6
Introduzione
L’etica contemporanea occidentale sta attraversando, negli ultimi decenni, una
grande crisi in un ambito di riflessione che non riguarda esclusivamente astratti
problemi accademici, bensì una sfera che influisce direttamente sugli esseri
umani, in un momento molto significativo della loro esistenza: porre fine alla vita.
Se per circa duemila anni l’etica tradizionale è riuscita a regolare, senza incontrare
ostacoli, i nostri pensieri e le nostre decisioni sulla morte, da alcun decenni essa
deve fare i conti con i mutamenti, derivati da ampi sviluppi della medicina, sulle
condizioni del morire. Oggi, pertanto, grazie al ricorso a strumenti e macchine atte
a ritardare la morte, svolgendo funzioni non più garantite dal corpo del morente,
la nozione di morte necessita di una ridefinizione e ciò comporta anche un
riesame dei nostri diritti e doveri nei confronti di essa. Lo storico francese
Philippe Ariès ha sottolineato, addirittura, che con gli anni sessanta del XX secolo
la morte viene quasi cancellata e rimossa, tanto che la sola sua semplice menzione
diviene sconveniente
2
. Tuttavia c’è, accanto ad un atteggiamento generalizzato di
«rimozione della morte», il rovescio della medaglia: lungi dal negare la morte o
tentare di rimuoverla, gli individui sembrano prendere atto della sua inevitabilità,
ne prendono pienamente consapevolezza, ne discutono apertamente e tentano di
imporsi su di essa, cercando di anticiparla, anche fino a richiedere il suicidio
assistito o l’eutanasia (volontaria, attiva o passiva, o l’eutanasia non volontaria).
Occorre sottolineare che nonostante i problemi etici che ci troviamo a dover
affrontare siano intrisi di novità, dettate, come precedentemente detto, dalle nuove
frontiere della medicina, tuttavia il dibattito è in primis morale e poi medico;
infatti le questioni sollevate dalla possibilità che i medici aiutino i loro pazienti a
morire illuminano semplicemente questioni morali già affrontate nella storia della
filosofia del passato. Alla luce di ciò si vengono a creare due ampi spazi di
riflessione critica: da una parte la discussione, tutt’altro che esaurita, sulla nozione
2
P. Ariès, L’uomo e la morte dal medioevo a oggi, Laterza, Roma-Bari 1980.
7
di morte; dall’altra, il problema centrale, di pertinenza della bioetica, sulla
possibilità di riconoscere o meno un «diritto morale a morire». Di seguito ci si
occuperà dell’accertamento e della certificazione della morte degli esseri umani
come una scelta di criterio pregna di contenuto morale e non tanto come un mero
problema di definizione nell’ambito della scienza medica. La trattazione a
tuttotondo di quest’ultima problematica è meritevole di una indagine separata;
pertanto, in questa tesi, saranno effettuati inevitabili accenni a queste
problematiche ulteriori solamente al fine di focalizzare l’attenzione sulla
opportunità di scegliere positivamente la morte di qualcuno (noi stessi o altri),
facendosi aiutare da un medico a realizzarla, in modo da sottrarsi dignitosamente
ad un processo di morte lungo e doloroso. È, dunque, legittima la «buona morte»?
Può sembrare quasi paradossale porsi questa domanda in un tempo storico che
dagli inizi del Novecento, proseguendo nel nuovo millennio, ha visto
incrementare notevolmente le possibilità di lenire il dolore con nuovi farmaci e di
prolungare la vita, nel momento in cui le funzioni del morente vengono
artificialmente «surrogate» da macchine (alimentazione, idratazione, respirazione
artificiali, etc.); e ancora, in un’epoca in cui assistiamo all’abbassamento della
mortalità infantile nell’Occidente e all’innalzamento dell’età media di vita. Perché
allora chiedere di anticipare il trapasso? Perché, molto spesso, la continuazione
della vita non è più un beneficio per il paziente, tormentato dal dolore e
dall’angoscia di una malattia incurabile. A proposito di ciò, a partire dagli anni
settanta del secolo scorso, si è iniziato a sostituire l’espressione «aggiungere anni
alla vita» con «aggiungere vita agli anni»; giunti ad un certo stadio di una malattia
incurabile, gli sforzi devono mirare alla realizzazione di una atmosfera serena e
familiare che permetta al paziente di vivere nella maniera migliore gli ultimi
giorni di vita. Anche se non è più possibile guarirlo, è sempre auspicabile
prendersi cura del paziente fino a consentirgli una «buona morte». Queste nuove
considerazioni sullo status del paziente hanno portato allo sviluppo di una nuova
branca dell’assistenza sanitaria, la cosiddetta medicina palliativa, che interviene
con le cure palliative; esse non sono esclusivamente rivolte alla cura della
malattia, ma anche all’alleviamento delle condizioni di sofferenza del morente.
