Tabella 1.1
Regioni
Quozienti di natalità
Quozienti di
fecondità Mortalità infantile
1871 1881 1871 1881 1863- 66 1883-86
Piemonte-Valle
d'Aosta 35,3 34,8 152,6 153,5 227,7 182,4
Liguria 34,2 32,4 150,6 141,1 205,9 171,3
Lombardia 37,4 36,7 160,6 161,2 255 201,3
Veneto 37,4 34,9 170,2 158,7 267,4 188,5
Emilia-Romagna 35 34,9 157,4 154,6 254,9 224,2
Marche 33,6 35,9 147,4 156,9 243 206,4
Toscana 37,7 34,8 168,5 155,2 227,3 173,2
Umbria 33,4 34,1 150,5 153,5 243,3 199,6
Lazio 17,3 33,7 158,5 149,5 - 168,2
Abruzzi e Molise 37,3 39,1 162,8 168,3 196,6 201,1
Campania 36,9 36,7 161 158,5 196,3 193,2
Puglia 40,7 42,9 175,8 186,4 205,2 193,1
Basilicata 40,1 42,6 168,4 179,9 228,9 208,8
Calabria 38,5 37 164,2 154,9 206 211
Sicilia 39,8 40,2 175,7 176,1 215,8 204,7
Sardegna 38 36,3 166,4 160,7 190,5 158,2
Italia 36,5 36,6 160,5 160,9 226,2 194,8
Fonte:Barbagallo, 1973
3
Per quanto riguarda la crescita demografica all’indomani dell’unificazione si può affermare che
l’unico aumento della popolazione è costituito dall’incremento naturale della popolazione, in
mancanza di correnti migratorie in entrata. I tassi di natalità e mortalità sono sostanzialmente
equilibrati anche se leggere differenze sono riscontrabili nei tassi di natalità più alti nelle regioni
meridionali, dato che si accentuerà ancora maggiormente con gli anni, e in più alti tassi di mortalità
infantile riscontrabili nelle regioni settentrionali (Barbagallo, 1973, pp. 30-34). È solo dopo il 1881
che differenze profonde caratterizzeranno anche l’aspetto demografico che si manifesterà
profondamente diverso tra Nord e Sud a partire dal primo dopoguerra; esso sarà caratterizzato nel
secondo dopoguerra da bassissimi tassi di natalità nel Centro-Nord, più che dimezzati rispetto
3
Dati tratti da De Vergottini M., Natalità e fecondità, Tizzano A., Mortalità generale, in Sviluppo della popolazione
italiana dal 1861 al 1961, <<Annuali di Statistica>>, serie VIII, vol. 17, Istat, Roma 1965, pp. 400-402, 422-23,451-53
in Barbagallo, 1973 p. 33
all’alta natalità nel Sud; inoltre, per quanto riguarda la mortalità infantile <<la situazione precipiterà
a sfavore del Mezzogiorno>>, tanto che nel secondo dopoguerra <<regioni come la Basilicata
oltrepasseranno di più del doppio i tassi di mortalità infantile realizzati nel Centro-Nord>>
(Barbagallo,1973, p. 34).
Il fattore demografico è una delle spiegazioni più semplicistiche utilizzate per determinare le cause
di una emigrazione, infatti si riconosce motivo di un esodo una rapporto squilibrato tra disponibilità
delle risorse e popolazione. Questa relazione però è tipica solo in casi di profondo sottosviluppo
economico, o come afferma Reyneri in casi di <<rottura degli equilibri sociali ed economici dai quali
dipendono le aspettative e i modelli di comportamento>> (Reyneri, 1979, pp. 173-174); in questo senso
l’elemento demografico è <<condizione necessaria>> (Reyneri, 1979, pp. 173-174) ma non
sufficiente a determinare un’emigrazione. Ciò è evidente nei casi di sviluppo economico in cui un
aumento di popolazione è benefico e l’immigrazione avviene proprio in direzione di paesi in
crescita economica capaci e, anzi, bisognosi di manodopera, così da stabilire una interazione
positiva tra incremento demografico ed espansione economica, mentre in situazioni economiche e
sociali critiche quali possono essere definite quelle del Mezzogiorno dall’unità ai giorni nostri
l’incremento demografico è un <<ostacolo a uno slancio espansivo dell’economia>> (Barbagallo,
1973, p. 39).
