di una
realtà visiva come può esserlo un dipinto, ma più specificatamente quale compito debba
svolgere l’artista per riuscire a donare alla sua opera l’idea del trascorrere del tempo.
Abbiamo quasi la certezza, che sia proprio il “maestro di pittura” ad avere la mansione
più gravosa, in quanto scelto il preciso Istante o Punto del tempo secondo il quale
intende rappresentare la propria storia, non potrà trarre spunto da nessun’altra azione se
non quella “immediatamente presente” e legata al singolo istante che egli descrive; se
travalicasse il presente di un attimo soltanto, nulla lo potrebbe trattenere dal travalicarlo
poi di molti anni. Nonostante questa gravosa necessità, non si può negare all’artista di
rappresentare mutamenti o movimenti, e Shaftesbury ci chiarisce che: “E’ in potere
dell’artista di lasciare nel soggetto le tracce o impronte del suo predecessore… come
ad esempio quando sono evidenti le tracce di lacrime appena versate, che restano
visibili in una persona da poco presa da un trapasso di gioia”. Si conclude quindi che
attraverso gli strumenti utilizzati per richiamare alla mente il passato, noi riusciamo ad
avere un’anticipazione del futuro.
Da questa prima formulazione, si può dedurre come la visione classica dello scorrere
del tempo in pittura sia stata definita come una realtà “statica”, legata cioè al singolo
istante o all’azione svolta in un preciso momento e soltanto in quello; il trascorrere del
tempo è concentrato in un attimo, il più significativo, il più essenziale di una storia,
attraverso il quale si rende comprensibile ciò che precede e ciò che segue.
Discepolo di questa impostazione data da Shaftesbury del trascorrere del tempo in
pittura, fu Lessing
3
il quale cercò di operare una netta distinzione tra le arti del tempo e
quelle dello spazio. Nella sua opera più celebre Laocoonte cercò di dimostrare che la
poesia o il teatro dovevano adeguarsi ai limiti delle arti visive, dove i limiti stessi
3
Lessing, Gotthold Ephraim (Sassonia 1729-Brunswick 1781), drammaturgo e filosofo tedesco. Studiò
a Lipsia e visse a Breslavia, a Berlino e ad Amburgo. Compose varie opere di estetica, nella più celebre
delle quali, il Laocoonte (1766), sostenne contro J.J Winckelmann che si devono contrapporre tra le arti,
la poesia e la pittura: questa ha come elemento fondamentale lo spazio, mentre la prima opera nel tempo,
poiché racconta una successione di eventi. Autore anche di numerosi testi teatrali, Lessing rinnovò la
drammaturgia, mantenendo però l’originalità dei caratteri nazionali e sottraendosi all’influsso del teatro
francese, allora dominante. Come filosofo, si dedicò prevalentemente a problemi di religione; si ricordano
tra le opere più importanti: Il cristianesimo della ragione (1753) Sulla genesi della religione rivelata
(1753-55).
10
derivavano dal fatto di restringersi ad un solo attimo di tempo, scegliere un momento da
fermare e conservare per l’eternità, perciò tale momento non doveva essere troppo
negativo, inoltre sottolinea che “Quell’unico momento scelto non può essere mai
abbastanza fecondo. Ma è fecondo soltanto ciò che lascia libero gioco alla fantasia”.
In relazione al tema del ruolo svolto dal tempo in pittura e della sua rappresentazione
da parte dell’artista, Gombrich si richiama ad Agostino.
Nella sua opera principale Le confessioni, Agostino concentra la riflessione sulla
caratteristica della persistenza nella nostra memoria, ipotizzando alcune perplessità che
trovano il suo fondamento nella definizione di ciò che si intende con il termine di
elusività dell’attimo presente, visto come schiacciato tra il futuro, che non è ancora e il
passato che non è più. Le perplessità sviluppate dal filosofo, sono formulate in
relazione ad alcune domande che si pone, ossia di come si possa parlare di estensione
del tempo e quali strumenti impiegare per poterlo misurare, se ciò che si misura non
esiste ancora (futuro) o non esiste già più (passato).
Agostino cerca in qualche modo di risolvere il problema del tempo, attraverso
l’introduzione del concetto di introspezione, sostenendo che nel nostro spirito esiste già
un’attesa del futuro, e attraverso le sue parole ci racconta che cosa succede nello suo
spirito, quando recita un salmo: “Prima dell’inizio, la mia attesa si protende verso
l’intera canzone, dopo l’inizio con i brani che vado consegnando al passato si tende
anche la mia memoria. L’energia vitale dell’azione è distesa verso la memoria, per ciò
che dissi e verso l’attesa per ciò che dirò”.
