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cinema, radio. E televisione, appunto. Televisione concepita per un pubblico in grado di
fagocitare e metabolizzare il numero d’immagini che gli viene esponenzialmente
somministrato; un pubblico sempre più alfabetizzato ed esigente. Un pubblico che varia
attraverso i decenni: un pubblico in bianco e nero, un pubblico a colori. Un pubblico che si
diverte dal suo salotto piccolo-borghese e la cui cellula costituente, il nucleo famigliare, viene
costantemente ripresa e riadattata nelle molteplici “tele-visioni” offerte dallo specchio
televisivo e dal genere sitcom. Ognuna ripresa secondo la cifra distintiva del proprio particolare
periodo storico.
I Love Lucy; The Addams Family; Happy Days; Cheers; The Simpsons e Friends ma non solo:
una carrellata d’immagini e di situazioni articolate secondo lo schema della serialità che, prima
di essere materia di questo saggio, fanno parte del nostro immaginario in quanto tele-
spettatori.
La Commedia ha mille maschere e mille volti cangianti: mio sarà il compito di mostrarvi il suo
aspetto post-moderno.
Dimenticavo, nel caso voleste ancora approfondire il discorso su Balzac, bene, non voltate
pagina (risate off).
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Teaser
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1. Le Origini
1.1 “C” come “Commedia”
Oltre l’occhio della telecamera, prima dell’occhio della telecamera. Un lavoro che si proponga di
destrutturare le grammatiche operanti all’interno del genere situation comedy, non può
prescindere dal sviluppare un certo schema narrativo teso ad evidenziarne i meccanismi.
Questo capitolo costituirà dunque il nostro teaser o, come meglio lo definisce Jurgen Wolff,
“una breve scena che può andare perfino prima dei titoli, o subito dopo, seguita dalla
pubblicità”
1
. Alcuni secondi o forse minuti, esenti da pubblicità, per stabilire le coordinate entro
cui muoverci all’interno di questo macro-genere chiamato “Commedia” che, con il suo apparato
iconografico e la lente deformante della comicità, ha investito il repertorio televisivo degli
ultimi cinquant’anni. Seguiranno ad esso un atto primo ed un inevitabile atto secondo nei quali
tratteremo, rispettivamente, il testo sitcom dal punto di vista strutturale e da quello
storiografico. Al tag o conclusione il compito di chiudere il lavoro prima di cambiare canale.
“C” come “Commedia”, dunque. L’italiano commedia deriva dal latino comoedia, proveniente
dal greco komoidia, a sua volta composto di komos, festino e oidé, canto e che forse indicava
in origine il canto dei festini in onore di Dioniso.
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Agli albori della nostra letteratura, il vocabolo indica un componimento poetico con un’azione a
lieto fine, scritto in stile comico, cioè medio, tra il tragico e l’elegiaco. Così Dante intitola
comedìa il suo poema e chiama tragedìa l’Eneide di Virgilio.
Nel Cinquecento, col ritorno in voga della commedia classica, il vocabolo riprende il significato
greco e latino, quello di rappresentazione teatrale, e si contrappone alla tragedia e al dramma.
La commedia ha maggiore varietà della tragedia, anche perché non si hanno regole
aristoteliche come per la tragedia.
La commedia greca è una tipica forma di celebrazione religiosa, originariamente connessa con
il culto di Dioniso. Nasce infatti dalle fallofòrie dionisiache alle quali si aggiungono elementi di
commedia popolare. In origine era un canto epico-lirico con un’invocazione e una narrazione
dei fatti; a volte ai canti si univano beffe per gli spettatori.
Si suole dividere la commedia greca in tre periodi: la commedia attica antica, caratterizzata da
un grande sviluppo della parte lirica, dalla presenza di elementi fantastici e dalla satira politica
e personale; la commedia attica di mezzo, che è una parodia mitologica, filosofica e letteraria;
e la commedia attica nuova, rappresentazione ridicola dei costumi e dei vizi della media
umanità.