E’ dunque importante analizzare brevemente l’assetto economico direttamente precedente e appena
successivo al periodo risorgimentale per comprendere alcuni dei motivi della successiva massiccia
ondata di esodo dal Mezzogiorno che si rifanno a cause economiche, in primo luogo al nuovo corso
economico del primo periodo unitario, ed a cause culturali e sociali, rintracciabili soprattutto nella
mancanza di una borghesia capace di gestire la transizione in maniera produttiva per il Sud.
1.1.2 Aspetti economici e sociali del periodo unitario
Il Regno delle Due Sicilie è fortemente dominato, come del resto tutte le altre regioni della penisola
da una economia essenzialmente agricola anche se non mancano esempi di industria, vi sono
cantieri e arsenali metalmeccanici diffusi intorno alla capitale ed esempi di industria tessile nel
Salernitano, di ferriere in Calabria e di cartiere nella zona di Amalfi e della Valle del Liri
(Barbagallo, 1973, p 24) sviluppatisi sulla scia dell’antica vocazione artigianale e spesso <<sorte
[…] per iniziativa del capitale straniero, specialmente nel settore tessile>> e <<per intervento diretto dello
stato nell’industria pesante>> (Barbagallo, 2002, pp. 4-5). L’economia nonostante questi esempi è
fortemente basata sull’agricoltura, tanto che, come riporta Barbagallo, in alcune province
meridionali, soprattutto riguardo a quelle interne (Basilicata) o distanti dalla capitale (ad esempio le
attuali province di Pescara e del foggiano) la presenza contadina supera la percentuale del 90%
della popolazione attiva, secondo il censimento del 1824 (Barbagallo, 1973, p. 28; Barbagallo,
2002, p. 4). Il problema fondamentale dell’economia meridionale è costituito dal carattere che ha
l’agricoltura, questa è fortemente legata a logiche feudali e a modalità di produzione arcaiche che
verranno superate pienamente solo negli anni ’50 del XX secolo (Barra, 2003, in
http://www.lettoeriletto.unisa.it/)
4
.
Nel settore una scossa innovativa la impone il Codice napoleonico nel Decennio francese (1806-
1815) con un procedimento legislativo i cui effetti sono così riassunti da Barra: <<lo scorporo e la
suddivisione dei demani feudali, che furono attribuiti ai Comuni per la parte corrispondente al valore degli
usi civici esercitati. A loro volta i Comuni avrebbero dovuto provvedere a ripartire tra gli indigenti le parti
dei demani a loro attribuite. Ma se la prima fase, la cosiddetta divisione in massa dei demani, fu efficace-
mente e sollecitamente effettuata per intervento diretto dello Stato, attraverso l'opera dei Commissari
ripartitori, la seconda fase, quella delle quotizzazioni, risultò assai più complessa e difficoltosa, finendo con
l'occupare con le sue tormentate vicende tutta la storia dell'800 meridionale e persino parte del '900>>
(Barra, 2003)
La volontà, per molti versi positiva, di innovare l’assetto agricolo ed economico meridionale si
scontra con l’arretratezza sociale e istituzionale, e su di una struttura poco elastica; l’assetto che si
verrà a costruire vedrà un ricambio nella classe più agiata, ai vecchi feudatari si sostituirà una nuova
borghesia, ma le logiche e le strutture resteranno sostanzialmente invariate, e caratterizzeranno,
ancora e più, in maniera negativa il comparto dell’agricoltura (Barbagallo, 2002, pp. 3-4); esso
trasporterà tutta la sua arretratezza strutturale nel nuovo stato unitario. Prendendo ancora a prestito
le parole di Barra: <<La progressiva destrutturazione del feudo ne esaltò e generalizzò gli aspetti
tradizionalmente più negativi, quali l'assenteismo, il parassitismo, la rendita di posizione. Venuti meno sia
come istituzioni che come aziende produttive, i patrimoni feudali vennero rapidamente corrosi e disgregati
dalle successioni ereditarie […] finendo nella maggior parte dei casi nelle mani dei nuovi ricchi, che se ne
impadronirono grazie ai crediti usurari concessi agli ultimi rassegnati esponenti delle antiche case feudali.
