E poi c’è la politica, e le pubblicazioni delle intercettazioni telefoniche con i
provvedimenti del Garante per la protezione dei dati personali.
4
I media dovrebbero agire da cani da guardia del potere, «in nome e per
conto di se stessi e facendosi voce della società civile»
5
. E se negli Stati Uniti
6
«i
giornali hanno concorso da protagonisti al formarsi di una cultura politica
moderna, democratica e razionale»
7
e continuano a far tremare i politici - nel
Codice etico dell’APME (Associazione dei Capiredattori dell’Associated Press),
adottato nel 1995, si legge che «il giornale deve essere uno strumento di critica
costruttiva nei confronti di tutta la società riflettendone, nella composizione della
redazione e nella copertura delle notizie, le diverse componenti. Deve inoltre
pubblicare notizie relative a misfatti, malafede o abusi del potere, sia nel settore
pubblico sia in quello privato»
8
-, in Italia l’anomala composizione degli assetti
proprietari dei mezzi di comunicazione ha ostacolato la loro funzione di
guardiani.
Fino a che punto, allora, è lecito spingersi? Nel tentare di dare una risposta,
ci viene in aiuto la legge. Va citato in primis l’art. 21 della Costituzione italiana:
«Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola,
lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad
autorizzazioni o censure. Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato
dell’autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa
espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge
stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili. In tali casi, quando vi sia
assoluta urgenza e non sia possibile il tempestivo intervento dell’autorità
giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può essere eseguito da ufficiali di
polizia giudiziaria, che devono immediatamente, e non mai oltre ventiquattro ore,
4
Si veda il provvedimento 21 giugno 2006, Pubblicazioni di trascrizioni di intercettazioni
telefoniche, su www.governo.it/informa/dossier
5
P. Scandaletti, Come parla il potere, Sperling & Kupfer, Milano, 2003, p. 82
6
Ecco il testo del primo emendamento: «Congress shall make no law respecting the establishment
of religion, or prohibiting the free exercise thereof; or abridging the freedom of speech, or of the
press; or the right of the people peacebly to assemble, and to petition the Government for a
redress of grievances», ossia «Il Congresso non potrà fare alcuna legge per il riconoscimento di
qualsiasi religione o per proibirne il libero culto; o per limitare la libertà di parola o di stampa; o
il diritto che hanno i cittadini di riunirsi in forma pacifica e di inoltrare petizioni al Governo per
la riparazione dei torti subiti».
7
P. Scandaletti, Storia del giornalismo e della comunicazione, Esselibri, Napoli, 2004, p. 76
8
Codice etico dell’APME, 1995
6
fare denunzia all’autorità giudiziaria. Se questa non lo convalida nelle
ventiquattro ore successive, il sequestro s’intende revocato e privo di ogni effetto.
La legge può stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi noti i
mezzi di finanziamento della stampa periodica. Sono vietate le pubblicazioni a
stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La
legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni».
Ma la legge, da sola, è relativamente efficace. I media, infatti, «possono causare
seri danni pur senza violare le leggi».
9
É necessario che giornalisti e comunicatori
si dotino di autoregolamentazioni, cioè di codici etici e deontologici, principi e
regole che siano sentiti e provengano dagli stessi comunicatori. Rodolfo Brancoli,
citando Irina Fossati, osserva che «sarà sempre più la questione deontologica il
“campo di battaglia” per la definizione dell’autonomia da parte di professionisti
“dipendenti” e stipendiati come lo sono i giornalisti […]. “Proprio norme etiche
ben definite e facilmente trasmissibili sono indispensabili per contrastare il
rischio che corrono i singoli professionisti di essere fagocitati dalla moralità e
finalità di entità sociali esterne”»
10
.
