La storia. [1]
1.1) L’occupazione e la fine della guerra.
La marcia finale sulla capitale etiopica da parte delle truppe di Badoglio,
nel quadro della guerra d’Etiopia, comincia il 26 aprile 1936 e non
comporta rischi immediati: in primo luogo giacchè i concentramenti di
truppe abissine segnalati tra Dessiè ed Addis Abeba sono irrilevanti; ed
in secondo luogo in virtù del fatto che le forze a disposizione del
maresciallo ammontano a ben 20.000 uomini (10.000 nazionali e 10.000
indigeni eritrei), organizzati su tre colonne, di cui la prima meccanizzata
e forte di più di 12.000 effettivi su quasi 1.800 autocarri, mentre le altre
due (composte ciascuna da 4.000 soldati coloniali), sono appiedate, e
mandate in avanguardia già a partire dal 24 aprile.
Quello che interessa a Badoglio ed a Mussolini che lo incita da Roma, è
di chiudere la partita e prendere Addis Abeba “manu militari”, senza
preoccuparsi minimamente di garantirne poi la sicurezza del presidio ed
il controllo delle vie di comunicazione. Seguono l’armata di Badoglio il
sottosegretario alle colonie Lessona ed oltre a generali e gerarchi anche
il futuro governatore della capitale, già governatore di Roma, Giuseppe
Bottai (rimarrà in carica meno di un mese).
L’ostacolo più rilevante si incontra al passo del Termabèr, a circa 200
chilometri dalla capitale, dove i distaccamenti di ascari che precedono
l’autocolonna trovano il transito interrotto da una frana provocata
artificialmente da esplosivo etiopico. La potente macchina bellica sarà
costretta a ritardare di tre giorni il proseguimento dell'avanzata.
Nel frattempo, il 2 maggio, il Negus abbandona la capitale, la quale
diviene oggetto di saccheggi da parte di bande armate di banditi (sciftà).
A Mussolini non sembra vero di essere ora sollecitato ad occupare Addis
Abeba proprio dal governo francese, che precedentemente ha contribuito
ad imporgli le sanzioni, il quale è preoccupato per la sorte dei propri
connazionali e degli altri europei asserragliati nelle legazioni.
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Già nella notte del 2 maggio il Duce potrebbe far occupare la città,
raggiunta dalle truppe di colore del generale Gallina, ma per il dittatore
era imperativo che le prime truppe ad entrare fossero nazionali.
L’ingresso è così posticipato di tre giorni, lasso di tempo in cui perdono
la vita nei disordini di Addis Abeba centinaia di persone. (Fatto gradito
al governo di Roma, che non chiedeva di meglio che farsi attribuire a
livello internazionale la patente di dispensatore di civiltà e di sicurezza).
La capitale appare alle colonne di Badoglio alle 16 del 5 maggio 1936,
come una conca racchiusa per due lati da una cinta di alture, coperta da
un fitto bosco di eucalipti, dal quale spiccano le bianche case o
scintillano i tetti di lamiera. Badoglio vi entra in auto, sotto una pioggia
scrosciante scortato da un nugolo di motociclisti, attraversa il quartiere
Cabanà, passando innanzi alle legazioni francese e tedesca, poi sale a
Villa Italia (già ambasciata italiana) e issa il tricolore.
La città è comunque nel caos, mentre Badoglio soddisfatto si corica,
Bottai ispeziona i quartieri cui assumerà il governo civile l’indomani, e
vede il poco edificante spettacolo di saccheggi, cadaveri, case distrutte.
La responsabilità della città, da quando Haile Selassie ha deciso di
raggiungere Gibuti, è stata affidata al direttore della municipalità; blatta
Tecle, che aveva ricevuto ordini precisi di attendere gli italiani per il
passaggio delle consegne, insieme al metropolita copto per l’Etiopia,
l’egiziano abuna Cirillo.
