8
proposito delittuoso, effettivo discrimine tra la punibilità e l’irrilevanza penale.
Si intuisce allora come il tentativo, quale soglia massima di anticipazione della
rilevanza penale di un fatto, sia stato da sempre oggetto di accesi dibattiti
sull’esatta determinazione dell’inizio della sua punibilità, rappresentando in
ultima analisi l’espressione giuridica più evidente di quell’eterno conflitto tra
autorità e libertà.
Prendendo in esame l’attuale disciplina legislativa appare chiara l’indiscussa
autonomia dell’istituto rispetto alla corrispondente figura delittuosa consumata,
nonché la sua funzione estensiva della punibilità, che consente di reprimere
penalmente fatti che non pervengono alla soglia della consumazione.
L’inquadramento sistematico dell’art. 56 c.p., dimostra come il delitto tentato
trovi il suo fondamento, sia sotto il profilo strutturale che sanzionatorio, nei
principi di legalità, materialità e di offensività (art. 25, 2° comma, Cost., art. 1
c.p.), vincolando così l’interprete ad una valutazione oggettiva dei requisiti della
fattispecie, in piena coerenza con i presupposti di un moderno diritto penale del
fatto: cogitationis poenam nemo patitur, nullum crimen sine iniuria
Seguendo quest’ottica costituzionalmente orientata appare consequenziale
respingere quelle timide ma ripetute proposte di riforma che, nella ricerca di una
maggiore oggettività, auspicano de iure condendo un ritorno alla formula
liberale dell’ “inizio di esecuzione”; a contrario sembra sufficiente de iure
condito l’impegno volto a riscontrare, nei singoli casi concreti, l’effettiva
sussistenza degli elementi costitutivi del fatto tipico che, più di un secolo fa,
Francesco Carrara già poneva a fondamento della fattispecie tentata: pericolo e
volontà finalistica
2
.
A tal fine, stabilita l’importanza di una valutazione in concreto dell’idoneità
degli atti, è fondamentale chiarire come tale requisito, al di là di sterili
definizioni dottrinali e formule giurisprudenziali, sia intimamente connesso ai
2
Cfr. F. CARRARA, Programma del corso di diritto criminale, Parte generale, I, decima ediz., Firenze, 1907, p.
39-40, in cui si evince che l’illustre giurista già nel 1859 considerava elementi costitutivi del tentativo la forza
morale e la forza fisica.
9
concetti di causalità e di pericolo. Appare evidente infatti che, data la
particolare struttura della fattispecie, la potenzialità lesiva degli atti, insita nel
concetto di idoneità, andrà accertata necessariamente mediante il parametro
dell’adeguatezza causale. Questo criterio eziologico, che in quanto tale opera su
un piano esclusivamente oggettivo, ha il pregio di adattarsi perfettamente alla
struttura ed alla ratio dell’istituto, in quanto determina l’esistenza del pericolo,
ex ante ed in concreto, sulla base di ordinari giudizi di probabilità (id quod
plerumque accidit).
Queste riflessioni trovano conferma in un’attenta analisi del criterio di
accertamento del requisito in questione, individuato unanimamente in una
valutazione prognostico causale (c.d giudizio di prognosi postuma o ex ante in
concreto) sulla adeguatezza degli atti a creare un rilevante pericolo per il bene
giuridico.
È altrettanto evidente che, a garanzia del rispetto del principi di legalità,
tassatività ed offensività e conformemente alle più recenti pronunce
sull’accertamento causale
3
, risulta necessario considerare idonei (id est
offensivi), e quindi meritevoli di una pena che limiti la libertà personale del
soggetto (art. 13, 1° comma, Cost.), soltanto quegli atti che rivelino un’elevata
probabilità logica di verificazione dell’evento.