Questo processo, inevitabile ed in parte persino positivo, di ricambio sociale, non s'accompagnò però un
rinnovamento nelle strutture produttive. Nelle zone a cultura estensiva, le quotizzazioni demaniali crearono,
o meglio dilatarono a dismisura, la piccola proprietà contadina, parcellare e non autonoma, e quindi al vec-
chio latifondo signorile si sovrappose la realtà, assai più vischiosa, del ”latifondo contadino”. Né ad altri
esiti condusse, sostanzialmente, il parallelo e speculare processo di accumulazione fondiaria borghese, che
non produsse un'effettiva modernizzazione delle strutture agrarie.
In questi irrisolti nodi di fondo dell'economia e della società meridionale del primo Ottocento stanno in gran
parte le ragioni del sottosviluppo e della marginalità del Mezzogiorno dopo l'unità>> (Barra, 2003).
4
Alla pagina http://www.lettoeriletto.unisa.it/barra.htm
La borghesia meridionale non è all’avanguardia per spirito capitalistico e imprenditoriale, ed esiste
già una certa differenza rispetto all’attività degli imprenditori del Nord e del Centro Italia, questi
ultimi già sono inseriti in un’ottica di produzione pre-capitalistica che ha effetti nella modifica già
intrapresa dell’assetto agricolo con l’utilizzo di investimenti atti ad aumentare e modernizzare le
tecniche nell’agricoltura (Barbagallo, 1973, p. 37-38).
Questo dato è importante per comprendere, perché in futuro un ritardo colmabile si farà abissale per
il Mezzogiorno, esso è spesso legato all’ottusa cecità di una borghesia per molti aspetti parassitaria
della Corte Reale, adagiata sui privilegi del possesso della terra e della rendita fondiaria e
disinteressata ad un reale sviluppo delle tecniche produttive, tanto che ebbe a dire il Franchetti delle
province di Calabria e Basilicata, le più arretrate all’indomani dell’unità: <<Al gran signore non
importa che si produca molto sulle sue terre, ma vuole che tutto ciò che si produce sia suo [….]. Egli
insomma vuole potenza, ma in quelle condizioni di civiltà, la sola potenza che egli possa immaginare ed
anche ottenere è quella di un principotto selvaggio>> (Petraccone, 2005 p. 17).
Circa cinquant’anni dopo sempre riguardo alle relazioni tra contadini e signori locali e sempre
riguardo alla Basilicata dirà Carlo Levi: <<Si usa dire che il grande nemico è il latifondo, il grande
proprietario; e certamente, là dove il latifondo esiste, esso è tutt’altro che una istituzione benefica. Ma se il
grande proprietario, che sta a Napoli, a Roma, o a Palermo, è un nemico dei contadini, non è tuttavia il
maggiore né il più gravoso. Egli almeno è lontano, e non pesa quotidianamente sulla vita di tutti. Il vero
nemico, quello che impedisce ogni libertà e ogni possibilità di esistenza civile ai contadini, è la piccola
borghesia dei paesi. E’ una classe degenerata, fisicamente e moralmente: incapace di adempiere la sua
funzione, e che solo vive di piccole rapine e della tradizione imbastardita di un diritto feudale. Finchè questa
classe non sarà soppressa e sostituita non si potrà pensare di risolvere il problema meridionale>> (Levi,
1975, pp. 221-222).
I contadini meridionali dunque in seguito al Decennio Francese e fino all’unità d’Italia perdono
<<definitivamente gli ultimi usi civici (di semina, di pascolo, di legnatico)>> (Barbagallo, 2002, p. 7) ed
in cambio hanno nuovi padroni, una borghesia terriera che mutua le abitudini tipiche della nobiltà
nella vita sociale, e inoltre riprende dalla feudalità <<caratteri e forme di sfruttamento della terra e dei
contadini>> (Cit. Barbagallo, 2002, p. 7; Villari, 1998, p. 10; Barbagallo, 1973, pp. 37-38).