Marica Spalletta, sottolineando la necessità di differenziare la categoria
professionale dei giornalisti da quella, più ampia, dei comunicatori, scrive che
«[…] sotto l’etichetta «comunicatori» sono […] oggi contemplati professionisti
diversi per formazione ed attività svolta, che […] non devono essere confusi: da
una parte i giornalisti, dall’altra esperti di relazioni esterne, pubblicità,
comunicazione pubblica e politica, comunicazione istituzionale e lobbing, nonché
gli autori di programmi radio/tv. [Tuttavia,] pur nella diversità delle rispettive
professioni, i comunicatori sono assimilati da una comune responsabilità sociale,
che si traduce nella necessità di una deontologia professionale»
11
che sostenga e
9
Bertrand Claude-Jean con Chiara Di Martino e Salvatore Sica, La “morale” dei giornalisti.
Deontologia dei media e qualità del prodotto editoriale, Franco Angeli, Milano 2004, p. 73.
Bertrand sostiene che «comportamenti permessi dalla legge possono essere contrari all’etica
professionale», citando ad esempio il caso di un giornalista che accetti l’invito di un industriale in
vacanze di lusso.
10
In «Problemi dell’Informazione», anno XVII, n 2, 1993, in R. Brancoli, Il risveglio del
guardiano. Dal giornalismo americano un modello informativo per la seconda repubblica,
Garzanti, Milano, 1994.
11
Spalletta M., L’accesso e l’offerta formativa, le associazioni delle professioni dei comunicatori:
percorsi, contenuti, metodi e reciprocità europee, in DESK n. 1/2006, pp. 51-55.
7
valorizzi, insieme con una formazione adeguata, chi svolge al meglio la
professione.
Come si è sviluppata nei secoli l’etica della comunicazione? Quando sono
comparsi i primi codici deontologici? Come vengono applicati oggi dai
comunicatori italiani e del mondo? É per rispondere a tali quesiti che nasce l’idea
di una tesi in Storia delle deontologie dei comunicatori.
Nel primo capitolo scriverò delle origini della deontologia e dello sviluppo
della consapevolezza deontologica nei primi giornalisti, con un excursus sulla
nascita dei primi codici. Un’analisi dei codici deontologici dei giornalisti e delle
moderne associazioni dei comunicatori in Italia sarà oggetto del secondo capitolo.
Codici deontologici internazionali a confronto e analisi del caso italiano i temi del
terzo. Il quarto capitolo, infine, tratterà del riconoscimento giuridico-istituzionale
dell’Ordine dei giornalisti e delle Associazioni dei comunicatori italiani, con uno
sguardo al contesto europeo e al recente disegno di legge Delega in materia di
professioni intellettuali predisposto dal Ministro della Giustizia Clemente
Mastella, che inciderà non poco sul mondo associazionistico. A tal proposito,
verranno riportati i termini del confronto diretto tra il Guardasigilli e i
rappresentanti delle associazioni di comunicatori, tenutosi lo scorso 5 marzo nel
corso dell’incontro di studio “Identità e regole delle professioni della
comunicazione” presso l’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa.
8
I capitolo
Le origini della deontologia
1. Per una definizione di deontologia
1.1 Jeremy Bentham
Non vi è dubbio alcuno, tra gli studiosi in materia, che l’origine storica del
termine deontologia (dal greco deòn - dovere, ciò che si deve fare - e logos -
discorso, parola) vada opportunamente rintracciata nei lavori intellettuali del
filosofo e giureconsulto Jeremy Bentham (Londra, 1748-1832), e specificamente
nel trattato «Deontologia o scienza della moralità»
12
, edito nel 1834. Sul piano
strettamente esegetico permangono tuttavia alcune perplessità ed opinioni
divergenti in merito ad una sua rigorosa categorizzazione concettuale, processo
che abbraccia inevitabilmente il problema etico posto dalla filosofia morale e la
sua distinzione dalla sfera del diritto, e dunque si estende - in Bentham come nei
precursori del suo pensiero - all’identificazione dei fondamenti necessari dello
stesso giudizio morale e alla soluzione dei quesiti teorici da questi sollevati.