8
Il tipo particolare di intervento proprio della medicina palliativa non è solo
quello di un’ attenzione per il dolore e una conseguente azione attiva con gli
antalgici per eliminarlo o alleviarlo, ma anche una considerazione della
situazione complessiva del malato con tutte le sue esigenze psicologiche e
problemi di relazione. Le cure palliative si propongono, quindi, di aiutare la
persona morente considerata da un punto di vista più totale per accompagnarla a
finire la sua vita in un modo dignitoso.
3
L’avvento di ciò non solo rappresenta un grande passo in avanti per la medicina
ma, altresì, è eticamente rilevante sotto due punti di vista; da un lato è stata
abbandonata l’antica concezione del dolorismo, appoggiata dalle etiche religiose,
secondo cui anche il dolore terminale è «buono» in quanto consente di mostrare
forza d’animo e diminuire gli anni di purgatorio. Dall’altro lato si guarda al
paziente nella sua complessità, al suo dolore fisico e psicologico. Ciò nonostante,
dall’ampia diffusione delle cure palliative non si deve poter derivare uno
svuotamento del problema etico dell’eutanasia; coloro i quali sostengono
l’accompagnamento del morente credono che medicina palliativa ed eutanasia
sono pratiche alternative. Al contrario, i sostenitori dell’eutanasia obiettano che,
lungi dall’essere tra loro alternative, cure palliative e morte volontaria sono
complementari: inizialmente si interviene con le terapie palliative, e laddove
queste non fossero più utili per evitare la cosiddetta condizione infernale, ovvero
la situazione caratterizzata da persistenti dolori terminali e in cui è persa ogni
speranza di ritornare ad uno stato normale di dignità esistenziale, si prospetterebbe
la possibilità di richiedere l’eutanasia. Pertanto, le modalità di alleviamento delle
sofferenze di un malato terminale non vanno confuse né tantomeno escludono il
problema etico della legittimità dell’eutanasia.
Abbiamo, dunque, il diritto di rifiutare il prolungamento della nostra esistenza?
Abbiamo noi, o i nostri cari, o i medici che ci hanno in cura, il diritto di portare al
termine un prolungamento artificiale della vita, laddove questa non sia più degna
3
E. Lecaldano, Dizionario di bioetica, Laterza, Roma-Bari, 2002 p.211.
9
di essere vissuta? “Is death possible? Can I die? Can I say «I can» with respect to
death? Can I?”
4
.
Rispondere a queste domande equivale ad entrare in uno dei campi più minati
della bioetica, in un territorio ancora non del tutto esplorato e in cui le battaglie
sembrano lontane dal terminare. La partita, essenzialmente, si gioca su due fronti
come sintetizza Maurizio Mori che sostiene che «quando decidono una questione
cruciale di bioetica, gli uomini decidono se regolare la vita sociale in base all’etica
della sacralità della vita oppure all’etica della qualità della vita». È su questi due
paradigmi interpretativi del valore della vita che è centrato tutto il dibattito sul
suicidio assistito e sull’eutanasia, insieme a quelli, strettamente correlati, di
autonomia e disponibilità o non-disponibilità della vita umana. Coloro i quali
sostengono la tesi della non-disponibilità della vita, giustificata dal principio della
sacralità della vita (o santità della vita: sanctity of life, come dicono gli
anglosassoni), negano la possibilità di riconoscere legittimità morale al «diritto a
morire»: la vita umana è un dono del creatore, le viene attribuito un valore
assoluto e riconosciuto un posto privilegiato nell’universo; essa, pertanto, non è
integralmente disponibile agli esseri umani. Chi, invece, porta il vessillo dell’etica
della qualità della vita presuppone che gli individui possano disporre, ammettendo
la possibilità di dare diverso valore ad ogni singola vita, della fine della loro vita,
senza affidarsi alla presunta volontà di un creatore o al corso della natura.