4
Concentrando la nostra discussione riguardo ad una tematica che è collegabile al
campo artistico e che risulta necessaria all’arte, metteremo in primo piano la figura del
pittore, dato che sembrano essere proprio la sua mano e la sua capacità artistica, le due
protagoniste in grado di poter dare una forma completa alle tematiche fino ad ora
affrontate. Tratteremo in particolar modo di quel compito che grava sull’artista, il quale
consiste nella ricerca e raffigurazione del mondo circostante. Spinto da questo nobile
scopo, l’artista nell’antichità doveva cercare di donare ad un breve attimo strappato dal
tempo un’esistenza duratura, in modo da far perdurare il significato dell’evento
rappresentato.
Questa specificazione del ruolo dell’artista, consistente nel fermare il tempo su di una
tela, era la considerazione che si aveva ancora intorno agli anni ‘30 dell’Ottocento.
4
Agostino Le confessioni, XI 10-30 (trad. it a cura di C.Catena, Torino 1966).
11
Pochi anni dopo avrebbe fatto la sua comparsa sulla scena la fotografia, aprendo cosi
una lunga e interessante disputa tra due discipline e del diverso ruolo svolto da
entrambe (pittura e fotografia) che ancora oggi infuoca gli animi di storici d’arte e
fotografi, i quali cercarono di stabilire la superiorità dell’una sull’altra, in relazione alla
fedeltà della verosimiglianza con il mondo visibile.
Compiendo una ricostruzione storica della fotografia, vediamo come i primi
esperimenti fotografici consistevano in lastre fotografiche con un lungo tempo di posa,
in questo modo almeno per un breve periodo, non rappresentarono una minaccia per
l’artista, che si prefiggeva il fine di catturare il tempo in fuga.
Un esempio di questa teoria è rappresentato da un esperimento condotto nel 1877 dal
fotografo Muybridge in un ippodromo californiano. Egli riuscì a mettere in luce per la
prima volta l’inferiorità dell’occhio dell’artista rispetto alla macchina fotografica.
Attraverso l’utilizzo di 12 macchine fotografiche si voleva chiarire cosa accadesse in
realtà nel corso di un rapido movimento come la corsa di un cavallo al galoppo, e di
conseguenza la riproduzione di tale movimento. Le 12 macchine fotografiche furono
disposte in modo che il cavallo in corsa al suo passaggio, facesse scattare l’otturatore
spezzando un filo teso attraverso la pista. Con questo esperimento si volle dimostrare
che gli zoccoli del cavallo in corsa si sollevavano dal terreno contemporaneamente, ma
non nella posizione di completa estensione come era comunemente raffigurato dagli
artisti. Era, infatti, convinzione comune che il cavallo si staccasse completamente da
terra (galoppo volante) nella posizione di massima estensione, e questa situazione fu
spesso raffigurata nei dipinti e disegni degli inizi del 1800. I risultati di Muybridge
sconvolsero questa visione e influenzarono l’attività dei pittori, che si affidarono sempre
più al mezzo fotografico per meglio riprodurre quello che l’occhio umano confondeva.
Non a caso, da questo momento di innovazione scientifica, gli artisti cercarono di
impadronirsi e padroneggiare le tecniche della macchina fotografica, abbracciando
l’opinione tradizionale che un’immagine veritiera per essere tale, doveva rappresentare
solo ciò che si riusciva a vedere in un attimo preciso del tempo.
Dopo questa breve introduzione sul ruolo del tempo in campo artistico, attraverso
figure importanti come Shaftesbury e Agostino, vediamo come anche Gombrich si
occupi di questo argomento, portando un contributo più marcatamente moderno.
Gombrich cerca di riformulare la teoria di Shaftesbury sul tempo in un modo più
semplice e attuale, servendosi dell’aiuto di tecniche innovative nate insieme alla
macchina fotografica e la pellicola cinematografica. Sostenendo che la fotografia
12
istantanea può rappresentare la verità di quel momento preciso, e ipotizzando che una
cinepresa filmi la storia di cui parla Shaftesbury (il giudizio di Ercole), Gombrich si
domanda: da quale fotogramma si potrebbe ricavare una buona fotografia pubblicitaria
per un film? E quale sarebbe l’istante giusto da poter essere fermato nel tempo ed essere
così significativo da rappresentare il senso della storia? La risposta è che forse nessuna
immagine sarebbe in realtà adatta, perché le “fotografie di scena” di solito non sono dei
semplici fotogrammi ripresi da un’immagine scattata al momento, ma sono preparate
separatamente e richiedono molti metri di pellicola contenenti molti fotogrammi, perciò
viene studiata con cura la posa e in seguito fotografata come un’entità perfettamente
chiara e leggibile, in modo da poter in questo modo, soddisfare le esigenze di previsione
e di revoca.