Quanto al problema della base del giudizio di idoneità, l’analisi delle
conseguenze applicative delle principali interpretazioni dogmatiche al riguardo,
aiuta a comprendere come soltanto un giudizio ex ante, condotto nell’ottica del
soggetto agente, sia pienamente funzionale all’accertamento del fatto tipico di
cui all’art. 56 c.p.
Tuttavia non va dimenticato che il delitto tentato è una figura giuridica di
straordinaria importanza anche per la presenza del requisito della direzione non
equivoca degli atti. Attraverso la previsione della componente teleologica
3
Cfr. Cass. S.U. 11 settembre 2002, in Foro it., 2002, p. 601 e ss., con nota di O. DI GIOVINE, Causalità omissiva
in campo medico chirurgico al vaglio delle Sezioni Unite, ivi, p. 608 e ss.
10
dell’art. 56 c.p., il legislatore del 1930 ha preso infatti coscienza della rilevanza
dell’azione umana, non in quanto meccanicamente (causalmente) determinata,
ma in quanto finalisticamente orientata.
L’elemento dell’univocità pertanto non ha soltanto la funzione di delimitare
ulteriormente l’ambito degli atti punibili a titolo di tentativo (fatto tipico
oggettivo), ma evidenzia anche la necessaria componente finalistica dell’azione
tentata, confermando l’impossibilità ontologica di operare una scissione tra
tatbestand oggettivo e soggettivo. La previsione dell’univocità degli atti nel
delitto tentato, riconoscendo la natura tipicamente razionale della condotta
dell’uomo, il quale consapevolmente e volontariamente dirige in senso
finalistico le proprie azioni, ha soprattutto permesso al legislatore di attuare
pienamente il dettato degli art. 27, 1° e 3° comma, Cost., nonché dell’art. 42, 1°
comma, c.p. In questo senso “la responsabilità penale è personale” vuole
signicare che, nei delitti dolosi
4
, è proprio la scelta libera e consapevole della
persona di porsi contro i valori dell’ordinamento che legittima il rimprovero di
colpevolezza: libertà e responsabilità simul stabunt, simul cadent.
In conclusione l’univocità, pur nell’ambito di un diritto penale oggettivo, deve
pertanto essere considerarta come l’espressione di quel finalismo intrinseco alla
volontà umana che orienta la condotta verso un determinato scopo: “Omne ens
intelligens agit propter finem
5
”
Facendo riferimento alla dibattuta questione dei rapporti tra l’art. 56 c.p. e la
fattispecie del reato impossibile ex art. 49, 2° comma, c.p., è opportuno rilevare
che è sufficiente un’attenta interpretazione semantica e logico-sistematica dei
diversi istituti per evidenziare la profonda autonomia che contraddistingue l’art.
49, 2° comma, c.p., confermata anche dalla differente disciplina sanzionatoria
rispetto all’ipotesi di atti inidonei ex art. 56 c.p.
4
Secondo quanto rileva anche G. MARINUCCI, Il reato come azione. Critica di un dogma, Milano, 1971, p. 200 e
ss., nel reato doloso la partecipazione della coscienza e volontà è effettiva: i presupposti dell’esistenza di
un’azione cosciente e volontaria finiscono con il rimanere assorbiti da quelli normativamente richiesti per la
configurazione del dolo; l’azione cosciente e volontaria coincide pertanto con l’azione dolosa.
5
Cfr. al riguardo S. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologica, 1882, q. 12,4.
11
Tra le varie interpretazioni astrattamente possibili sul piano dogmatico dell’art.
49, 2° comma, c.p., si tende a preferire quella maggiormente capace di
coniugare l’importanza del nullum crimen sine iniuria con l’irrinunciabile
principio di stretta legalità (art. 25, 2° comma, Cost. ed art. 1 c.p.); in questo
senso, come ha confermato anche la Corte Costituzionale
6
, la necessità di
un’interpretazione teleologica delle norme in chiave di offesa riceve un valido
supporto normativo proprio dalla presenza dell’art. 49, 2° comma, c.p., che
svolge la sua autonoma funzione di limite della punibilità in tutti quei casi in
cui, per l’assoluta inidoneità dell’azione o per l’originaria mancanza
dell’oggetto, sia del tutto impossibile la configurabilità del pericolo.