Sarebbe riduttivo ricondurre l’etica della sacralità della vita e quella della qualità
della vita rispettivamente ad una bioetica di tipo religiosa ed un’altra di tipo laica,
per tre motivi: primo, perché non sarebbe proficuo al tentativo di una convivenza
pacifica e rispettosa della pluralità di etiche distinte creare una lettura conflittuale
tra paradigmi contrapposti; secondo, in quanto, come fa notare il sociologo
Edward Shils
5
, il principio della sacralità della vita risulta antecedente alla cultura
cristiana monoteista; terzo, perché la fazione religiosa e quella secolare
potrebbero trovare, col tempo, mediante una rivisitazione dei termini in questione,
4
S. Critchley, Very little…Almost Nothing : Death, Philosophy, Literature (New York: Routledge, 1997), p.25.
5
E. Shils, The Sanctity of Life, in D. Labby (a cura di), Life and Death: Ethics and Options, University of Washington
Press, Seattle-London, 1968.
10
una possibile, seppur parziale, conciliazione. Questo è già avvenuto, ad esempio,
da parte di Alan Donagan, James Rachels e Ronald Dworkin che hanno cercato di
trovare una collocazione laica al principio della sacralità della vita
6
. Donagan,
prescindendo da qualsiasi riferimento teologico, fonda l’intangibilità della vita
umana sull’etica kantiana del dovere
7
: muovendo dalla seconda massima
dell’imperativo categorico «agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua
persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente
come mezzo»
8
, egli deduce il valore universale e assoluto del soggetto, solo
l’uomo è un fine in sé, che non può non essere rispettato. Da un’altra prospettiva,
più radicale, muove il bioeticista americano Rachels, il quale reinterpreta il
concetto di sacralità della vita come protezione della vita in senso biografico e
non puramente in senso biologico; egli scrive:
Essere vivi, in senso biologico, è relativamente poco importante. La nostra vita, al
contrario, è immensamente importante; è la somma delle nostre aspirazioni,
decisioni, attività, progetti e relazioni umane
9
.
In ultimo, il teorico statunitense dei diritti, Dworkin che, ampliando il raggio di
significato di «valore», distinguendo tra valore intrinseco incrementale o sacro e
valore soggettivo o strumentale, radica l’individuazione del principio della
sacralità della vita umana nel
rispetto fondamentale per l’investimento umano nella vita, nello stesso orrore per
la prospettiva che tale investimento venga distrutto
10
.
6
G. Fornero, Bioetica laica e bioetica cattolica, Mondadori, Milano 2005, p.155.
7
A. Donagan, The Theory of Morality, University of Chicago Press, Chicago1977.
8
I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, in P. Chiodi (a cura di), Critica della Ragion Pratica e altri scritti
morali, Utet, Torino 2003, p.88.
9
J. Rachels, La fine della vita. La moralità dell’eutanasia, Sonda, Torino 1989, p.11
11
Da queste considerazioni, che verranno in seguito approfondite, si deduce come
sia il suicidio assistito che l’eutanasia facciano da cartine di tornasole per questa
non proprio netta contrapposizione tra etica della non-disponibilità della vita e
etica della disponibilità della vita; sulla scorta di questa opposizione, ne deriva
un’altra che caratterizza la bioetica odierna su due nuovi fronti: da un lato le
etiche della vita, dall’altro le etiche della scelta; le prime, privilegiando in maniera
assoluta il valore «vita» si oppongono alle seconde, cioè alla possibilità che
l’individuo possa scegliere liberamente di sé, in piena autonomia.