Il mercato interno meridionale pre-unitario è fortemente protetto <<dalla politica fiscale e doganale
del governo borbonico>> (Barbagallo, 2002, p. 5), è questo che mantiene un certo equilibrio delle
dinamiche economiche (Barbagallo, 1973, p. 38) e al tempo stesso, però, ne rallenta, o ne blocca del
tutto un reale sviluppo e una reale modificazione della <<struttura economica della società
meridionale, che si trovava allora ad attraversare la sua fase di transizione dal feudalesimo al
capitalismo>> (Barbagallo, 2002, p. 5). Sullo stesso aspetto c’è un diverso punto di vista
riassumibile dalle parole di Nicola Zitara, per cui il Mezzogiorno pre-unitario è: <<Un paese
strutturato economicamente sulle sue dimensioni. Essendo, a quel tempo, gli scambi con l'estero facilitati dal
fatto che nel settore delle produzioni mediterranee il paese meridionale era il piú avanzato al mondo,
saggiamente i Borbone avevano scelto di trarre tutto il profitto possibile dai doni elargiti dalla natura e di
proteggere la manifattura dalla concorrenza straniera. Il consistente surplus della bilancia commerciale
permetteva il finanziamento d'industrie, le quali, erano sufficientemente grandi e diffuse, sebbene ancora
non perfette e con una capacità di proiettarsi sul mercato internazionale limitata, come, d'altra parte, tutta
l'industria italiana del tempo (e dei successivi cento anni). (...) Il Paese era pago di sé, alieno da ogni forma
di espansionismo territoriale e coloniale. La sua evoluzione economica era lenta, ma sicura>> (AAVV,
2001, presentazione).
Sono dunque in contrapposizione ancora oggi, riguardo al giudizio da dare alla situazione del
Mezzogiorno pre-unitario due diverse posizioni, una che lo vede in una situazione di sostanziale
arretratezza, giudizio basato sulle logiche economiche e sul tipo di relazioni antiquate
5
, l’altra che
vede in questo stesso indirizzo economico un lento e graduale ma costante ed equilibrato mezzo per
passare da una società di stampo feudale ad una prettamente pre-capitalistica e comunque più
innovativa
6
. Ciò non sfugge anche agli occhi di economisti o politici contemporanei, ad esempio,
Tremonti, ministro dell’economia dal 2001 al 2006 (con una breve parentesi di sospensione
dall’incarico nel periodo citato) afferma riguardo al Mezzogiorno pre-unitario sul Corriere della
Sera dell’11 settembre 2004 sul tema della scomparsa di banche meridionali negli ultimi decenni:
<<Prima d’essere unificato (nel Nord), il Mezzogiorno…aveva un suo proprio e molto evoluto sistema
finanziario; era a ridosso della rivoluzione industriale. I titoli delle Due Sicilie erano trattati nelle principali
piazze finanziarie d’Europa. Poi è venuta la “unificazione”, che ha annichilito la società meridionale e di
riflesso e per conseguenza ha interrotto il suo processo di sviluppo…Sopravvisse tuttavia, tanto era forte, il
sistema bancario meridionale, basato sui grandi istituti di Napoli, Sicilia, Sardegna, attivi nel Mezzogiorno,
nel Nord, all’estero... Poi di colpo – più o meno nell’ultimo decennio – tutto è imploso e precipitato, fino al
collasso>> (Nitti, De Masi, 2005, p. 291)
7
.
A questo riguardo alcuni esempi capaci di mostrare una certa volontà di modificare l’assetto
economico meridionale non mancano, soprattutto per accelerare lo sviluppo nei centri urbani.
Infatti, nell’ultimo periodo pre-unitario i due-terzi circa delle spese statali sono concentrati in
5
Espressione di ancora più profonde differenze storiche e sociali, ad esempio il diverso tipo di sviluppo che si innesca
fin dall’età dei comuni nel Centro-Nord nei secoli precedenti, e che avrebbe influenzato tutto il percorso storico,
l’economia e la cultura.
Lo stesso Barbagallo sembra suffragare l’ipotesi di una differenza pre-esistente e di un sostanziale diverso livello di
sviluppo tra Nord e Sud al momento dell’unità, essa però si accentuò in seguito per una politica economica nettamente
sfavorevole al Mezzogiorno. Si rimanda a Barbagallo, 1973, pp. 37-39 e Barbagallo, 2002, pp. 5-6.