6
Corte Cost., 19 marzo 1986, in Cass. pen., 1986, p. 1053.
12
CAPITOLO PRIMO
Origine, sviluppo storico ed inquadramento sistematico
§ 1.1. Origine ed evoluzione storica del tentativo: dal diritto romano alle prime codificazioni.
§ 1.2. Il passaggio dai mezzi idonei del Codice Zanardelli agli atti idonei del Codice Rocco:
formulazione attuale dell’art. 56 c.p. – 1.2.1. Le ragioni dell’incompatibilità tra delitto tentato
e contravvenzioni. – 1.2.2. L’attuale funzione dell’istituto. L’art. 56 c.p. come fattispecie
autonoma di reato: problematiche connesse. – § 1.3. Il tentativo come modello di
anticipazione della tutela penale e banco di prova delle diverse concezioni del reato: teorie
soggettive ed oggettive a confronto. – 1.3.1. Il fondamento della punibilità del tentativo:
espressione di un diritto penale del fatto ed attuazione del principio di offensività.
§1.1. Origine ed evoluzione storica del tentativo: dal diritto
romano alle prime codificazioni.
L’attività intrapresa da un soggetto, con lo scopo di commettere un delitto,
spesso non raggiunge, per motivi estranei alla volontà dell’agente, il risultato cui
era finalizzata.
Si comprende agevolmente come una tale realtà umana, oggi legislativamente
prevista e disciplinata nell’art. 56 del codice penale con il nome di delitto
tentato, prima ancora di costituire un istituto giuridico e una relativa fattispecie
astratta, abbia in primis rappresentato una situazione di vita, un dato di comune
esperienza, come tale presente in rerum natura e quindi proprio di ogni epoca,
antica e moderna
7
.
Accolto questo elementare assunto, nell’accingersi ad operare una ricostruzione
storica del tentativo si deve premettere però che non si può pretendere di
ritrovare nel passato l’istituto come è attualmente ricostruito, né è possibile
7
Cfr. R. LAMBERTINI, voce Tentativo (diritto romano), in Enc. del diritto, vol. XLIV, Milano, 1992, p. 93.
13
applicare meccanicamente i principi sviluppati dalla recente dogmatica ad
epoche assai remote nel tempo.
In effetti la nozione e la repressione del tentativo sono il risultato di uno
svolgimento storico e giuridico piuttosto lungo, graduale e complesso, una
conquista di civiltà pregna di difficoltà e di problematiche ancora attuali; a tal
proposito basterebbe citare la notissima epigrafe di Luigi Cremani: “Perdifficilis
et perobscura est quaestio de conatu delinquendi”
8
o l’affermazione ricorrente e
significativa che “forse nessun istituto del diritto penale è così gravido di
problemi come il tentativo”
9
.
Naturalmente questa riflessione non indica che si è in presenza di un istituto del
tutto sfornito di un sicuro fondamento storico-dogmatico, poiché ripetutamente,
nel corso della storia, si sono presentati esempi di azioni delittuose riconducibili
al tentativo e pertanto spesso si è avvertita l’esigenza di una sua previsione
normativa.
È altamente probabile che il diritto romano dell’età più antica non abbia
conosciuto l’istituto del tentativo
10
; il sistema penale romano, almeno fino all’età
classica, si ispirava infatti ad una assoluta oggettività: la punibilità si
configurava quindi solamente in presenza di una effettiva lesione del bene
giuridico protetto dalla norma incriminatrice. Da ciò si comprende facilmente
8
Cfr., R. MARTUCCI, voce Tentativo (diritto intermedio,) in Enc. del diritto,op.cit., p. 99, ed ivi v. nota n. 3, il
quale rinvia a L. CREMANI, De iure criminali libri tres, Mediolani, 1791, lb. I, cap. V,§ 1, p. 77.
