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piccoli: da un cosmo intero ci è rimasto, forse, solo il nostro corpo e, in certi casi, anche l’ego ci
sfugge.
Incipit tragoedia il De Revolutionibus1 (1543) di Copernico (1473-1543), che caccia la terra dal
centro, e il De l’infinito universo et mondi2 (1584) di Giordano Bruno (1548-1600), che annuncia lo
sfondamento della sfera delle stelle fisse e l’esplosione del cosmo ipergerarchizzato della tradi-
zione aristotelico-tolemaica3. A seguire, superata la barriera del visibile, l’uomo può rivolgere
lo sguardo su «cose mai viste»4: da una parte il cannocchiale5 e il microscopio guadagnano
spazi sui panorami dell’estremamente grande e dell’estremamente piccolo; dall’altra lo studio
della natura della luce suggerisce che, in continuità qualitativa con i fenomeni luminosi tradi-
zionalmente intesi, ce ne sono altri che sottostanno alle stesse regole e sono descrivibili con gli
stessi modelli. Infatti, un’onda radio, sulla quale viaggia il segnale della nostra canzone preferi-
ta, non differisce affatto da un raggio di sole ed entrambi possono essere definiti da lunghezza
d’onda ed energia, la sola differenza sta nel fatto che per la luce siamo naturalmente attrezzati,
mentre per le onde radio abbiamo bisogno di strumenti artificiali appositamente congegnati.
Quanto fin qui accennato potrebbe bastare per dare il via ad un approfondimento storico
sulle teorie della luce e della visione, da quelle antiche alle più recenti, passando per la scoperta
delle onde elettromagnetiche e delle loro applicazioni. Eppure, c’è un altro passo da compiere.
Siamo ancora al momento in cui il compositore canticchia una breve melodia, poi un’intera
frase musicale... ma è la costruzione dell’armonia che farà del motivetto un’opera apprezzabile.
Il salto auspicabile, tornando a noi, è dallo studio di un fenomeno all’analisi di un concetto
verso il quale convergano più aspetti della realtà; e diventa necessario quando è chiaro che
quanto c’è di interessante e problematico nella luce si ritrova trasversalmente anche nel suono
e in tutti gli oggetti di cui abbiamo sensazione. Cosa sono luce, suono, gusto, odore e sensazioni
tattili? Sono qualità della materia che ci raggiungono immediatamente, al più attraversando
un mezzo, ma sostanzialmente immutate, come vuole Aristotele (384-322 a.C.) e l’aristotelismo
residuo del senso comune, o sono semplicemente «puri nomi» o «idee», come hanno sospettato
alcuni grandi pensatori della filosofia moderna?
Una prima risposta è rintracciabile nel ruolo che la distinzione tra qualità primarie e se-
condarie ha avuto nell’opera di alcuni eminenti pensatori; le posizioni della ricerca scientifi-
ca, a partire già dalla fisiologia ottocentesca fino ai risultati più recenti della neurofisiologia
sensoriale, confermano e oltrepassano alcune intuizioni della filosofia.
1COPERNICO, De revolutionibus orbium coelestium, in Opere, Utet 1979.
2GIORDANO BRUNO, De l’infinito universo et mondi, in Opere, Utet 1979.
3Cfr. ALEXANDRE KOYRÉ, Dal cosmo chiuso all’universo infinito, Einaudi, 1992.
4Cfr. PAOLO ROSSI, La nascita della scienza moderna in Europa, Cap. 4, Cose mai viste, Laterza 2000.
5La costruzione di un manufatto costituito da lenti capace di “avvicinare” oggetti distanti è precedente, ma è
di Galilei l’onore di averlo reso strumento, rivolgendolo al cielo per l’osservazione astronomica. Vedi GALILEO
GALILEI, Sidereus Nuncius, Utet, Torino 2005.
Capitolo 1
Una separazione annunciata
Le dimostrazioni con le quali Copernico costruì il sistema eliocentrico negavano l’evidenza
di un fenomeno di proporzioni celesti sotto gli occhi di tutti. Nonostante un diffuso senso di
diffidenza verso una così audace “ipotesi”1, Galileo riuscì a vedere oltre e, «con la certezza che
è data dall’esperienza sensibile»2, apportò prove contro il sistema aristotelico-tolemaico. Allo
stesso tempo, le sue osservazioni tramutarono una presunta fallacia del copernicanesimo in un
suo punto di forza: la parallasse3 non percepita tra duemisurazioni della stessa stella, effettuate
in diversi momenti dell’anno, era conseguenza di un cosmo più profondo, in cui le stelle erano
più distanti di quanto prima si credesse.