Tale sfondo sarà al centro di questa tesi, nella quale si affronteranno, nella loro
prospettiva più strettamente filosofica, il suicidio medicalmente assistito e
l’eutanasia volontaria, nei quali è essenziale l’elemento di disposizione
individuale di sé
11
; saranno esaminate in dettaglio le argomentazioni razionali con
le quali si è cercato di giustificare le possibili soluzioni riguardo alla disponibilità
o meno della vita. Le posizioni che saranno oggetto di questa analisi, e che
interpretano la «buona morte» da un lato attraverso l’etica tradizionale e dall’altro
alla luce del nuovo paradigma morale, sono quattro. Esse non esauriscono tutta la
discussione filosofica intorno a questo scottante e toccante argomento; tuttavia
forniscono un quadro esauriente dei possibili pro e contro, e dei perché, rispetto al
«diritto morale a morire». Anche se apparentemente può sembrare che si proceda
per semplice descrizione ed esposizione dei vari punti di vista, tuttavia la tesi si
propone, non tanto di dimostrare, in quanto non ci si muove sul terreno logico ma
su quella della vita reale, quanto di rilevare che le nuove condizioni del morire
indeboliscono fortemente la razionalità della posizione di coloro che considerano
indisponibile il processo di morte. È un atteggiamento di buon senso, dunque,
abbandonare le etiche assolutiste come quelle della sacralità della vita e la
tradizionale accettabilità di alcuni principi morali, e abbracciare consapevolmente
quelle della qualità della vita e dell’autonomia perché prendono in considerazione
l’effettiva realtà delle cose e non un individuo astratto.
10
R. Dworkin, Il dominio della vita. Aborto, eutanasia e libertà individuale, Edizioni di Comunità, Milano 1994, p.135.
11
«[…] a questi casi paradigmatici anche quelli di eutanasia non volontaria possono eventualmente essere ricollegati in
maniera analogica». (M. Reichlin, L’etica e la buona morte, Edizioni di Comunità, Torino 2002, p. IX)
12
Nei primi due capitoli verranno presi in considerazione gli argomenti a favore del
suicidio assistito e dell’eutanasia: essi sono quelli utilitaristi e quelli liberali,
analizzati attraverso la lettura critica delle opere di due dei maggiori portavoce di
queste dottrine filosofiche, Peter Singer e Ronald Dworkin. Gli utilitaristi,
opponendosi alla tesi della sacralità della vita, avanzano il «principio di
beneficenza» o della qualità della vita, in base al quale l’eutanasia va ammessa
almeno in tutti quei casi in cui essa promuove gli interessi delle persone coinvolte.
In particolare Singer, con la sua chiarezza espositiva ma col suo stile pungente e
provocatorio, si chiede se «l’etica della sacralità della vita è una malata
terminale?»
12
. Uccidere non è sempre sbagliato e non tutte le vite hanno lo stesso
valore: nel caso fossimo costretti ad uccidere qualcuno non dovremmo guardare
alla razza, al sesso o alla specie ma solo alla volontà e al desiderio o meno di
continuare a vivere del soggetto in questione e della qualità della vita che questi
condurrebbe
13
.
La tesi liberale, invece, si basa esclusivamente sul principio di autonomia o
autodeterminazione: l’uomo deve poter decidere e compiere in piena autonomia e
libertà quelle azioni che appartengono a quella sfera che J. S. Mill ha qualificato
come «self-regarding», in cui non devono esserci ingerenze esterne
14
. La
decisione del come e quando morire viene ricondotta appunto in questa sfera, in
cui l’ultima decisione spetta al singolo. In uno Stato laico, liberale e pluralista,
pertanto, se il malato terminale ritiene che la sua esistenza abbia perso
definitivamente ogni significato e importanza, è suo diritto poter ottenere di
morire in modo per lui dignitoso. Dworkin a tal proposito sostiene:
Se sia nel migliore interesse di ciascuno che la vita si concluda in un modo
anziché in un altro dipende in modo così stretto da quant'altro di speciale c'è in
12
P. Singer, Scritti su una vita etica. Le idee che hanno messo in discussione la nostra morale, Net (collana Quality
paperback), Cles (Tn) 2004, p.190.