6
Lo stesso Zitara ed esponenti di movimenti meridionalisti sia culturali che politici, i quali sull’onda di un rinnovato
spirito critico, alla ribalta negli ultimi decenni, insistono sulla necessità di rianalizzare tutto il processo risorgimentale e
sulle conseguenze che questo ha comportato per lo sviluppo della società meridionale.
7
Articolo apparso sul Corriere della Sera dell’11 settembre 2004 e citato in Nitti, De Masi, 2005
Campania e nel circondario di Napoli (http://www.leganordmontichiari.org
)
8
. Questo processo è
ben visibile se si pensa anche allo sviluppo delle vie di comunicazioni, praticamente inesistente
nelle zone rurali, che vede, però, Napoli come capofila della nascita di una linea ferroviaria italiana
già nel 1839, anno in cui si inaugura la linea Napoli-Portici (; Ressa, 2003, p. 137)
9
. Non mancano
dunque esempi di una volontà di innovazione e di sviluppo delle vie di comunicazione che
collegano le zone più industrializzate del regno, la Napoli con l’industria pesante alla zona del
salernitano con il settore tessile e alimentare
10
. E’ presente, soprattutto in Campania, il polo
industriale più avanzato della penisola; punta di diamante del reparto industriale, che conta 100
industrie metalmeccaniche nel regno, è il Reale Opificio di Meccanico e Pirotecnico di Pietrarsa,
che, completato nel 1853 è <<la più grande industria metalmeccanica d’Italia […] alla vigilia dell'unità,
al Nord solo l'Ansaldo di Genova è a livello di grande industria, tuttavia essa aveva 480 operai contro i
1.050 di Pietrarsa>> (Ressa, 2003, p. 121; http://www.microsys.it/pietrarsa/).
Lo stato delle finanze del Regno borbonico è florido, vi è nelle banche meridionali grande
disponibilità di riserve auree monetarie come dimostra la tabella (1.2) relativa degli stati preunitari
così riportata da Francesco Saverio Nitti (Ciano, 1996, pp. 10-11; Ressa, 2003, p. 161)
11
:
Tabella 1.2
Regno delle Due Sicilie
Lombardia
Ducato di Modena
Parma e Piacenza
Romagna, marche e umbria
Roma
Sardegna
Toscana
Venezia
totale
443,2
8,1
0,4
1,2
55,3
35,3
27,0
85,2
12,7
668,4
Fonte: Ciano, 1996
La situazione del Regno borbonico al momento dell’unificazione è di grande solidità economica,
<<le riserve auree erano, per abitante, il doppio di quelle degli altri stati europei>> (Ressa, 2003, p.
8
Notizie riprese dalla pagina internet
http://www.leganordmontichiari.org/news/Montichiari/Garibaldi/txt_garibaldi.htm
9
Sito ufficiale delle Ferrovie dello Stato a pagina http://www.trenitalia.com/tcom/html/link_it.shtml#cultura, per la
storia dettagliata dell’evento si rimanda al link presente nella stessa pagina del Museo Ferroviario di Pietrarsa,
http://www.microsys.it/pietrarsa/
10
La tratta Napoli-Portici, era parte della Napoli-Nocera (città che confina con Salerno), progetto del 1836 che
prevedeva inoltre una diramazione per Caserta. Da Serafino in sito internet http://www.lestradeferrate.it/mono4.htm
11
Dati tratti da Nitti F. S. (1903) Scienze delle Finanze ed. Pierro, Napoli, pag. 292 in Ciano A. (1996) I Savoia e il
massacro del Sud, ed. Grandmelò, Roma, prefazione e Ressa, 2003
161), tuttavia questo stesso aspetto risulta criticabile per la tendenza del Banco di Napoli a non
investire in produttività, come afferma Carano-Donvito: << … nell’ex Regno delle Due Sicilie si
perdevano annualmente i profitti che si sarebbero potuti ricavare dalla somma [nel complesso] di 300
milioni, se questa fosse stata investita in speculazioni agricole, industriali e commerciali con l’aiuto del
credito […] invece quel valore marcisce negli scrigni dei proprietari>> (Ressa, 2003, p. 161)
12
; però la
tassazione è molto bassa, così come il debito pubblico, infatti nel Regno <<Il prelievo fiscale non era
gravoso ed il sistema di esazione molto semplice; il debito pubblico era 1/4 di quello del Piemonte (nel
1860 era di 411,225 milioni di lire per il Regno napoletano a fronte di 1.271,43 milioni di lire per il
Piemonte [Ressa, 2003, p. 159]
13
), i beni demaniali ed ecclesiastici avevano un valore elevatissimo e la
quantità di moneta circolante era pari al doppio di quella di tutti gli altri Stati della penisola messi
insieme>> (http://www.lastoriadinapoli.it/)
14
.
