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L’ex fornace da centro di produzione di laterizi dismesso verrà trasformata in un centro altamente
qualificato di studio e ricerca nel campo delle costruzioni e dei materiali lapidei artificiali.
L’edificio storico sarà liberato da superfetazioni e interventi incongrui e sottoposto a restauro
conservativo. Lo galleria ellittica del forno e lo spazio sovrastante saranno allestiti per esposizioni,
conferenze ed eventi.
Il nuovo edificio, a ridosso dello specchio d’acqua, si configura come un segno orizzontale
nel paesaggio, una piastra-terrazzo sotto la quale sono disposti i volumi per la didattica e le attività
collettive. L’edificio è caratterizzato dalla permeabilità al flusso dei visitarori e agli elementi naturali
che lo circondano; i patii si aprono verso il cielo, e i percorsi si connettono alla sistemazione della
sponda del lago. Tutto l’edificio è semi ipogeo, radicandosi in questo modo al terreno, elemento
primo della produzione dell’ex fornace.
I due poli saranno complementari, in stretto rapporto tra loro: l’ex fornace rimarrà a m u s e o d i
sé stessa; caricata del significato di icona, essa sarà l’i n s e g n a a s c a l a t e r r i t o r i a l e
dell’intero intervento.
Il percorso didattico all’aperto, che avrà per tema la lavorazione del laterizio, sarà l’elemento
di unione tra il nuovo edificio e le preesistenze storiche.
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la disciplina dell’archeologia industriale
L‘archeologia industriale è una disciplina che nasce in Inghilterra, nei primi gli anni ‘50,
quando si pone il problema della conservazione di impianti industriali, storici e non, danneggiati
dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Se si ricorda che proprio in Gran Bretagna ebbe
origine quel processo di rinnovamento chiamato Rivoluzione Industriale, appare subito chiaro il
motivo per cui questa nazione abbia preso coscienza per prima della necessità di tutelare i reperti
di questo settore.
Da allora ha preso piede in Europa e nel mondo la consapevolezza che nei resti abbandonati
di un passato così prossimo fossero racchiusi i segreti di una delle più recente rivoluzioni, quella
industriale appunto.
Il senso del recupero del patrimonio industriale non è stato assorbito allo stesso modo in ogni
nazione, è stato infatti declinato con significati diversi nei vari paesi europei; evidentemente a causa
della connotazione socio-politica oltre che ideologica che il fenomeno industriale ha avuto in ogni
luogo.
Così, ad esempio, nei paesi dell’Est non è stato necessario un recupero degli edifici industriali perché
questi, essendo visti come monumenti della classe operaia e, al tempo stesso, della rivoluzione, sono
sempre stati adeguatamente curati; in Gran Bretagna invece hanno rappresentato la rievocazione,
forse un po’ elegiaca dell’epoca in cui l’Inghilterra era il centro del mondo.
Al di là comunque dell’ideologia, l’archeologia industriale può essere un’occasione reale di
arricchimento e scambio culturale internazionale ed il recupero di questi ‘reperti’ il modo migliore
per collegare il nostro passato industriale alle possibili opportunità di progresso futuro.
In Italia l’introduzione ufficiale della nozione di archeologia industriale coincide con il Convegno
Internazionale di Milano tenutosi alla Rotonda della Besana nel 1977, nell’ambito della mostra ‘San
Leucio: archeologia, storia, progetto’ organizzata da Eugenio Battisti, lo storico dell’arte che per
primo ha portato questa nuova “non disciplina” nel nostro aese.
Sintetizzando, l’atteggiamento verso i reperti industriali dismessi, dal momento della comparsa
dell’archeologia industriale in Italia, potrebbe essere suddiviso in due momenti diversi in cui
prevalgono due idee differenti.
Nei primi decenni successivi alla “nascita” , si parla degli anni ’70 e ’80, l’archeologia industriale ha
principalmente prestato attenzione allo studio dei reperti dal punto di vista prettamente architettonico
e infrastrutturale, tralasciando lo studio del “contenuto” dei grandi complessi industriali.
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Nella prima fase, gli addetti all’archeologia industriale avevano un atteggiamento principalmente
conservatore, probabilmente influenzati dalle correnti di pensiero che in quegli anni propugnavano
la salvaguardia dei “centri storici” e in generale delle testimonianze del passato.