9
Così A. SANTORO, voce Tentativo (diritto penale ), in Noviss. Dig. it.,vol. XVIII, Utet, 1971, p. 1133.
10
Come esattamente emerge da un recente ed esaustivo lavoro storiografico sulle origini del tentativo, “la
lapidaria affermazione mommseniana, secondo cui il diritto romano non ha per il tentativo né nozione, né
termine tecnico, costituisce nelle ricerche dedicate all’argomento in questione, una premessa ricorrente”. Così
afferma M. U. SPERANDIO, Dolus pro facto. Alle radici del problema giuridico del tentativo., Jovene, Napoli,
1998, p. 1-2., ed ivi v. nota n. 2, il quale rimanda a T. MOMMSEN, Romisches Strafrecht, Leipzing,1899 (rist.
Aalen, 1990), p. 95. In particolare, rileva lo Sperandio (Cfr., M. U. SPERANDIO, op.ult.cit.,p. 2 e ss.) che dopo
la pubblicazione del Romisches Strafrecht ad opera del Mommsen, l’impiego del termine “tentativo”
(“Versuch”) è stato dai romanisti fortemente ridotto, ed anche nella fondamentale opera del Ferrini, una
trattazione generale del tentativo addirittura manca (Cfr., C. FERRINI, Diritto penale romano. Esposizione
storica e dottrinale. Estratto dall’enciclopedia del diritto penale italiano. Raccolta di monografie a cura di E.
Pessina,vol. I, Milano, 1905, (rist. Roma ,1976), p. 92 e ss).
14
come il problema della penale rilevanza del delitto tentato, non si fosse posto
affatto
11
.
Rilevando unicamente la lesione effettiva del bene tutelato, ed essendo indistinte
le nozioni di offesa e di danno, la sanzione era infatti subordinata al solo evento
dannoso, ai soli delitti perfetti: condizione necessaria e sufficiente per escludere
in toto la possibile rilevanza del tentativo, che vede il suo necessario prius,
logico e funzionale, nella presenza di un evento pericoloso
12
.
In passato erano sorti dubbi circa l’interpretazione di alcune leggi dell’età del
principato come la Lex Cornelia de sicariis et veneficiis dell’81 a. C. e la Lex
Pompeia de parricidiis del 55 a. C.
13
; ora si riconosce, pressoché unanimemente,
come anche queste disposizioni non punissero specifici tentativi, ma crimini
formalmente perfetti, singole condotte autonome contrarie alla sicurezza ed alla
tranquillità pubblica, come l’ambulare cum telo od il venenum facere, vendere,
emere
14
.
11
Del resto è noto che i giuristi romani non sono mai giunti a concezioni astratte nel diritto penale; tali
concezioni, sono piuttosto il frutto delle costruzioni di qualche studioso del secolo scorso che ha tentato di
elaborarle sulla base della sistematica del diritto penale vigente. Cfr. in tal senso U. BRASIELLO, voce
Tentativo (diritto romano), in Noviss. Digesto italiano, Vol. XVIII, Utet, 1971, p. 1130; C. FERRINI, Diritto
penale romano. Teorie generali, Milano, 1898, p. 7. Non sorprende affatto quindi che essi non abbiano
formulato direttamente delle teorie generali; si tratta piuttosto di vedere se, dall’analisi di una serie di soluzioni
relative a casi particolari, possa essere enucleato quello che è stato definito il “ pensiero latente” dei giuristi
romani (Cfr., C. FERRINI, Il tentativo nelle leggi e nella giurisprudenza romana,in Ateneo veneto, gennaio-
febbraio, 1884 ora C. FERRINI, Opere, V, Milano, 1930, p. 73 e ss. ; U. BRASIELLO, voce Tentativo (dir.
romano),op.cit., p. 1130.), ovvero il pensiero base, il criterio in forza del quale essi concretamente operavano,
pur senza alcuna esplicita concettualizzazione.