Il comandante della polizia locale, balambaras Abebè Aregai, futuro
capo supremo della resistenza etiopica, aveva cercato di impedire con gli
uomini della guardia imperiale (zabagnà), che i predoni si rifornissero di
armi, ma senza successo. La via Maconnen, vetrina dei negozi più
lussuosi della città, gestiti in maggioranza da europei, è investita da
torme di banditi, da soldati sbandati delle armate sconfitte del fronte
nord, da gruppi di galla (oromo), che riducono tutto in cenere ed
uccidono chi si oppone ai saccheggi. Insieme ai negozi, vanno distrutti
anche i palazzi imperiali, il palazzo delle poste, gli uffici della Croce
Rossa etiopica, gli ospedali e perfino l’arco di trionfo dedicato
all’imperatore.
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Gli oromo sono in particolare modo brutali, vedendo la possibilità di
vendicare i soprusi subiti precedentemente dalla classe dominante
scioana ed amhara.
In un secondo tempo (3 e 4 maggio) scatta la “caccia al bianco” che vede
protagonisti sciftà, ma anche soldati e zabagnà i quali identificano nella
figura del bianco l’immagine dell’invasore fascista.
E’ la guerriglia urbana, e la maggior parte dei 6.000 stranieri della
capitale tenta riparo nelle legazioni diplomatiche estere situate nella
parte alta della città, che resistono a continui attacchi; oppure alla
stazione ferroviaria, pesantemente difesa dalla guardia imperiale e da
soldati coloniali francesi (truppe senegalesi) affluiti da Gibuti via
ferrovia.
In queste ore difficili, vi è comunque chi pensa anche che i veri nemici
sono gli italiani, e comincia a organizzare la resistenza accampandosi nei
dintorni della capitale, come il blatta Tecle, Ficre Mariam e lo stesso
capo della polizia Aregai. (Kidane Mariam decide di organizzare la lotta
all’interno della città che sta per essere occupata).
La mattina del 6 maggio tutto ciò cessa e ritorna la tranquillità.
La decisione di Roma di aspettare l’arrivo delle truppe nazionali
badogliane e di arrestare gli ascari del generale Gallina alle porte della
capitale, è costata circa 500 morti, in gran maggioranza abissini. (Gli
europei deceduti sono 28).
In città viene istituita immediatamente la pena di morte per due reati;
chiunque venga sorpreso in possesso di armi, oppure sia accusato di
avere partecipato ai saccheggi, in base al ritrovamento di merci rubate, è
sommariamente passato per le armi dai carabinieri (fonti francesi
indicano che 1.500 persone vennero giustiziate per tali motivazioni).
Il 9 maggio a Dire Daua avviene l’incontro tra le truppe di Badoglio,
provenienti dalla capitale tramite la ferrovia, e le truppe di Graziani
provenienti dal fronte sud. I francesi che presidiavano l’importante nodo
della ferrovia Addis Abeba – Gibuti, passano le consegne agli italiani in
una atmosfera cordiale (la quale rivela il mantenimento delle intese tra
Roma e Parigi, anche se Laval è caduto fin dal gennaio precedente ed
ora alle elezioni ha recentemente trionfato il Fronte Popolare).
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La guerra è finita e Mussolini da Roma proclama l’impero eccitando la
coscienza collettiva di quasi tutta la nazione (che non è pienamente al
corrente delle brutalità effettuate e che soprattutto ignora i costi
astronomici della campagna che hanno portato il paese a livello di
guardia).
1.2) Dopo la guerra.
Ad Addis Abeba intanto, nonostante i proclami del regime, che
affermavano che la vita era tornata normale, che gli uffici funzionavano
e che si salutava romanamente, la sicurezza è solamente fittizia. Metà
della popolazione è ancora accampata sulle alture circostanti e non
accenna a rientrare. Di notte inoltre, a dispetto del coprifuoco, partigiani
etiopici escono dai loro ripari ed attaccano i soldati isolati, all’interno
della città.