Va infatti sottolineata l’esistenza di una certa indeterminazione semantica
che ancor oggi caratterizza il termine deontologia, il quale pare indicare nel
lessico moderno il complesso delle regole di condotta che devono essere rispettate
nell’attività sociale ma anche comprendere, in una più ampia accezione
etimologica, oltre a quel complesso di norme già codificate, anche l’insieme di
imperativi categorici che potrebbero definirsi di correttezza professionale.
La lettura delle opere di colui che è considerato il fondatore
dell’utilitarismo
13
, Jeremy Bentham, offre al riguardo notevoli spunti di
riflessione. Ad avviso dell’autore, la deontologia, che nasce quale scienza a sé
12
Titolo originale: «Deonthology or Science of Morality», ed. Meline, London, 1834.
13
L’utilitarismo (dal latino utilis, utile) è una dottrina filosofica di natura etica per la quale è
“bene”, “giusto”, ciò che aumenta la felicità degli esseri sensibili.
9
stante dalla demolizione dei sistemi etici precedenti e in particolare dal rifiuto
della trascendenza e pure della ragione quali criteri della moralità, non deve
fornire principi di comportamento e di giustizia derivati dal diritto naturale o da
complesse speculazioni metafisiche, bensì ancorarsi al dato sensibile,
all’esperienza in campo morale («il senso di dolore o di piacere che fanno
provare le azioni ai nostri sensi»
14
) al fine di rinvenire risposte a problemi
concreti sulla base del principio dell’utilità e del criterio dell’interesse personale.
Se tale principio, «base della morale e conducente della felicità»
15
, ha
origine, in realtà, tra gli edonisti - filosofi che attribuivano al piacere e all’utile i
fini delle azioni umane - e ancor prima con Socrate, che ricercava la felicità
identificandola con l’ideale della saggezza, nel XVIII secolo Bentham se ne servì
per definire ciò che produce vantaggio e che rende minimo il dolore e massimo il
piacere.
La teoria benthamiana si presenta dunque come una rivisitazione in chiave
utilitaristica dell’empirismo di Locke in cui viene ribadita una sostanziale
omogeneità tra dovere e interesse, ed è dunque una filosofia della sensazione e
dell’esperienza. Essa tuttavia attribuisce alla morale un più marcato colorito
giuridico: giacché la deontologia conduce in un ambito in cui la norma di
comportamento ha origine dalla concreta e quotidiana esperienza ed i suoi
contorni precettivi richiedono l’ausilio interpretativo e non più costitutivo della
morale, quest’ultima «[…] che è stata, per le principali teorie etiche del tempo
antico […] la fonte del diritto, finisce per mutuare dalla legislazione il suo
contenuto». La legge diventa pertanto «l’unico movente nella valutazione delle
azioni»
16
. Il filosofo stabilisce quindi un parallelismo tra la morale e la
legislazione, pur riconoscendo l’utilità come il fine comune, ma finisce col
limitare al massimo l’opera del moralista e riconoscere priorità istitutiva alla
parola giuridica:
«Bentham pur tenendo separato il diritto e la morale, pur
riconoscendo in ambedue la sola esteriorità, ne riconosce la sostanziale
14
Frattolillo P., La deontologia di Geremia Bentham e la morale inglese contemporanea, Edizioni
Mondo Nostro, Marcianise, 1956, p. 75.
15
Ivi, p. 22.
16
Ivi, p. 76.
10
identità. Ritiene cioè un fine comune da raggiungere con mezzi diversi. Il
deontologo
17
consiglia, […] il legislatore invece comanda. Per ciò che
riguarda il calcolo dell’interesse, il moralista fornisce agli uomini gli
elementi necessari e attraverso gli esempi può dimostrare come si possa
facilmente incorrere in errori nella valutazione dell’interesse particolare in
rapporto al generale. Ma oltre a ciò il moralista non può nulla perché,
secondo Bentham, ogni individuo resta l’arbitro della propria azione. Il
legislatore, invece, ha un compito che, pur essendo parallelo a quello del
moralista, è assai più difficile.»