Lo studio dei corpi celesti più grandi, poi, fu occasione di scoperte ancor più sconvolgenti.
La luna, primo globo etereo nella scala planetaria che portava alla sfera delle stelle fisse – sfera
ormai definitivamente incrinata, quasi infranta –, mostrava una superficie fortemente irregola-
re: vaste depressioni e rilievi aspri coincidevano con le valli e con le montagne terrestri, tanto
da implicare «la parentela e la somiglianza tra la Luna e la Terra»4. Fu più facile per i con-
temporanei di Galilei sostenere che le immagini del cannocchiale fossero aberrazioni o effetti
ottici che dubitare per un solo istante della perfetta sfericità e dell’incorruttibilità della luna,
decretate dalla filosofia aristotelica per i corpi celesti.
Quando il Sole mostrò il proprio volto più da vicino, i primi osservatori italiani riuscirono
a distinguerne, al centro, gli occhi e il naso. Mentre lì si attendeva anche qualche benevolo
sorriso, Galilei catturava la vera immagine dell’astro in una camera oscura e la proiettava su
un foglio posto a distanza opportuna dalla lente concava del telescopio. Questo metodo gli
consentì di seguire l’evoluzione della superficie solare e di notare zone più scure viaggiare con
moto parallelo alla latitudine e con velocità decrescente a partire dall’equatore. Le macchie, che
scomparivano e riapparivano mutate d’aspetto con periodi di poco più di 14 giorni5, sancivano
l’estensione del regno del mutamento dalla sola Terra al Sole e a tutto l’universo.
1La prefazione al De revolutionibus, nella quale il lavoro di Copernico è presentato come ipotesi matematica e
non come spiegazione fisica, è stata aggiunta all’insaputa dell’autore, malato e moribondo, dal teologo Andreas
Osiander (1498-1552).
2GALILEO GALILEI, Sidereus Nuncius, Utet, Torino 2005, pag. 277.
3Cfr. BERNARD COHEN, La nascita di una nuova fisica, Il Saggiatore, Milano 1974, pagg. 64-70 e THOMAS S.
KUHN, La rivoluzione copernicana. L’astronomia planetaria nello sviluppo del pensiero occidentale, Einaudi, Torino 2000,
pagg. 199-211.
4GALILEO GALILEI, Sidereus Nuncius, Op. cit., pag. 290.
5Cfr. GALILEI, GALILEO, Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti, in Opere, Vol.1, Utet, Torino
2005.
2L’opera di Galilei annunciò profondi cambiamenti dai quali la tradizione si difese comeme-
glio poteva: quando l’inquisizione riuscì a confinarlo nella sua casa di Arcetri, però, i “danni”
maggiori erano già stati fatti. Con la forza delle «sensate esperienze» Galilei contribuì a di-
struggere il sistema geoantropocentrico e le sfere cristalline, nonché le distinzioni ontologiche
e fisiche tra cieli e mondo sublunare; inoltre, nelle opere di meccanica, sostituì alla dottrina dei
luoghi di matrice aristotelica il concetto di inerzia e di moto uniformemente accelerato. Non si
trattò certo di accanimento personale o vano spirito di contestazione, ma di necessità: gli as-
sunti fisici e cosmologici della tradizione aristotelica, mediati dalla Scolastica con i dogmi della
rivelazione cristiana, non reggevano alle verifiche effettuate con i nuovi strumenti della ragio-
ne; Galilei, di conseguenza, non potè far a meno di riformularne alcuni, correndo il rischio di
far cadere schemi concettuali dalle implicazioni vastissime, ben aldilà dell’astronomia e della
meccanica. Il sapere pre-moderno era chiuso, gerarchizzato ed estremamente sistematico: cede-
re su un solo punto avrebbe significato indebolire la credibilità del tutto; ecco perché la risposta
dell’istituzione più influente dell’epoca, la chiesa, già preoccupata dalla Riforma protestante,
fu così intransigente. D’altra parte, come abbiamo visto, non si può dire che Galilei, prima di
sferrare l’attacco finale, avesse risparmiato i colpi.