Di fronte a problemi di tali entità, Badoglio è pure inondato dai
farneticanti telegrammi da Roma, contenenti i progetti di Mussolini, il
quale lungi dal comprendere la situazione reale, pecca sia di
megalomania quanto di superficialità e faciloneria.
I progetti più rilevanti, cioè quelli che probabilmente convinceranno
Badoglio che è il momento di cedere il passo e di ritornare a Roma a
riscuotere allori, sono le disposizioni afferenti l’occupazione dell’intero
territorio etiopico, diramate all’inizio della stagione delle piogge, la
quale fino ad ottobre rende difficile il minimo spostamento.
Il maresciallo, che precedentemente aveva edulcorato la situazione, deve
scoprire le carte ed ammettere al suo Duce di essere praticamente
assediato all’interno della capitale conquistata, in quanto la strada
Asmara - Addis Abeba è impraticabile per il maltempo ed il fenomeno
del ribellismo, in costante aumento, minaccia la ferrovia per Gibuti e
l’invio di qualsiasi rifornimento. Il Duce risponde imponendo dure
rappresaglie e promettendo l’invio di rinforzi.
A guerra ufficialmente dichiarata conclusa, dopo avere mandato in
Africa 300.000 uomini, il regime è disposto ad inviarne altri; nello stesso
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momento in cui ripete al mondo che la pace è ristabilita e le popolazioni
lavorano tranquille all’ombra del tricolore e del fascio littorio.
Quasi due terzi del paese sono tuttora sotto il controllo di notabili vicini
al Negus, o comunque in mano a personaggi non legati all’Italia da
vincoli di fedeltà, che hanno assunto il potere dopo la caduta della
amministrazione scioana; decine di migliaia di soldati sbandati, ma
ancora in armi circondano le vicinanze della capitale.
Tutto ciò porta ad un intensificazione della repressione da parte italiana,
che culmina con l’arresto e la scomparsa del patriota Kidane Mariam che
guidava i giovani nazionalisti in clandestinità all’interno della capitale.
L’idea di governo coloniale di Badoglio si basa comunque su di un
governo indiretto, che affida autonomie ai ras locali quali organi
intermedi. Questi concetti non sono graditi, nè a Lessona, che nel
frattempo è ritornato in Italia e nemmeno a Mussolini. Il Duce ha in
mente per l’A.O.I., comprendente anche le colonie di Eritrea e Somalia,
una ripartizione studiata a tavolino in 5 grandi regioni, amministrate
ciascuna da un governatore che risponde direttamente al vicerè in
Etiopia ed al Ministero delle Colonie in Italia. Naturalmente ciò provoca
una cesura con quello che è stata la continuità storica e l’identità
socioculturale precedente delle popolazioni residenti. (La regione dello
Scioa viene cancellata dalla carta geografica e ripartita su tre
governatorati).
Il progetto di Mussolini e Lessona è il seguente:
ξ La prima regione è composta da Eritrea; Tigrai e la Dancalia con
governatore Guzzoni, poi successivamente De Feo (capitale
Asmara).
ξ La seconda regione comprende i territori dell’Amhara, buona
parte dello Scioa; il Goggiam ed i territori del nord ovest con
governatore Pirzio Biroli (capitale Gondar).
ξ La terza zona comprende l’Harar; l’Arussi ed il Bale con
governatore Nasi (capitale Harar).
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ξ La quarta zona è composta dalle terre oromo-galla e dai territori
dell’ovest con governatore Geloso (capitale Gimma).
ξ La quinta suddivisione comprende la Somalia; e l’Ogaden con
governatore Santini (capitale Mogadiscio).
La capitale, Addis Abeba e territori limitrofi, erano amministrati
direttamente dal vicerè.
1.3) Parte Badoglio, subentra Graziani.
In ogni caso Badoglio torna in Italia, dove riscuoterà cariche, prebende
ed allori, lasciando il 20 maggio 1936 al maresciallo Graziani le redini
del comando ed il difficile compito della gestione coloniale dell’Africa
Orientale Italiana.
La situazione peggiora ulteriormente, si temono aperte ribellioni e si
verificano espliciti e sfacciati attacchi a presidi italiani.