A Roma la commedia nacque con Livio Andronico che, nel 240 a.C., portò sulla scena una
commedia e una tragedia greca tradotte. Ma nel teatro comico romano, a differenza di quanto
accade nella commedia greca delle origini, manca un vero e proprio senso religioso. Inoltre
l’attore e il poeta non sono tenuti in grande considerazione.
Dalla commedia importata dalla Grecia si distinguono forme comiche autoctone: il fescennino,
la satira e l’atellana il cui nome proviene da Atella, città osca della Campania. Invece il mimo è
importato dalla Magna Grecia, anche se nel nuovo ambiente subisce qualche trasformazione.
In tutte le commedie latine sono conservate le unità di tempo e di luogo.
Nel Medioevo la commedia decade e lo spirito comico serve a ravvivare soltanto qualche passo
delle sacre rappresentazioni o qualche scena del mimo. In generale la comicità è propria degli
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J. Wolff, Come funziona una sit-com, Roma, Ed.Dino Audino, 2000.
2
In www.educational.rai.it/lemma/testi/teatro/commedia
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ambienti goliardici e popolari. Del XII secolo è caratteristica la commedia elegiaca, in cui il
dialogo è inserito in un racconto continuato.
Nel periodo umanistico riprende vigore la tradizione classica. La prima commedia in volgare del
mondo moderno è la Cassaria dell’Ariosto.
Più tardi nasce la Commedia dell’Arte, caratterizzata dalla presenza di protagonisti fissi che
s’identificano con le maschere come Pantalone e Colombina. Si recitano commedie
all’improvviso, a soggetto o a braccio. Scritta è soltanto la trama, detta canovaccio.
Dei numerosi tipi di commedia ricordiamo la commedia d’intreccio, dalla trama molto
articolata, la commedia di carattere, in cui si evidenziano tipi psicologici, considerati
soprattutto nei loro difetti, la commedia musicale, spettacolo teatrale e cinematografico a metà
strada tra operetta e rivista.
Commedia versus Tragedia, dunque: ciò si evince dalla loro tradizione ormai millenaria ma,
soprattutto, dalle loro dinamiche interne tese a catturare l’attenzione dello spettatore. Se la
Tragedia mira al totale coinvolgimento emozionale della platea, la Commedia esercita il proprio
fascino attraverso il distacco intellettuale del pubblico; dove la tragedia enfatizza la grandezza
umana, la commedia delinea le umane debolezze; dove la tragedia celebra la libertà dello
spirito, la commedia ne sottolinea tutti i limiti.
E proprio dal palco teatrale (elemento fondamentale della rappresentazione, come vedremo,
anche all’interno del mezzo televisivo) la funzione “catartica” e liberatoria della commedia ha
invaso i repertori narrativi dei due media moderni per antonomasia, cinema e televisione e,
laddove la comicità costituiva un tempo un casuale artifizio per intrattenere il pubblico,
nell’ultimo secolo è invece assurta a cifra distintiva del genere commedia con il quale
soventemente e superficialmente possiamo identificarla.
Vaudeville, slapstick comedy, fumetti, commedie cinematografiche e radiofoniche: sono tutti
elementi di quel immaginario che, a metà del secolo scorso, la televisione fagociterà,
decodificherà e ricodificherà in un nuovo ed irriverente testo denominato situation comedy.
1.2 L’Alba della Serialità
E’ cominciato tutto da qui.
Anche prima, a dir la verità. Ma i Peanuts, le “personcine” disegnate da Charles M. Shulz, sono
uno degli esempi più longevi e sicuramente il più celebre di produzione seriale.
L’elogio reiterato negli anni da Umberto Eco a questo “poeta” rende solo in parte l’impatto che
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hanno avuto Charlie Brown & Co. sulla società statunitense ed occidentale, scandendo per più
di cinquant’anni la vita degli americani attraverso le loro strip quotidiane e domenicali.