Nel §48 de Il Saggiatore (1623) Galilei conclude così le sue considerazioni circa la proposi-
zione “Il moto è causa di calore”:
«Io non vorrei, Illustrissimo signore6, inavvertitamente ingolfarmi in un oceano infinito,
onde io non potessi poi ridurmi in porto; nè vorrei mentre procuro di rimuovere una dubi-
tazione, dar causa al nascerne cento, sì come temo che anche in parte possa essere occorso
per questo poco che mi sono scostato da riva: però voglio riserbarmi ad altra occasion più
opportuna.»7
La prudenza di Galilei suggerisce che nel brano possa esserci qualcosa di più di un’opinione
circa il moto ed il calore, un punto di non ritorno che, anche soltanto sfiorato, comporterebbe
molte questioni e, insieme, l’impossibilità di ignorarle. Cerchiamo di capire cosa emerge dal
testo, coinvolgendo direttamente la parola dell’autore in un dialogo, forma letteraria alla quale
il Nostro ha più volte fatto ricorso. Il Saggiatore, in realtà, ha già un interlocutore – o meglio, un
bersaglio polemico – il padre gesuita Orazio Grassi, autore, sotto lo pseudonimo di Lotario Sarsi
Sigensano, della Libra astronomica e filosofica, al quale qui Galilei risponde punto per punto con
«bilancia esquisita e giusta»; ciò non toglie che una conversazione ideale con un contemporaneo
attento e ben disposto ad accompagnare Galileo nei suoi esperimenti mentali – quale potrebbe
essere il linceo Virginio Cesarini, al quale l’opera è dedicata –, possa aiutare ad inquadrare il
brano con la giusta luce.
“Il moto è causa di calore?”
G: Si, purchè s’intenda il moto appartenente ai più piccoli componenti della materia e il
calore appartenente esclusivamente al senziente.
Ma come Signor Galilei, un corpo che noi sentiamo caldo non è caldo?
G: «Molte affezioni, che sono reputate qualità risedenti ne’ soggetti esterni, non ànno vera-
mente altra esistenza che in noi, e fuor di noi non sono altro che nomi».
6Galilei si sta rivolgendo all’Accademico Linceo Virginio Cesarini catalizzatore della filosofia nuova nel difficile
ambiente della cultura romana.
7GALILEI, GALILEO, Il Saggiatore, in Opere, Vol.1, Utet, Torino 2005, pag. 283.
3Cos’è dunque il calore?
G: «Inclino assai a credere [. . .] che quelle materie che in noi producono e fanno sentire il
caldo, le quali noi chiamiamo con nome generale fuoco, siano una moltitudine di corpicelli
minimi, in tal e tal modo figurati, mossi con tanta e tanta velocità; li quali, incontrando il
nostro corpo, lo penetrino con la lor somma sottilità, e che il lor toccamento, fatto nel lor
passaggio per la nostra sostanza e sentito da noi, sia l’affezione che noi chiamiamo caldo».
Il fuoco non sarà caldo, ma lei non può negare che a volte bruci.
G: Il caldo sarà «grato o molesto secondo la moltitudine e velocità minore o maggiore d’es-
si minuti che ci vanno pungendo e penetrando, sì che grata sia quella penetrazione per la
quale si agevola la nostra necessaria insensibil traspirazione, molesta quella per la quale si
fa troppo gran divisione e risoluzione della nostra sostanza: sì che in somma l’operazion
del fuoco per parte sua non sia altro che, movendosi, penetrare colla sua massima sottilità
tutti i corpi, dissolvendogli più presto o più tardi secondo la moltitudine e velocità degli
ignicoli e la densità o rarità della materia d’essi corpi; de’ quali corpi molti ve ne sono de’
quali, nel lor disfacimento, la maggior parte trapassa in altri minimi ignei, e va seguitando
la risoluzione fin che incontra materie risolubili.»
Il fuoco non è altro che movimento velocissimo di materia sottile capace di trasferirsi, più o meno
prontamente, alla materia circostante, a seconda che sia più o meno atta a mettersi in movimento;
il caldo che noi percepiamo, invece, è la risposta del nostro corpo a quel moto, il quale, a seconda
della sua velocità, provoca una sensazione piacevole o dolorosa che – adesso pare ovvio – non può
appartenere al fuoco.
G: «Ora, di simile e non maggiore esistenza credo io che possano esser molte qualità che
vengono attribuite ai corpi naturali, come sapori, odori, colori ed altre.»
Signor Galilei, non vorrà anche toglierci la terra sotto i piedi?