Dopo l’assedio di un battaglione eritreo ad Ancóber (dove la situazione è
sbloccata solo dall’aviazione), Mussolini da Roma si convince che
occorre desistere dalla conquista integrale dell’impero e reputa di
importanza primaria la più dura repressione del fenomeno del ribellismo.
(Autorizzando segretamente anche l’uso di gas asfissianti ed aggressivi
chimici, peraltro già largamente utilizzati durante la guerra di conquista).
Un altro obiettivo del dittatore è la completa decapitazione della
intellighenzia etiopica (amhara), l’implementazione di nuovi campi di
concentramento, la persecuzione del clero copto e l’applicazione della
rappresaglia mediante “legge del taglione al decuplo” (che tanto ha
indignato l’opinione pubblica quando è stata condotta da altri eserciti in
suolo europeo).
In campo internazionale si assiste in questo periodo alla fine delle
sanzioni economiche contro l’Italia ed agli angoscianti tentativi di
appello del Negus (in esilio a Londra) presso la Società delle Nazioni.
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La morale della lezione che si poteva trarre all’epoca nel campo delle
relazioni internazionali era che un dittatore senza scrupoli poteva
annettersi stati sovrani in barba agli organismi sovranazionali ed alle
potenze democratiche di Francia e Gran Bretagna. (Lezione che poi
Hitler fece propria).
Graziani dunque, deve fronteggiare nel sud e nell’ovest dell’Impero,
grosse formazioni di soldati regolari del disciolto esercito negussita, nel
frattempo nelle zone occupate necessita di affrancarsi dai partigiani.
Mentre l’ufficio informazioni del governo generale stima tra 40 e 50
mila uomini ostili ancora in armi; la stagione delle piogge non gioca a
favore dell’Italia.
Come se non bastasse Graziani non va d’accordo con Lessona,
incrinando la indispensabile collaborazione tra colonie e madrepatria.
Tutto questo lo costringe sulla difensiva fino ad ottobre, mese in cui
finiscono le grandi piogge.
Addis Abeba è in tale periodo in stato di guerra, di notte è pericoloso
circolare, bande armate sono presenti in città e si teme un colpo di mano.
Di fronte a migliaia di ribelli Graziani deve difendere i 39 chilometri del
perimetro della capitale con 9.000 soldati che scarseggiano di
equipaggiamenti in quanto la strada per Asmara è impraticabile ed è
obbligato a rifornirsi da basi somale distanti 1.900 chilometri.
Persino quando nel luglio 1936 arrivano due divisioni di rinforzo (la
divisione Tevere e la colonna Tessitore) e le forze di Graziani quasi
quadruplicano, la difesa della città è ancora compromessa a causa della
scarsa possibilità della manovra di manipoli al suo interno.
I plotoni d’esecuzione funzionano comunque a pieno regime ed a fine
luglio uccideranno addirittura l’abuna Petros, il vescovo di Dessiè, (morì
benedicendo i suoi carnefici), il quale invece di sottomettersi agli italiani
aveva raggiunto in clandestinità il degiac Aberra Cassa, che stava
divenendo capo carismatico della ribellione dei patrioti (arbegnuoc).
Verrà giustiziato anch’egli entro il concludersi dell’anno (dopo essersi
spontaneamente arreso).
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I continui attacchi alle vie di rifornimento, in particolare la ferrovia,
rendono la vita ad Addis Abeba molto difficile, mancano anche generi di
prima necessità e si respira clima da assedio.
Il 28 luglio i partigiani attuano il loro piano di liberazione della città ed
ingaggiano gli occupanti in aperta battaglia. Il tentativo fallisce
sostanzialmente per non essere coadiuvato da parte dei ras che sono
passati dalla parte degli italiani e per non essere appoggiato da una
insurrezione generale cittadina, fatto che avrebbe riacceso la guerra nello
scacchiere e compromesso l’impero.