13
“Se un essere soffre non esiste alcuna giustificazione morale per rifiutare di prendere in considerazione tale
sofferenza” (P. Singer).
14
«Su se stesso, sul proprio corpo e sulla propria mente, l’individuo è sovrano» (J. S. Mill, La libertà. L’utilitarismo.
L’asservimento delle donne, Bur 2007, p.75)
13
lui (dallo stile e dal carattere della vita, dal suo senso dell'integrità e dagli
interessi critici) che nessuna decisione collettiva uniforme potrà mai sperare di
promuovere così adeguatamente gli interessi di una persona
15
.
Il terzo e il quarto capitolo prendono, viceversa, in esame gli argomenti contrari
all’eutanasia e suicidio assistito. Essi sono quelli appartenenti ad una prospettiva
kantiana del rispetto, dei filosofi morali Massimo Reichlin e David Velleman e
quelli risuonanti l’etica tomista, incarnata nel filosofo del diritto John Finnis.
Nel rifiuto delle odierne rivendicazioni neoutilitaristiche e liberali di un diritto
morale a morire si colloca Reichlin, uno dei maggiori esponenti italiani di
orientamento kantiano. Egli, appunto come interprete di Kant, recupera l’idea del
rispetto che è dovuto alla persona come fine in sé. Da ciò ricava che la dignità di
una persona non può essere annullata dalla sue esperienze, piacevoli o spiacevoli
che siano,
perché non si tratta di un valore per la persona, ma un valore che è nella
persona
16
.
Da tale assunto Reichlin deriverà l’impossibilità di una giustificazione morale per
il suicidio, a meno che non costituisca l’extrema ratio per non compromettere
radicalmente la stessa dignità personale. Invece Velleman espone il suo rifiuto
verso l’eutanasia e il suicidio medicalmente assistito su due piani: quello morale e
quello istituzionale. Egli nega un diritto morale a morire se esercitato in termini di
costi e benefici della vita; estende tale divieto anche per un riconoscimento
giuridico, in quanto legalizzando tali pratiche, perfino persone che non le avessero
richieste, le riceverebbero.
Riformulando il concetto di legge di natura, Finnis elabora una nuova dottrina del
diritto naturale e, sebbene la sua sia una riedizione squisitamente filosofica che
15
Ronald Dworkin, ll dominio della vita. Aborto, eutanasia e libertà individuale, Edizioni di Comunità, Milano, 1994,
p.294.
16
M. Reichlin, L’etica e la buona morte, Edizioni di Comunità, Torino 2002, p.191.
14
riesce a dialogare col pensiero laico contemporaneo, le conclusioni morali a cui
giunge possono essere facilmente sottese al magistero ecclesiale. Egli presuppone
l’esistenza di diversi valori fondamentali (conoscenza, vita, gioco, amicizia,
esperienza estetica, ragionevolezza pratica, religione)
17
che l’umanità condivide
universalmente, indimostrabili ed evidenti. Ognuno di essi è espresso da un
principio pratico che acquista forza morale quando applicato ad un caso concreto.
Nel caso dell’eutanasia, il valore fondamentale è la vita umana, a cui corrisponde
il principio pratico «non uccidere». Il valore della vita non può, dunque, esser
messo in discussione dall’intervento eutanasico, essendo non ragionevole non
considerarla in sè e per sè.
Alla luce di quanto esposto fino a qui si evince come sia complesso districarsi in
questo labirinto di posizioni, spesso molto lontane, ma talvolta anche intrecciate.
Ma occorre guardarsi dall’illusione che alla fine si possano trovare soluzione belle
e pronte per le questioni che ogni giorno ci poniamo sulla vita e sulla morte.
L’importante è mantenere il dialogo sempre aperto e pensare alle proprie certezze
come continuamente rivedibili alla luce dei cambiamenti che occorrono nel
tempo, ma soprattutto in virtù del fatto, oramai indiscutibile, della presenza di
posizioni diverse ma nello stesso rispettabili, anche se non condivisibili. Il
pericolo di non accettazione risiede più nelle rivendicazioni assolutiste, astratte e
dogmatiche di certi principi morali ma si deve comunque cercare di non scivolare
nell’incommensurabilità dei diversi punti di vista.