G: Non arriverò a tanto, la mia critica si rivolge ad altro, poichè «ben sento tirarmi dalla
necessità, subito che concepisco una materia o sostanza corporea, a concepire insieme ch’el-
la è terminata e figurata di questa o di quella figura, ch’ella in relazione ad altre è grande
o piccola, ch’ella è in questo o quel luogo, in questo o quel tempo, ch’ella si muove o sta
ferma, ch’ella tocca o non tocca un altro corpo, ch’ella è una, poche o molte, né per veruna
imaginazione posso separarla da queste condizioni; ma ch’ella debba essere bianca o rossa,
amara o dolce, sonora o muta, di grato o ingrato odore, non sento farmi forza alla mente di
doverla apprendere di tali condizioni accompagnata».
Vuol dire che quanto sostenuto circa la differenza sostanziale tra il fuoco e il caldo è generalizzabile a
tutte le altre sensazioni?
G: Di fatto è così, «tanto che vo io pensando che questi sapori, odori, colori, etc., per la par-
te del suggetto nel quale ci par che riseggano, non sieno altro che puri nomi, ma tengano
solamente la lor residenza nel corpo sensitivo, sì che rimosso l’animale, sieno levate ed an-
nichilate tutte queste qualità».
Questa testimonianza, estrapolata dal nucleo del §48 de Il Saggiatore, spiega le parole con
cui Galilei conclude il brano: ciò che pareva una dimostrazione di prudenza e la manifestazio-
ne di un certo timore nell’attraversare confini stabiliti, tradivano in realtà la consapevolezza
di aver già superato il porto sicuro, e di aver già delineato, di fatto, la rotta delle spedizioni
seguenti. Dalle parole di Galilei, e con la massima evidenza come conseguenza della rivoluzio-
ne copernicana, stava emergendo la consapevolezza di quanto la realtà comunicata dai sensi
fosse un’immagine inaffidabile, dalla quale il più delle volte non è possibile ricavare informa-
zioni veraci sulla materia e sulle regolarità fisiche che sono a fondamento dei fenomeni naturali.
4Non poteva esserci opinione più distruttiva per la gnoseologia di quel tempo, per la qua-
le l’appartenenza delle qualità sensibili agli oggetti era una certezza, costruita su una solida e
secolare tradizione interpretativa dei testi aristotelici. «Nello studio di ciascun senso bisogna
trattare prima dei sensibili»8, asseriva Aristotele nel De Anima rivelando, oltre ad un ordine
logico più o meno condivisibile, un’impostazione del problema che sottolinea un rapporto di
complementarità naturale e quindi terminologica tra ciò che è in grado di sentire e ciò che può
essere sentito. Senso e sensibili esistono l’uno per l’altro: due elementi isolatamente soltanto
possibili, che all’incontro si realizzano come sensazione in atto.9 Secondo Aristotele non è sol-
tanto questa coappartenenza reciproca a sussistere, ogni senso è giudice assoluto circa il suo
sensibile proprio.
«Chiamo sensibile proprio quello che non è possibile sia sentito con altro senso e intorno
al quale non è possibile ingannarsi, ad esempio per la vista il colore, per l’udito il suono, per
il gusto il sapore: il tatto, invece, ha per oggetto più qualità differenti. Comunque, ciascun
senso giudica, per lo meno, i propri oggetti, e non s’inganna sul fatto di un colore o di un
suono, ma sulla natura o sul luogo dello oggetto colorato oppure sulla natura o sul luogo
dell’oggetto sonoro. Siffatti sensibili si dicono propri di ciascun senso: comuni, invece, il
movimento, la quiete, il numero, la figura, la grandezza perché sensibili di tal genere non
sono propri di alcun senso, ma comuni a tutti.»10
La capacità del senso di discriminare senza rischio di errore circa il suo sensibile proprio
dipende dallo statuto della facoltà sensitiva «che è in potenza ciò che il sensibile è già in en-
telechia, come s’è detto: essa patisce in quanto non è simile, e quando ha patito, si fa simile
al sensibile ed è come quello.»11 Il senso è in potenza tutte le sensazioni possibili: quando si
presenta un sensibile particolare il senso si adegua al sensibile e insieme realizzano la sensazio-
ne in atto. La facoltà sensitiva è una facoltà dell’anima ed è ovviamente escluso che in essa si
formi il sensibile come cosa: «è necessario che ci siano o le cose o le forme: ma non sono le cose,
perchè non c’è pietra nell’anima, bensì la forma della pietra»12. Sempre secondo Aristotele, il
senso è la prima facoltà dell’anima coinvolta nel processo di estrazione-astrazione delle forme
dai composti di forma e materia (sostanze):
«bisogna ritenere che il senso è fatto per accogliere le forme sensibili senza la materia,
come la cera accoglie l’impronta dell’anello senza il ferro o l’oro, e riceve l’impronta d’oro
o di bronzo, ma non in quanto è oro o bronzo: ugualmente ogni senso subisce l’azione di
ciò che ha colore o sapore o suono, ma non in quanto ciascuno di questi oggetti è detto una
cosa particolare, ma in quanto è fornito di una determinata qualità e secondo la forma.»