La mattina del 30 luglio gli italiani controllano la situazione ed hanno
sgominato gli assalitori, grazie anche ad interventi della forza aerea ed
alla indifferenza della popolazione civile.
Il leader della rivolta Aberra Cassa, ritira i suoi uomini ed inizia una
ambigua politica di avvicinamento verso l’Italia, la quale lo porterà nel
lungo periodo alla morte.
La città pur rimanendo fortemente difesa e sostanzialmente sicura,
registra per tutto agosto tensioni dovute agli attacchi partigiani alla linea
ferroviaria, fronteggiati dai fascisti con le artiglierie, che impongono
forti tributi di sangue agli arbegnuoc.
Continuano altresì le dannose divergenze tra Lessona e Graziani in
merito all’utilizzo dei capi amhara fedeli all’Italia, ed in merito alla più
generale organizzazione dell’A.O.I.
Infatti la Legge Organica del 1 giugno 1936, fortemente voluta da
Lessona, è agli occhi di Graziani fortemente ambigua: essa prevedeva
nelle prerogative del vicerè e del governatore generale la giurisdizione
diretta sui cinque governatorati; ma un articolo della stessa legge
autorizzava (in circostanze sostanzialmente indeterminate) i governatori
a scavalcare il vicerè ed a rivolgersi direttamente al Ministero delle
Colonie a Roma. Inoltre non bisogna dimenticare che obiettivo del
Lessona era creare un “feudo personale” in Africa Orientale, mettendo
persone di fiducia nei posti chiave (Pirzio Biroli governatore
dell’Amhara, dello Scioa e del Goggiam; e l’ammiraglio De Feo
governatore dell’Eritrea e del Tigrai, sono entrambi cugini di Lessona).
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Attriti sono presenti pure tra i Carabinieri, che sono fedeli a Graziani
(colonnello Hazon) e la speciale polizia coloniale PAI, creata dal
Ministero delle Colonie.
Graziani riesce ad ottenere comunque, avvalendosi anche del suo
“protettore” a Roma, il sottosegretario alla guerra Baistrocchi (che verrà
allontanato in ottobre dal potere grazie al lavoro sotterraneo di
Badoglio), che la Legge Organica rimanga per il momento inattuata,
almeno per quanto concerne lo smembramento dello Scioa fra tre
governatorati. (Nel 1938, dopo che Lessona sarà esautorato dal Duce, lo
Scioa diverrà sede di un ulteriore sesto governatorato).
Inutile dire che anche per il Graziani l’obiettivo era il controllo totale e
la piena discrezionalità su qualsiasi questione.
La guerra privata tra Lessona e Graziani è in ogni caso all’apice
nell’ottobre 1936, quando Lessona compie un’ispezione ad Addis
Abeba, motivata dalla eccessiva indulgenza che a suo parere Graziani
concede al fenomeno ribellistico. Lessona appena arrivato nella capitale
impartisce precisi ordini affinchè tutte le forze ribelli nelle vicinanze
della ferrovia vengano eliminate con qualsiasi mezzo.
Con l’arrivo della bella stagione (la fine delle grandi piogge in ottobre),
gli italiani eseguono imponenti operazioni in tutte le regioni dell’Impero,
non fermandosi neppure dinanzi all’uso di armi chimiche, e facendo leva
sui sentimenti di revanche delle etnie galla nei confronti della ex classe
dirigente scioana.
Colonne dell’esercito e della milizia riescono così a penetrare pressochè
dovunque sul territorio, completando l’occupazione “integrale” tanto
caldeggiata da Roma. (Vengono passati per le armi in dicembre i fratelli
Cassa e alla fine di febbraio ras Destà; mentre ras Immirù che governava
un feudo amhara in Gore era costretto alla resa fino dal dicembre
precedente).
Il prezzo pagato dall’Italia per “pacificare” le provincie e le tecniche
impiegate per piegare la resistenza nel territorio etiopico sono da
considerarsi al limite delle accuse di genocidio e non riconoscono freni
inibitori di ordine morale.
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