12
Cfr. L. SCARANO, Origine e sviluppo storico della nozione di tentativo,in Archivio penale,Vol. II, p.te I,
1946, p. 443 e ss.,il quale rileva come l’esposizione a pericolo del bene tutelato, la lesione potenziale di esso,
nella cui punizione risiede l’attuale ratio dell’ istituto, è cosa diversa dalla lesione effettiva dello stesso, cui
corrisponde il concetto di consumazione. Tale importante distinzione dogmatico concettuale, che trova il suo
primo fondamento in rerum natura, quale dato ontologico, immanente alla vita dell’uomo, non è stata ancora
recepita nelle norme del diritto romano, non si è ancora trasformata in concetto giuridico,di essa in sostanza non
si è presa ancora coscienza. Di conseguenza anche la pena sarà rivolta a vendicare (talio) o risarcire (compositio)
il danno nella sua materialità, ma sempre con riguardo ad un delitto perfetto (l’iniuria), non all’intenzione
omicida che aveva mosso l’agente e che non ha avuto esito. Nessuna sanzione si applicava qualora un danno
effettivo non si fosse verificato. V. in tal proposito XII tab., 8 , 2: “Si membrum rupsit, ni cum eo pacit. talio
esto”, (in cui la talio è prevista in alternativa ed in mancanza della compositio) e della compositio , come emerge
in XII tab. 8. 3: “Manu fustive si os fregit libero,CCC, si servo, CL poenam subit sestertiorum”.
13
La Lex Cornelia ,Cfr. Pauli sent. 5, 23, 1 (= Coll.1 , 2, 1; 8, 4, 2), sottopone alla medesima pena dell’hominem
occidere l’ambulare cum telo hominis occidendi furtive faciendi causa ed il venenum facere, vendere, emere,
habere , dare. La Lex Pompeia de parricidiis, Cfr. D. 48, 9, 1 i.f. (Marcian. 14 inst.), reprime oltre l’uccisione del
congiunto, il venenum emere al fine di provocarne la morte.
14
Cfr. in tal senso L. SCARANO, Origine e sviluppo storico della nozione di tentativo, op. cit., p. 445; U.
BRASIELLO, voce Tentativo (dir. romano),op.cit., p. 1132-1133; C. FERRINI, Dir. pen. romano. Esposizione,
op.cit., p. 97; R. LAMBERTINI, voce Tentativo (dir.romano),op.cit., p. 95, i quali notano inoltre come queste
15
In conclusione pertanto si può affermare che prima dell’età del Dominato non si
sia conosciuto né l’istituto del delitto tentato, né i tentativi di singoli delitti
15
.
È dall’età adrianea che parte della dottrina ha colto le prime timide
testimonianze sulla punibilità del tentativo in quanto tale; si sosteneva che il
tentato omicidio venisse represso indipendentemente dai mezzi che lo
caratterizzavano, e quindi che fosse svincolato dalla fattispecie prevista dalla
lex Cornelia
16
. È stato evidenziato anche come in questo periodo iniziasse ad
essere preso in maggiore considerazione il processo volitivo del soggetto
all’interno di fattispecie delittuose non giunte a consumazione, anche per
l’influenza del cristianesimo e dello stoicismo, inclini a valorizzare i moventi
interni dell’azione umana
17
.