8ARISTOTELE, Dell’anima, Opere IV, Laterza 2004, pag. 144.
9«Perchè dei sensi stessi non si dà sensazione? e cioè perché senza gli oggetti esterni essi non producono sen-
sazione, pur contenendo fuoco, terra e gli altri elementi che sono oggetto di sensazione per se stessi o per i loro
accidenti? Evidentemente perchè la facoltà sensitiva non è in atto, ma in potenza soltanto: perciò non sente, proprio
come il combustibile non si brucia se esso stesso da sé senza il comburente – altrimenti brucerebbe se stesso e non
ci sarebbe punto bisogno del fuoco in atto. E poiché il sentire lo prendiamo in duplice significato (e infatti chi è
in potenza ad ascoltare e a vedere diciamo che ascolta e vede, anche se per caso dorma, e lo stesso diciamo di chi
già ascolta e vede in atto), in duplice significato si prenderà la sensazione: c’è una sensazione in potenza e una
sensazione in atto. Lo stesso è per il sentire: c’è un sentire un potenza e un sentire in atto.» Ibid., 141.
10
Ibid., pag. 144.
11
Ibid., pag. 143.
12
Ibid., pag. 181.
5Forme sensibili innanzitutto, ma poichè nulla esiste se non accompagnato da qualità sensi-
bili, in esse devono trovarsi anche le proprietà intelligibili delle sostanze.
«Ora poichè nessuna cosa, come sembra, esiste separata dalle grandezze sensibili, è nel-
le forme sensibili che esistono gli intelligibili e quelli che si dicono per astrazione e quanti
sono qualità e proprietà dei sensibili. Per questo chi non avesse sensazione alcuna, non ap-
prenderebbe né comprenderebbe niente, e quando l’uomo pensa una cosa, di necessità pen-
sa insieme qualche immagine, perchè le immagini sono come sensazioni, solo che mancano
di materia.»13
Perciò l’intelletto non avrebbe oggetti ad esso propri e non ci sarebbe alcuna scienza se
non ci fossero nell’anima le forme sensibili estratte dai sensi; allo stesso modo non potrebbe
esserci alcuna conoscenza certa qualora la sensazione si rivelasse in qualche modo inaffidabile:
insieme con essa anche l’intelletto sarebbe destinato all’errore.
I brani sono centrali sia nella filosofia più genuina dell’autore, sia nell’aristotelica gnoseolo-
gia medievale: è qui che s’innesta infatti la dottrina delle species. Secondo questa teoria la species
sensibilis garantisce il trasferimento senza alterazioni della forma dell’oggetto esterno fino agli
organi di senso; i dati di ciascun senso convergono nel senso comune, che grazie alla facoltà
immaginativa crea un phantasma, un’immagine rappresentativa dell’oggetto esterno; l’intellet-
to, residente nella parte più profonda e nobile dell’anima, può quindi afferrare nel phantasma la
species intelligibilis, la caratteristica dell’oggetto astratta dalla sua individualità. In questa fase,
l’intelletto, riconoscendo nei casi particolari l’appartenenza a quella o all’altra classe di enti,
può definitivamente dichiarare l’essenza dell’oggetto. La species intentionalis, invece, piuttosto
che una forma, un’immagine o un’idea, è una modalità di relazione tra la mente e il mondo
esterno: essa garantisce il riferimento continuo e diretto di ogni fase del processo cognitivo con
la realtà esterna e la somiglianza costante fra gli oggetti dei sensi e gli oggetti della mente. É
corretto sostenere che, secondo questa dottrina, l’uomo conosce il mondo attraverso delle copie
sensibili e intelligibili di esso, introdottesi nell’anima attraverso i sensi.