Sviluppando ancora questa tematica, risulta necessario mettere a fuoco un’altra
questione che sembra essere importante per poter delineare da ogni punto di vista, il
nostro argomento principale riguardo all’arte: che cosa succede realmente in un
qualsiasi istante del tempo? Ponendoci già questa domanda, noi in qualche modo diamo
per scontato che l’istante o punto del tempo di cui parla Shaftesbury esista realmente, e
che ciò che noi percepiamo in realtà sia soltanto la successione infinita di questi statici
attimi di tempo. Seguendo questo ragionamento è inevitabile compiere un collegamento
alla concezione del tempo sviluppata dalla filosofia classica, e in particolar modo dalla
figura di Zenone di Elea e alla sua riflessione sul tempo, che passò alla storia con la
definizione di “Paradosso di Zenone”. Secondo questa concezione, i segni statici
possono rappresentare soltanto momenti statici e mai movimenti che avvengono nel
tempo. La famosa dimostrazione dove Achille non raggiungerà mai la tartaruga e la
freccia in movimento in realtà è immobile ad ogni istante. In questo modo il movimento
diventa inesplicabile.
Il primo ad accorgersi che questa tesi poteva essere confutata, fu proprio Aristotele,
sostenendo la negazione dell’infinità divisibilità del tempo e affermando che le parti del
tempo non sono mai istanti privi di durata, ma hanno una qualche durata
5
. Ma se
sostenere da un punto di vista logico, che la tesi di un istante privo di movimento è da
ritenersi privo di senso, lo è ancora di più da un punto di vista psicologico.
Noi non siamo apparecchi fotografici, ma lenti strumenti di registrazione, incapaci di
assorbire molti dati contemporaneamente, bastano soltanto 24 fotogrammi al secondo
5
Nel IV libro della Fisica (Fisica, IV, 10, 218 a).
13
l’uno dietro l’altro, per donarci l’illusione dell’azione; riusciamo a vederli soltanto in
movimento e non come immagini separate; è imbarazzante pensare che un decimo o un
quindicesimo di secondo nella nostra esperienza rappresenta qualcosa che cogliamo
appena in fuga. Lo schermo televisivo ci dona la riprova della nostra lentezza di
percezione e della durata di ciò che noi consideriamo un istante. Quando guardiamo un
programma, in realtà noi stiamo osservando un minuscolo punto luminoso che
attraversa lo schermo da un capo all’altro 405 volte in un quinto di secondo alla velocità
di oltre 11.000 chilometri l’ora, questo punto luminoso definisce l’area rettangolare su
cui si vede l’immagine e quindi ad ogni istante noi in realtà vedremmo soltanto un
puntino luminoso.
Prima di passare ad ulteriori considerazioni in relazione a queste tematiche ancora
tutte da sviluppare, vorrei mettere in luce, contribuendo a fornire una certa analogia con
gli argomenti sopra esposti, di una mia recente visita ad una mostra di pittura,
organizzata nella mia città e avente come oggetto un grande pittore del Novecento,
azzarderei a dire, l’artista che meglio riuscì a rappresentare l’enigma in pittura: Giorgio
De Chirico. La mostra era intitolata, non a caso “L’enigma nella pittura” e cercava tra
35 opere scelte fra i capolavori noti e non, di soddisfare una chiara esigenza: rendere
visibile l’invisibile.
Attraverso meccanismi inconsci e il bisogno di raccontare sé stesso, oltre che voler
tentare di rappresentare quel dinamismo caratteristico del movimento, nelle movenze
sinuose di cavalli in corsa (quadro di lotta di cavalli 1958/59) le opere di De Chirico
intendevano rappresentare forse un ritorno alle origini, di quella passione che
accompagnò tutta la sua vita (in quanto si dice che il primo disegno commissionatogli
dal padre all’eta di nove anni per essere donato a un diplomatico, fosse proprio un
cavallo in corsa). Ma il paesaggio rimane il genere più costante della sua opera, sia che
questo occupi il primo piano (Venezia, Chiesa della Salute, 1952-53) o che ne
costituisca il fondale, e in particolare la rappresentazione delle nature morte evoca nello
spettatore qualcosa di vivo e da poter toccare, quasi con la stessa intensità di un oggetto
reale da poter maneggiare e studiare in ogni sua piccola sfumatura.