L’obiettivo del pareggio di bilancio, dopo l’Unità, in un primo momento fa aumentare a dismisura
la tassazione, essa passa dal 1862 al 1876 da un prelievo fiscale pro-capite di 10,59 lire a 35,64 lire
(in essa è contenuta la famosa Tassa sul macinato del 1868 e la Tassa sul sale); inoltre l’imposta
fondiaria aumenta nel Mezzogiorno del 40% (De Clementi, 1999,
p. 10)
15
.
La tassazione va a gravare soprattutto sulla popolazione agraria come dimostrerà in seguito
l’Inchiesta Jacini del 1878 (Cafiero, 1989, p. 28), ma il colpo di grazia è dato dalla successiva
politica di sviluppo industriale e dall’introduzione del dazio sul grano del 1887 che nel meridione
protesse, in pratica, la coltura estensiva e, dunque il latifondo, danneggiando in maniera profonda
piccoli coltivatori e braccianti (Cafiero, 1989, p. 38). Certamente non sembra causale a tale
proposito ricordare che l’emigrazione meridionale inizia proprio ad acuirsi nell’ultimo decennio del
secolo per toccare punte vertiginose nei primi vent’anni del ’900, nel primo periodo unitario essa è
sostanzialmente emigrazione da regioni del Nord e del Centro, come vedremo in seguito.
Se dunque è in espansione l’industria e l’economia è solida, ma strutturalmente arretrata, si trova la
più grave mancanza, nel sistema economico e sociale meridionale pre-unitario, nell’inesistenza di
una classe dirigente orientata al capitalismo moderno, come ebbe a dire Fortunato, <<che fosse
modello ed esempio di generosità, di onestà a tutta prova, di squisita cavalleria>> (Petraccone, 2005, p.
54)
16
; questo è evidente sia nell’industria, che nell’ex Regno conta soprattutto professionisti
strettamente dipendenti dalla corte borbonica, in quanto essa si sviluppava per conto dello Stato o
12
Carano-Donvito G., 1928, L’economia meridionale prima e dopo il Risorgimento, Vallecchi, Firenze, pp. 65-107 in
Ressa, 2003
13
Dati tratti da Ressa, 2003, testo liberamente consultabile in sito internet http://www.ilportaledelsud.org/mr0_50.htm
14
Dal sito internet http://www.lastoriadinapoli.it/storia_unita_econ.asp
15
<<Successivamente le cose non cambieranno, così, nel primo decennio del secolo ventesimo, una provincia depressa
come quella di Potenza paga più tasse d’Udine e la provincia di Salerno, ormai lontana dalla floridezza dell'epoca
borbonica essendo state chiuse cartiere e manifatture, paga più tasse della ricca Como>> da Il Sud e l’Unità d’Italia
di Giuseppe Ressa in http://www.ilportaledelsud.org/mr0_50.htm
16
Da Fortunato, 1978, p. 9 in Petraccone, 2005
per investimento straniero, sia, molto più gravemente nell’agricoltura, governata da una nuova
classe latifondista non interessata all’ammodernamento del settore (Barbagallo, 1973, p. 37) e,
soprattutto, adagiatasi sui vantaggi garantiti dal nuovo governo, come mostrano le analisi di
Sonnino e Franchetti
17
(Petraccone, 2005, pp. 12-38).