Il successo delle teoria fu determinato in gran parte dal potente orizzonte semantico e sim-
bolico nel quale sin dalle origini si definì: Species sensibilis come immagine - forma (morphe)
dell’oggetto; intelletto agente come lux, fonte di luce, centro di emanazione, condizione di ogni
visione e intellezione, rivelatore della species intelligibilis (eidos) nel phantasma. La teoria della co-
noscenza aristotelico-scolastica dipendeva così tanto dalla concezione della visione e della luce
che, messa alla prova sul terreno degli altri processi sensoriali, perse immediatamente credi-
bilità come spiegazione gnoseologica complessiva. Quelli che erano stati punti di forza, primo
fra tutti la somiglianza tra le sensazioni e le loro cause oggettive, sotto le analisi della nuova
generazione di pensatori, mostrarono presto la loro fragilità.
Thomas Hobbes non nascose, tra le prime pagine del Leviathan (1651), il suo imbarazzo nel
tentativo di rendere nella sua lingua il nucleo della dottrina delle species:
«The Philosophy-schooles, through all the Universities of Christendome, grounded upon
certain Texts of Aristotle, teach another doctrine; and say, for the cause of Vision, that the
thing seen, sendeth forth on every side a Visible species (in English) a visible shew, apparition,
13
Ibid., pag. 181-182.
6or aspect, or a being seen; the receiving whereof into the Eye is Seeing. And for the cause of
Hearing, that the thing heard sendeth forth an Audible species, that is, an Audible aspect, or
Audible being seen; which, entring at the Eare, maketh Hearing. Nay, for the cause of Under-
standing also, they say the thing Understood sendeth forth an intelligible species, that is, an
intelligible being seen; which, comming into the Understanding, makes us Understand. I say
not this, as disapproving the use of Universities: but because I am to speak hereafter of
their office in a Common-wealth, I must let you see on all occasions by the way, what things
would be amended in them; amongst which the frequency of insignificant speech is one.»14
Il brano, oltre ad essere un chiaro indicatore di una situazione culturale in trasformazio-
ne, suggerisce anche una prima strategia critica, dedotta dai presupposti della dottrina stessa.
Seguendo l’indicazione della lezione scolastica, Hobbes specificava, tra le species sensibilis, la
Visible species e la Audible species. Proseguendo sulla stessa linea potremmo evidenziare il fatto
che le specie sensibili avrebbero dovuto necessariamente comprendere anche qualche tipo di
specie olfattiva, specie gustativa e specie tattile che ancor più difficilmente dell’Audible species si ac-
cordavano con un meccanismo percettivo così fortemente dipendente dalla terminologia della
luce e del vedere.
Questa però è soltanto la prospettiva più semplicistica, l’attacco alla gnoseologia scolastica
fu giocato con manovre più raffinate, eseguite attraverso la chiarezza e l’evidenza di esempi
concreti. Descartes ci mostra le reali conseguenze di un’Audible species davvero funzionante:
«Credete voi che [. . .] l’idea di questo suono, che si forma nel nostro pensiero, sia qual-
cosa di simile all’oggetto che ne è causa? Un uomo apre la bocca, muove la lingua, tira il
fiato; in tutte queste azioni non vedo nulla che non differisca parecchio dal suono che ci
fanno immaginare. La maggior parte dei filosofi afferma che il suono altro non è se non una
certa vibrazione dell’aria che viene a colpire i nostri orecchi; dimodoché, se il senso del-
l’udito rappresentasse al nostro pensiero la vera immagine del suo oggetto, dovrebbe farci
concepire, anziché il suono, il movimento delle parti dell’aria che vibra allora contro i nostri
orecchi.»15
Dello stesso tipo l’analisi di alcune sensazioni tattili particolari:
«Se si struscia dolcemente una piuma sulle labbra di un bambino che si addormenta,
il bambino avverte il solletico: secondo voi, l’idea del solletico da lui concepita somiglia a
qualcosa che è in questa piuma?»16
Se negli oggetti, poi, ci fosse la capacità reale di emanare specie tattili rappresentative, in-
nanzitutto, il contatto tra la pelle e la materia potrebbe anche essere superfluo, ma in ogni caso
resterebbe inspiegabile ogni eventuale indeterminazione della causa della sensazione:
«Un soldato ritorna da uno scontro: quando la battaglia divampava avrebbe potuto re-
star ferito senza accorgersene; ma ora che il suo ardore si va sedando avverte un dolore e
crede di esser ferito: si chiama un chirurgo, si spoglia il soldato dalle armi, lo si sottopone
a visita; si trova infine che si trattava solo di una fibbia o di una cinghia impigliata sotto
le armi in modo da esercitare una pressione fastidiosa. Se il tatto, nel dargli la sensazione
della cinghia, ne avesse impressa l’immagine nel suo pensiero, non ci sarebbe stato bisogno
di un chirurgo per spiegargli la causa della sua sensazione.»17
14THOMAS HOBBES, Leviathan, Part I, Of sense.