Coevo della sitcom e di altri generi d’intrattenimento, il microcosmo creato da Charles M. Shulz
rappresenta, nelle stesse parole di Eco tratte dall’introduzione alla prima edizione italiana del
fumetto, “una piccola commedia umana sia per il lettore candido che per quello sofisticato”.
La serialità come forma rituale e ripetitiva, dunque, retaggio industriale che, nel pensiero di
Alberto Abruzzese, si emancipa dalla standardizzazione delle fabbriche e riposiziona la
rappresentazione, frammentandola, nei codici espressivi della comunicazione.
All’inizio del secolo scorso sono proprio gli Stati Uniti il baricentro di questa sinergia produttiva:
la moderna industria culturale ricodifica la narrazione all’interno di schemi dalle grammatiche
simili e talvolta identici, ma mai ripetitivi, quanto piuttosto “seriali”.
Prodotti d’intrattenimento che sappiano fidelizzare il pubblico della metropoli e non solo; una
letteratura rigidamente definita e in simbiosi con il concetto di “genere”, che procrastini le
dinamiche del consumo a scansioni quotidiane e settimanali. E come vedremo più avanti nel
sesto capitolo, “i generi incorporano capacità di rappresentare i più vari livelli del progressivo o
traumatico cambiamento delle forme sociali indotto dalle innovazioni” (Gino Frezza, 2001).
Generi che, proprio sotto la spinta della narrazione seriale televisiva, si contamineranno in
nuovi formati come la situation comedy, ridefinendo anche la produzione d’immaginario
cinematografico a partire dal “New American Cinema” degli anni settanta.
Se dagli anni dieci (fino ai quaranta) sono i serial cinematografici cosiddetti di serie B (i
Chapterplays) a sperimentare tali modelli, a partire dagli anni trenta, radio e carta stampata
diventeranno i due mass media che meglio elaboreranno il testo seriale attraverso format quali
il radiodramma a puntate e, appunto, la striscia quotidiana a fumetti, traducendo gli schemi
tipici del feuilleton ottocentesco. Venti anni più tardi, all’inizio degli anni cinquanta, sarà
proprio l’influenza di questi due media (e dei rispettivi repertori narrativi ed iconografici) a
dettare le grammatiche della nascente fiction televisiva, inizialmente caratterizzata, nelle
parole di Diego Del Pozzo,
da secchezza narrativa, azioni molto concentrate, sequenze brevi sottolineate da roboanti stacchi
musicali (quasi l’equivalente sonoro delle scritte onomatopeiche presenti nei comics), montaggio
rapidissimo, numerose ellissi narrative, dialoghi estremamente sintetici, scarsi compiacimenti
descrittivi.
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I parametri del nuovo immaginario vengono quindi metabolizzati dal “nuovo” pubblico
statunitense: la televisione legittima il suo primato sugli altri mass media entrando nelle case
degli americani con i propri format, la cui struttura iniziale ricalca inevitabilmente i meccanismi
radiofonici, archetipi sui quali erano fino ad allora articolate (e consolidate) le ovvie logiche
commerciali del mercato pubblicitario.
Il testo seriale instaura con lo spettatore un rapporto dialettico sul piano della creazione di
aspettative; appare evidente il perchè un simile processo sia stato immediatamente fagocitato
da un’economia fondata (allora come adesso) sulla “esibizione” di bisogni, necessità e desideri.
Il punto di svolta di quella che verrà poi definita la “Golden Age” della televisione statunitense
(prima metà degli anni cinquanta) è però il 1948, anno nel quale, in seguito al cosiddetto
“Decreto Paramount”, la struttura monopolistica cinematografica si disgrega in favore di quella
televisiva, che verrà poi ulteriormente tutelata con la regolamentazione da parte del Governo
dell’assegnazione delle frequenze, virtualmente bloccata fino al 1952. Enti radiofonici quali
NBC, CBS, ABC, satureranno per lungo tempo il mercato televisivo impedendo l’accesso alle
majors hollywoodiane. Una situazione d’ostracismo alla quale gli studios faranno fronte
3
D. Del Pozzo, Ai confini della realtà, Torino, Lindau, 2002, pag. 32.
12
ridefinendo la propria produzione in termini catodici: quella che fino ad allora veniva concepita
esclusivamente come rappresentazione live, incontra da questo momento le dinamiche
produttive cinematografiche, delle quali le fiction seriali o TV series sono il veicolo principale. I
network newyorkesi si interfacciano con Hollywood attraverso un ponte ideologico che coniuga
le majors alle logiche di Wall Street.