Una economia alquanto solida si contrappone a rapporti di stampo pre-moderno della classe
dirigente, legata all’iniziativa della corte ed alla rendita terriera. A questo tipo di rapporto nelle alte
sfere fa inevitabilmente riscontro una barriera per il progresso civile della popolazione, soprattutto
quella rurale, della quale in massima parte si disinteressano gli stessi signori locali, esponenti di una
“nuova borghesia” assenteista e parassitaria (Monti, 1989, p. 26; Barra, 2003 in
www.lettoeriletto.unisa.it/barra.htm; Barbagallo, 1973, pp. 37-38
). Questa arretratezza nella
gestione economica e la conseguente mancanza di vivacità imprenditoriale nell’agricoltura avrà
come conseguenza la volontà dei signori terrieri di pretendere dal nuovo governo, in cambio del
proprio appoggio in Parlamento, solo misure atte a mantenere inalterata la struttura agricola (Monti,
1989, p. 26-27) tanto che ebbe a dire Salvemini: <<I moderati del Nord hanno bisogno dei camorristi
del Sud per opprimere i partiti democratici del Nord; i camorristi del Sud hanno bisogno dei moderati del
Nord per opprimere le plebi del Sud>> (Petraccone, 2005, p. 102). Lo studioso si farà così portavoce di
un tipo di federalismo in grado di abbattere la centralità dello Stato e del Parlamento dominato da
questo scambio di interessi (Petraccone, 2005, pp. 98-103).
1.1.3 L’accentramento legislativo. La piemontesizzazione
Il meridionalismo di Salvemini è rivolto soprattutto ad una questione <<federalista>>
18
secondo cui
l’accentramento amministrativo avrebbe provocato e stava provocando una miopia del sistema nel
tenere conto delle diverse realtà locali con la conseguenza di fare dell’uniformità legislativa uno
strumento tanto diffuso quanto inadeguato a cogliere i caratteri economico-sociali specifici dei vari
territori (Petraccone, 2005, pp. 98-103). Questo si va costituendo a danno soprattutto per il
Mezzogiorno, prima il più grande stato della penisola, regolato da normative anche antiquate ma
garanti di un solido equilibrio, per cui l’applicazione di un’uniformità legislativa proveniente
soprattutto dall’ex-Regno piemontese e dunque notevolmente dissimile dal vecchio regno borbonico
17
Franchetti analizza anche il consolidarsi del fenomeno della mafia attraverso lo sviluppo del sistema clientelare a tutti
i livelli, non contrastato dal governo che anzi è stato <<il primo a lasciarsi corrompere dalle influenze locali>>,
Petraccone, 2005, p. 29
18
Della questione del decentramento amministrativo si occuperà in seguito, sulla scia del pensiero salveminiano ma con
differenze notevoli nelle finalità anche Sturzo; per Salvemini maggiore autonomia locale è uno strumento necessario
della lotta di classe per i contadini meridionali, per il prete siciliano sostanzialmente il contrario, uno strumento per
evitare questo scontro (Cafiero, 1989, p. 37)
risulta profondamente traumatica (Cafiero, 1989, p. 20). <<La prima legislatura del “nuovo“ Regno
d’Italia si chiamò “ottava“ perché tale era quella del regno sabaudo, Torino rimase capitale e si
declassarono quelle degli stati preunitari a sedi di prefettura. La costituzione, le leggi, il codice penale,
l’ordinamento giudiziario, le istituzioni pubbliche e il sistema finanziario piemontese furono imposte a tutti i
nuovi sudditi [la cosiddetta “piemontesizzazione”]. Alla fine del 1866, su 59 prefetti esistenti, ben 43 erano
piemontesi ed il resto emiliani o toscani; anche la toponomastica di strade e piazze fu cambiata…>> (Ressa,
2003, p. 156). Questo accentramento viene applicato senza tenere conto delle esigenze dell’ex-
Regno, della sua geografia e del suo pur minimo sviluppo, cosicché si applicano anche a Napoli,
una delle città più popolose e sviluppate d’Europa, con una popolazione di 447.065 abitanti
19
le
stesse leggi regolanti realtà molto meno popolose e diverse socialmente ed economicamente. Il
nuovo corso dell’economia e della politica segnano una rottura delle dinamiche economiche e
politiche consolidate nel Regno borbonico a cui è <<imposto brutalmente il modello amministrativo,
fiscale e militare del Piemonte>> (Cafiero, 1989, p. 20). Ciò avviene, dunque in maniera traumatica,
anche se, a detta di molti studiosi tra cui importanti meridionalisti, e lo stesso Nitti, necessaria
(Cafiero, 1989, p. 33). Il nuovo ordine di eventi investe profondamente gli stessi rapporti e le
relazioni tra le diverse parti dello Stato in cui si sviluppano due veri e propri microcosmi socio-
economici totalmente differenti e al tempo stesso dipendenti l’un l’altro che segnano la nascita di
una <<questione meridionale>> che investe soprattutto il concetto di relazione sociale ed
economica (argomento che si ritroverà in Gramsci) del Mezzogiorno insulare e continentale col
resto d’Italia (Barbagallo, 2002, p. IX, pp. 5-6).