15DESCARTES, RENÈE, Il mondo o il trattato della luce, in Opere filosofiche, Vol.1, Laterza, Roma-Bari 2000, pag. 127.
16
Ibid., pag. 127.
17
Ibid., pagg. 126-127.
7Le prove apportate da Descartes a conferma della possibilità di qualche differenza fra la
sensazione e la causa della sensazione sembrano procedere direttamente da quanto intuito da
Galilei nel §48 de Il Saggiatore:
«Io vo movendo una mano ora sopra una statua di marmo, ora sopra un uomo vivo.
Quanto all’azzione che vien dalla mano, rispetto ad essa mano è la medesima sopra l’uno
e l’altro soggetto, ch’è di quei primi accidenti, cioè moto e toccamento, né per altri nomi
vien da noi chiamata: ma il corpo animato, che riceve tali operazioni, sente diverse affez-
zioni secondo che in diverse parti vien tocco; e venendo toccato, verbigrazia, sotto le piante
de’ piedi, sopra le ginocchia o sotto l’ascelle, sente, oltre al commun toccamento, un’altra
affezzione, alla quale noi abbiamo imposto un nome particolare, chiamandola solletico; la
quale affezione è tutta nostra e non punto della mano; e parmi che gravemente errerebbe
chi volesse dire, la mano, oltre al moto ed al toccamento, avere in sé un’altra facoltà diversa
da queste, cioè il solleticare, sì che il solletico fusse un accidente che risedesse in lei.»18
Nonostante fosse il nucleo della loro formazione filosofica e scientifica Galilei, Descartes e
Hobbes costituirono la pubblica accusa contro la cultura scolastica, avanzando alcuni legitti-
mi sospetti circa la sua validità. La riscoperta e la diffusione di alcune fonti antiche diede loro
la possibilità di confrontarsi con la tradizione atomistica, dalla quale mutuarono o nella quale
trovarono legittimazione storica gran parte delle loro convinzioni.
Le sentenze sull’impossibilità logica del divenire, del movimento e della molteplicità del-
l’essere, decretate da Eraclito (tra VI e V secolo a.C.), Zenone (495 A.c. - 430 a.C.) e Parmenide
(515 a.C. - 450 a.C.), aggiunsero all’indagini sulla natura l’ulteriore difficoltà di giustificarne
proprio i tratti caratteristici: diversità e trasformazione. L’idea di atomo, come particella non
ulteriormente divisibile, singolarmente priva di qualità sensibili, fu tra le migliori soluzioni
teoriche concepite. La prima formulazione appartiene a Leucippo (prima metà del V sec. a.C
- seconda metà del IV sec. a.C.), ma la maggior parte dei frammenti e delle testimonianze ri-
guardano l’opera di approfondimento e sistematizzazione compiuta da Democrito (460 a.C. -
360 a.C.).
«Democrito ritiene che la materia di ciò che è eterno consiste in piccole sostanze infinite
di numero; e suppone che queste siano contenute in altro spazio, infinito per grandezza; e
chiama lo spazio coi nomi di vuoto e di niente e di infinito, mentre da a ciascuna delle so-
stanze il nome di ente e di solido e di essere. Egli reputa che le sostanze siano così piccole da
sfuggire ai nostri sensi; e che esse presentino ogni genere di figure [e forme] e differenze di
grandezza. Da queste sostanze, dunque, in quanto egli le considera come elementi, fa deri-
vare e combinarsi per aggregazione i volumi visibili e in generale percettibili. Esse lottano
e si muovono nel vuoto, a causa della loro diseguaglianza e delle altre differenze ricordate,
e nel muoversi s’incontrano e si legano in un collegamento tale che le obbliga a venire in
contatto reciproco e a restare contigue, ma non produce però con esse veramente una qual-
siasi natura unica: perché è certamente un’assurdità il pensare che due o più possano mai
divenire uno. Del fatto che le sostanze rimangano in contatto tra di loro per un certo tem-
po, egli da la causa ai collegamenti e alle capacità di adesione degli atomi: alcuni di questi,
infatti, sono irregolari, altri uncinati, altri concavi, altri convessi, altri differenti in innume-
revoli altri modi; ed egli reputa dunque che gli atomi si tengano attaccati gli uni agli altri
18GALILEO GALILEI, Il Saggiatore, in Opere, Vol.1, UTET, Torino 2005.