18
L’originalità del filosofo inglese va individuata nell’introduzione del
concetto di calcolo - o algebra - morale
19
e nel tentativo di purificazione della
morale utilitaria dall’egoismo attraverso una simpatia interessata, che mai si riveli
rinuncia all’utile proprio, e la sanzione legale, che valga a conferire forza e
sicurezza alla sua affermazione. La scienza morale di Bentham si connota per tale
via di un valore sociale e pare opportunamente indirizzata alla regolamentazione
del dovere e del senso del dovere in funzione dell’utilità collettiva, sotto la tutela
legislativa. Se per Bentham il valore di un’azione è oggettivamente definibile
come somma algebrica dei piaceri e dei dolori prodotti in tutti gli individui
coinvolti, egli ammette - sia pure implicitamente - che il dolore altrui si rifletta
sull’armonia dei rapporti tra gli uomini, e quindi, in ultima analisi, sul proprio
benessere. È parso allora smarrito, nell’interpretazione e nel riferimento al
pensiero del filosofo quale fondamento della definizione dei principi della
deontologia, quel carattere «gretto ed esteriore»
20
della regola del comportamento
umano, instaurato dalla morale utilitaria. Eppure Bentham, a ben vedere, non
perde mai di vista l’utile personale: il sacrificio agli altri di una parte dell’utile
presente, infatti, lungi dal configurarsi quale pratica disinteressata, si mostra
finalizzato al ricevimento di un beneficio futuro maggiore. Egli è capace di
associare ed identificare individualismo ed altruismo, giacché quest’ultimo altro
non è che un individualismo camuffato; «sa che finisce nell’egoismo ma crede di
17
Nella terminologia adoperata da Bentham, deontologo e moralista sono sinonimi.
18
Frattolillo P., op. cit., p. 19.
19
Facendo così dell’etica una scienza quantificabile.
20
Frattolillo P., op. cit., p. 76.
11
poter giungere colla forza della sua logica dall’egoismo all’altruismo attraverso
la simpatia e la sanzione»
21
.
Le riflessioni svolte, che in larga parte vertono sulla nascita e sull'originaria
caratterizzazione dell’idea deontologica, non consentono dunque di tracciare in
modo rigoroso i confini tra etica e deontologia, da un lato, e sfera legislativa,
dall’altro, né di individuarvi una relazione univoca di tipo causale. È pertanto
opportuno soffermarsi con maggiore attenzione sui caratteri storici e sulle forme
effettive di tali astrazioni, al fine di pervenire ad una base teorica sufficientemente
ampia da consentire un’identificazione quanto più possibile accurata ed ordinata
dei presupposti e degli aspetti problematici della definizione di un codice
deontologico per il giornalista-comunicatore.
1.2 Etica, deontologia, legge
Per tentare di delineare il campo della deontologia, è necessario in primis
cercare una definizione ammissibile dell’etica e dell’oggetto dell’etica, perché è
da questi concetti che hanno origine le norme deontologiche, ossia l’insieme delle
regole scritte (cioè delle norme etiche) da rispettare per svolgere un lavoro
corretto.
Il dizionario enciclopedico Zanichelli definisce l’etica, o filosofia morale,
come «la disciplina filosofica che studia le norme che devono regolare il
comportamento e le scelte umane […] Scopo dell’etica è più la teoria che la
pratica, anche se la teoria è finalizzata alla pratica», e la deontologia «l’insieme
dei doveri e delle responsabilità cui sono sottoposti gli appartenenti a
determinate categorie nell’espletamento della loro professione»
22
.
Si è accennato alle dispute teoretiche in merito ai problemi relativi all’etica,
sui quali è arduo trovare un’intesa o almeno una convergenza di giudizi tra
filosofi, studiosi e moralisti. La storia dell’uomo e dalla nascita della riflessione
etica, cioè dell’indagine sulla validità dei precetti e dei divieti morali, fornisce
21
Ivi, pag. 77.
22
Edigeo, a cura di, Enciclopedia Zanichelli, La Repubblica, Milano 1995.
12