17
J. Finnis, Legge naturale e diritti naturali, Giappichelli, Torino 1996.
15
Parte prima
Due teorie della disponibilità della vita
16
Capitolo I: Singer e la qualità della vita
1.1) Il concetto di persona
Un passo fondamentale del testo classico del Giuramento di Ippocrate cita:
Non darò mai un farmaco mortale nemmeno se mi verrà chiesto né consiglierò
mai a nessuno di assumerlo;
e ancora, il sesto comandamento, tratto dal Decalogo dell’Esodo:
non ucciderai
18
.
Queste citazioni rappresentano il nucleo fondamentale dell’etica medica e
dell’etica tradizionale della vita che fino ad oggi hanno regolato la nostra
esistenza, dentro e fuori le strutture sanitarie. Peter Singer, da diversi anni, sta
scardinando tutto ciò e sta scrivendo pagine nuove dell’etica, avendo da tempo già
intravisto il collasso del paradigma tradizionale e l’avvento di una nuova
rivoluzione copernicana,
una ribellione contro un complesso di idee che noi abbiamo ereditato dall’età in
cui il mondo intellettuale era dominato da una prospettiva religiosa
19
.
Alla luce di ciò egli ripensa la vita, attraverso
un’etica che non abbia bisogno di essere sostenuta da finzioni apparenti a cui
nessuno può più credere, che sia più improntata alla compassione e più in
18
La citazione è tratta da La Bibbia, nuovissima versione dai testi originali, Esodo, Il Decalogo, versetto 13, edizioni
paoline, Cinisello Balsamo (Mi), 1993. Il diritto alla vita qui dichiarato non esclude però la guerra santa e le sue stragi e
l’omicidio per la legge della giustizia del taglione.
19
P. Singer, Ripensare la vita, La vecchia morale non serve più, Il Saggiatore, Milano 1996, p.193.
17
sintonia con ciò che le persone decidono per se stesse, che eviti di prolungare la
vita, quando farlo risulta senza dubbio inutile
20
.
Quali sono le finzioni apparenti? Singer le elenca in un brano molto forte e
significativo, facendo emergere tutta l’ipocrisia che alberga nei difensori della
dottrina tradizionale:
I suoi difensori, naturalmente, hanno reagito alle difficoltà cercando di chiudere
le falle che la loro prospettiva continuava a denunciare. Hanno ridefinito la
morte, in modo da giustificare la rimozione di cuori ancora pulsanti da corpi
caldi e respiranti, e il loro trapianto in individui con prospettive migliori, dicendo
a se stessi di non fare altro che prelevare organi da un cadavere. Hanno
introdotto la distinzione tra mezzi terapeutici “ordinari” e “straordinari”, e
questo ha consentito loro il persuadersi che la loro decisione di togliere il
respiratore a un paziente in stato di coma irreversibile non ha nulla a che fare
con la bassa qualità della sua vita. Somministrano ai malati terminali dosi
massicce di morfina che sanno avere l’effetto di accelerare la morte, ma dicono
che questa prassi non può definirsi una forma di eutanasia, in quanto la loro
intenzione dichiarata è solo quella di alleviare il dolore.
21
Dunque egli vuole rompere con questo modo tradizionale di affrontare problemi
etici, quale l’eutanasia, e si va a scontrare con le credenze morali correnti.
Vescovi e bioeticisti conservatori continuano a difendere l’etica tradizionale,
parlando, come scrive Singer,
in tono venerando di valore intrinseco di ogni vita umana, indipendentemente
dalla sua natura o dalla sua qualità
22
.
20
P. Singer, Prologo da Rethinking Life and Death in Scritti su una vita etica, Le idee che hanno messo in discussione
la nostra morale, Net (collana Quality paperback), Cles (Tn) 2004, p.188.
21
P. Singer, Ripensare la vita, La vecchia morale non serve più, Il Saggiatore, Milano 1996, p.192.
22
P. Singer, Prologo da Rethinking Life and Death in Scritti su una vita etica, Le idee che hanno messo in discussione
la nostra morale, Net (collana Quality paperback), Cles (Tn) 2004, p.187.