8e rimangano in contatto solo fino a quando, col sopraggiungere di qualche azione esterna,
una necessità più forte non li scuota violentemente e li disperda in varie direzioni.»19
I concetti fondamentali dell’atomismo antico sono:
- La priorità ontologica accordata alle proprietà geometriche dell’atomo e alla sua posizio-
ne in un aggregato;
- la riduzione ad azione materiale di ogni interazione fisica;
- la teoria della percezione e il valore di verità delle sensazioni;
- la convenzionalità dei nomi e del linguaggio.
(1) L’atomo, la più piccola porzione di materia pensabile, veniva caricato della responsabili-
tà di garantire, dall’interno invisibile dei corpi, la permanenza e l’immutabillità che Parmenide
aveva dedotto per l’essere che è. Di fronte alla varietà di manifestazioni della natura, si rico-
noscevano agli atomi singoli svariate differenze di grandezza e forma; ciò non comprometteva
le loro funzioni, poiché, increati ed eterni, erano esclusi da ogni tipo di trasformazione. La na-
scita, il cambiamento, il deperimento e l’esistenza stessa di ogni oggetto naturale osservabile
venne attribuito esclusivamente all’aggregazione di più atomi. Le proprietà di ogni composto
materiale, pertanto, non potevano avere altra origine che la combinazione delle proprietà geo-
metriche degli atomi costituenti. Rispetto ad ogni fenomeno naturale semplice sarebbe stato
sufficiente conoscere la grandezza, la forma e la posizione degli atomi nell’aggregato; mentre,
per le interazioni più complesse sarebbe stata necessaria anche un’analisi dei moti fra i corpi in
relazione; (2) ogni trasferimento di moto era inteso come contatto, non escluso il caso di un’a-
zione a distanza: gli atomi frapposti tra sorgente e ricevente si trasmettevano l’un l’altro l’urto,
la pressione o la spinta impressa.
(3) Per spiegare la visione e gli altri processi della sensazione fu ipotizzato che dagli og-
getti si staccassero continuamente delle pellicole materiali sottilissime, rappresentanti micro-
scopici dell’oggetto madre capaci di penetrare nel corpo senziente attraverso i canali dei sensi.
Democrito chiamò gli elementi di questo flusso continuo eidola: essi corrispondevano, propor-
zionalmente ridotti, alla forma e alla grandezza degli oggetti originali, ma anche alla forma, la
grandezza e la posizione degli atomi costituenti.
Nel processo della visione, gli eidola provenienti dal corpo senziente avevano un ruolo cen-
trale. Secondo la teoria più completa dell’atomismo antico, infatti, l’immagine dell’oggetto
esterno e quella del percipiente, carica delle disposizioni individuali e temporanee del sog-
getto, si modificavano a vicenda contribuendo alla formazione dell’immagine definitiva. Que-
st’ultima veniva riflessa nell’occhio attraverso un adeguamento della materia oculare e veniva
assorbita per contatto dalla psyche diffusa in tutto il corpo.
Gli organi di senso, ognuno rispettivamente alla sua specializzazione, costituiscono una
via di accesso privilegiata all’interno del corpo, che reagisce poi complessivamente alle for-
me e alla grandezze degli atomi20; la rappresentazione unitaria è invece funzione esclusiva
dell’enkephalos.
19Così ARISTOTELE citato da Simplicio nel commentario al De caelo, in DIELS-KRANZ, I presocratici. Testimonianze
e frammenti, Laterza, Bari 2004, pag. 681(37).
20«Democrito, che assegna una determinata forma atomica a ciascun sapore, fa derivare il dolce dagli atomi
rotondi e di discreta grandezza, l’acre dagli atomi di figura grande con asperità e con molti angoli e senza rotondita,
l’acido o acuto - come dice il nome stesso - dagli atomi acuti, angolosi, a curve, sottili e non tondeggianti, l’agro
invece dagli atomi tondeggianti, sottili, angolosi e a curve; il salato, da quelli angolosi e di discreta grandezza,