1.2 Nasce la <<questione meridionale>>
1.2.1 Cenni su una questione meridionale
L’annessione alle regioni del Nord pone, dunque, un problema che investe soprattutto l’aspetto
delle relazioni tra Nord e Sud del Paese. La nozione di <<questione meridionale>> nasce infatti con
l’unità, dallo stesso processo di sviluppo e consolidamento dello Stato italiano (Petraccone, 2005, p.
3). Dalle parole di Barbagallo: <<Il Mezzogiorno si era presentato come questione meridionale a partire
dall’unificazione nazionale, all’interno quindi dello stato italiano e in rapporto col particolare processo di
sviluppo capitalistico avviato in Italia dopo l’unità>> (Barbagallo, 2002, p. 5). Si pone subito, dunque,
come dramma nel dramma della più generale arretratezza italiana la condizione di decadimento ed
19
Per rendere l’idea della differenza demografica tra Napoli e le altre città italiane basta analizzare un dato, le città più
grandi e popolose in Italia sono Torino, Roma e Milano, che hanno rispettivamente 204.715, 194.587 e 196.109 abitanti
secondo il censimento del 1861 (Ciano, 1996, p. 12)
arretratezza economica, sociale e civile del Mezzogiorno; a questa si unisce una dubbia volontà di
affrontare il problema da parte della classe politica ed economica che tende a guardare
all’emigrazione come panacea per i mali meridionali e nei termini di risorsa nazionale, tanto che
afferma Coletti: <<Ciò che per il Settentrione è stata la grande industria, per il Mezzogiorno è stata
l’emigrazione. In questo modo, con i diversi mezzi, il nuovo regime soddisfaceva i bisogni delle
popolazioni>>
20
(Barbagallo, 1973, pp. 40-41).
Il passaggio allo stato unitario investe tutti i campi, e questo passaggio segna tutti i settori della
società sotto l’aspetto economico e sociale ma si devono ai primi meridionalisti, tra i quali Villari,
Sonnino, Franchetti, Nitti, Fortunato, Salvemini, De Viti De Marco, Colajanni, Ciccotti, e poi
Gramsci e Sturzo le prime analisi di <<impianto positivistico>> (Barbagallo, 2002, p. 9) sul
Mezzogiorno.
Il primo carattere delle questione meridionale investe soprattutto il piano sociale ed è a questa
problematica che i primi studiosi si dedicano, anche in mancanza di dati statistici, ed è soprattutto
legata ai nomi di Villari, Sonnino, Franchetti, Cavalieri; l’altro aspetto verte su un campo più
prettamente politico-economico ed a questo sono legati soprattutto i nomi di Fortunato, Salvemini,
Nitti, Colajanni, Ciccotti, Gramsci e Sturzo, per citarne i maggiori ma non gli unici esponenti. La
questione meridionale nasce dunque come questione sociale per divenire pochi decenni dopo, anche
a seguito del forte aumento dell’emigrazione, del malcontento contadino, e riguardo alla sempre più
marcata connotazione dualistica italiana questione economica e politica (Petraccone, 2005, pp. 3-
152)
21
.
20
Coletti F. Dell’emigrazione italiana, in Benini R., Cinquanta anni di storia italiana, Vol. III, p. 216, Milano 1911, in
Barbagallo, 1973
21
La sintesi del percorso della prima evoluzione del concetto di questione meridionale è basata sull’analisi e
l’evoluzione generale del concetto proposta in Petraccone, 2005.