disposizioni furono introdotte in periodi di particolari turbamenti politici e sociali, per cui l’anticipazione della
punibilità rispondeva ad esigenze di prevenzione generale volte alla realizzazione di atti pericolosi per la
sicurezza e la tranquillità pubblica. In generale v. anche MARINI, LA MONICA, MAZZA, in Commentario al
codice penale,Utet, Torino, 2002, p. 464, i quali ammoniscono sul pericolo di imbattersi in interpretazioni non
corrette di formule legislative, proposizioni giurisprudenziali od anche di proposizioni tratte da fonti letterarie,
che potrebbero indurre nell’errore di ritenere esistenti specifici tentativi di delitti. Tra le leggi ricordano in
particolare anche D. 48, 8, 7 (Paul. l.s. de publ. iud.): “ In lege Cornelia dolus pro facto accipitur”; tra le fonti
letterarie, Cic. Mil. 7, 19: “Nisi vero, quia perfecta res non est, non fuit punienda; proinde quasi exitus
rerum,non hominum consilia legibus vindicentur”.
15
Di opinione contraria sono A. CAVANNA, Il problema delle origini del tentativo nella storia del diritto
italiano, in Università degli studi di Genova. Annali della Facoltà di Giurisprudenza, Milano, 1970, p. 2 e ss., e
G. LONGO, Il tentativo nel diritto penale romano, in Università degli studi di Genova. Annali della facoltà di
Giurisprudenza, 1977, p. 7, il quale sostiene che già la lex Cornelia avrebbe punito il tentativo come tale.
16
Cfr. in tal senso, fra gli altri, L. SCARANO, Origine e sviluppo storico della nozione di tentativo, op. cit., p.
445, osserva che: “la lex Cornelia de sicariis inconsapevolmente dà l’avvio all’incriminabilità degli atti
iniziati,ma non condotti a compimento”. Per l’Autore l’oggetto , il contenuto della lex Cornelia, si ampliano
sensibilmente: “ non viene più punito colui che homines occidendi furtive faciendi causa cum telo ambulaverit, e
chi venenum necandi hominis causa fecerit vel vendiderit vel habuerit, ma altresì colui che vulneravit ut
occidat”. Eloquente in merito anche Pauli Receptae Sententiae ( 5. 23. 3): “ Qui cum vellet uccidere,id casu
aliquo perpetrare non potuti,ut omicida punitur”, insieme alla relativa interpretazione di tale passo da parte di
Adriano: “Qui hominem non occidit,sed vulneravit ut occcidat, pro homicida damnandum”; R. LAMBERTINI,
voce Tentativo (dir.romano),op.cit., p. 95, sostiene che passata l’emergenza che produsse la norma speciale di
Silla, rimase un generico divieto di ambulare cum telo: il reato sorto come autonomo, si incanala ora, sul piano
teorico, verso l’hominem occidere ( legge sull’omicidio comune) e si rende funzionale a costruirne il tentativo;
C. FERRINI, Diritto penale romano, op. cit. p. 254; ID. Il tentativo, op. cit., p. 70. In generale tali autori
sostengono che sia sintomatico come in questi casi i giuristi dell ‘età di Giustiniano riconducano fattispecie
tentate sotto il titolo Ad legem Corneliam de sicariis, così reinterpretando il contenuto normativo di questa antica
legge: non si puniscono solamente le due fattispecie previste dalla legge (ambulare cum telo o il venenum
emere), ma tutti coloro che, pur non realizzando l’evento voluto, turbano con i loro atti la tranquillità pubblica.
17
Cfr. BIONDI, Il diritto romano cristiano, Vol. II, Milano, 1952, p. 308 e ss.; L. SCARANO, Origine, op. ult.
cit., p. 446, : “dalla rivelazione del cristianesimo sorge continuamente l’esigenza di guardare dentro le azioni
dell’uomo: non al fatto , ma alla bontà dell’intenzione…il problema penale viene ad essere capovolto: non è più
il fatto ma l’intenzione il criterio di misura per la graduazione delle responsabilità e della punibilità”.L’autore
rimanda a D. 48, 8, 14 (Call. 6 de cogn.): “Divus Hadrianus in haec verba rescripsit: in maleficiis voluntas
spectatur, non exitus”.