La scansione narrativa seriale, ha riconfigurato le circostanze di fruizione e le grammatiche
della rappresentazione, influenzando profondamente i repertori televisivi e cinematografici
degli ultimi cinquant’anni.
E se nella serialità si cristallizza quella che Omar Calabrese definisce “l’estetica della
ripetizione”
4
, questo scarto rende le TV series dei “segmenti” perfettamente inseriti nell’era
digitale, format tipicamente postmoderni che, ancora più dei film, riflettono l’attuale
frammentazione del sistema mediatico (Del Pozzo, 2001).
1.3 Origini di Situazioni
Guardare attraverso un solo occhio: mutilare la vista in due simmetriche parti costituite l’una
da realtà e l’altra da immaginazione. Tutta l’immaginazione che evoca uno schermo nero, tutta
la “singolare” visione dettata dall’obbiettivo della telecamera. E’ così che ci appaiono i testi
prodotti da cinema e televisione, in corrispondenza alla naturale vocazione mitopoietica insita
in questi due media; a queste regole non si sottrae la situation comedy, visione distorta ed
amplificata, in definitiva irreale, ma costantemente e tenacemente aggrappata a quella realtà
di cui rappresenta una maschera.
E’ sullo sfondo della società americana del dopoguerra e dei primi anni cinquanta che la sitcom,
in risposta alla forte domanda d’intrattenimento, definisce le sue coordinate di genere
televisivo; regole e tempi mutuati e reinterpretati a sua volta dalla radio, verso la quale la
neonata televisione contrae un debito formativo a livello dei contenuti, una sorta di eredità
mediatica.
Se, difatti, Newcomb asserisce che per definire le origini della situation comedy non si possa
trascendere dalla farsa, dalla commedia slapstick, dalle commedie teatrali fino ai “quasi” coevi
film muti
5
, è proprio dai contenuti radiofonici che la sitcom prende spunto. Ad avallare quella
che sembra decisamente qualcosa di molto più concreto di una teoria, è lo studio di Martin
Mayer, il quale afferma che il genere si è sviluppato in radio negli anni trenta, sottolineandone
inoltre il determinante contributo nella diffusione e nell’affermazione del medium stesso.
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Parlando di debiti formativi ed eredità a livello dei contenuti, troviamo un punto di contatto tra
le teorie di Newcomb e quelle di Mayer proprio nell’influenza che il vaudeville ha avuto nella
nascita di un certo tipo di linguaggio radiofonico. “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si
trasforma”: proprio attenendosi ad un constatato asserto della fisica, l’esperienza dei comici di
vaudeville, dei commedianti e dei menestrelli che viaggiavano per un’America socialmente
stratificata e catalogata per entità di pubblico, viene così riversata nella radio, contribuendo
alla nascita della commedia radiofonica. Evitando di affrontare ed ironizzare tematiche
d’attualità ed astenendosi da quella satira politica fiume che ha rappresentato la cifra di gran
parte dello humour americano verso la fine degli anni sessanta, la commedia radiofonica,
secondo la testimonianza dello storico J. Fred MacDonald, ha basato inizialmente la propria
comicità sull’interazione e lo scambio di battute tra il commediante stesso ed il suo assistente,
4
O. Calabrese, “I replicanti”, in F. Casetti (a cura di), L’immagine al plurale, Venezia, Marsilio, 1984, pag.
73.
5
H. Newcomb, TV: the most popular art, Garden City, New York, Anchor Press, 1974.
6
M. Mayer, About Television, New York, Harper & Row, 1972.