La chiusura mentale verso la possibilità del riuso creativo di spazi e edifici ha molto spesso decretato
la rovina stessa di molti siti industriali. L’incomunicabilità tra conservatori, fermi nelle loro posizioni,
e imprese, mosse da politiche di mercato e possibili protagoniste nel gioco del riuso di archeologie
industriali, ha quindi portato ad uno stato di immobilità e inazione, che alle volte ha impedito la
demolizione senza controllo, ma altre volte ha significato il definitivo abbandono e conseguente
rovina.
Con gli anni ’90 l’interesse dell’archeologia industriale si è allargato e il concetto di patrimonio
si è esteso anche agli apparati produttivi, agli strumenti e alle macchine.
Alla luce di questa impostazione sono state realizzate numerose esperienze soprattutto di
conoscenza, catalogazione e schedatura dei siti industriali. Principalmente ci si è
mossi per la conservazione della memoria: si sono costituiti repertori fotografici d’autore, esiste una
una gamma di interventi di salvaguardia e di riuso, con una casistica di siti, opifici e architetture;
archivi e nuclei di documentazione. Inoltre occorre ricordare il miglioramento e l’aumento di
organizzazioni e fondazioni che si occupano della salvaguardia in questo campo.
Persino sono stati realizzati eventi nei luoghi dell’archeologia industriale, che sono diventati sfondo
a presentazioni commerciali di prodotti vari, a manifestazioni artistiche o esposizioni fotografiche,
nonché scenografie di film di successo.
Dal momento della sua nascita, l’archeologia industriale ha incontrato e tuttora incontra difficoltà
nella definizione del proprio oggetto di studio e della propria metodologia; da un lato
coinvolge la storia dell’architettura e del paesaggio, dall’altro ha delle affinità con la tecnologia, la
sociologia, l’economia e la storia.
Risulta difficile mantenere quindi l’equilibrio tra due tentazioni entrambe molto forti ossia quella
che vede l’archeologia industriale come supporto di una storia universale del lavoro umano e quella
che, ispirata ad una concezione riduttiva dell’industria, considera solo alcuni aspetti tradizionale
dell’industria manifatturiera per limitarsi a collezionare vecchie filande e mulini anteriori al 1850.
Naturalmente, l’interesse per un determinato reperto sarà diverso a seconda del punto di vista
dell’archeologo, dipenderà vale a dire dal fatto che questi privilegi un aspetto più che un altro,
dando una valenza più significativa all’architettura, agli elementi strutturali in senso stretto, alla
storia, alle peculiarità sociali. L’industria è un fenomeno complesso, non riducibile né alla sola
tecnologia né a meri problemi di organizzazione del lavoro e capacità di produzione. Questa stessa
complessità investe anche l’archeologia industriale, i cui risultati diventano efficaci se si inseriscono
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in un disegno di ricostruzione globale, che non prescinda dalla specializzazione, ma che al tempo
stesso rifiuti la preclusione.
Come qualsiasi altro ramo dell’archeologia, anche l’Archeologia Industriale è fondata sulla centralità
dei resti materiali e sull’osservazione in situ. Al giorno d’oggi però questa interpretazione non è
più sufficiente; l’archeologia industriale è riconosciuta come una sorta di crocevia intellettuale alla
frontiera di molte discipline (Alessandra Mazzotta), dal momento che i dati raccolti sul campo non
possono non essere messi in relazione con le vicende storico economiche e politiche del contesto
in cui sono inseriti.
L’approccio alla azione sul Patrimonio Industriale dovrebbe quindi essere duplice: da una parte
la lettura stratigrafica delle vicende legate al mondo del lavoro e dell’industrialesimo (sviluppo
tecnologico e cosi via…), dall’altra la ricerca del potenziale del bene di partecipare a nuove
trasformazioni, di essere quindi sensibile e disponibile ad un nuovo progetto, senza alterare e
cancellare la propria memoria storica.
Oggi, raggiunto un certo livello di conoscenza specifica nel settore, la linea d’azione auspicata
dagli studiosi è quella che vede il manufatto come parte integrante di un sistema a scala territoriale.
La tutela del patrimonio industriale si fonda quindi con la tutela ambientale stessa; seguendo la linea
che ha ispirato la Convention Du Paysage (Firenze, 2000) ossia l’idea di paesaggio come stratificazione
delle memorie dell’uomo, recuperando, accanto all’accezione che è propria del termine territorio o
del termine ambiente, anche quella più pregnante del paesaggio come immaginario, come sguardo,
come oggetto di contemplazione estetica.
L’archeologia industriale diventa in questo caso una nuova chiave di lettura del paesaggio per
comprenderne mutazioni e cambiamenti.
Ferma restando l’importanza dell’analisi storico-interpretativa del monumento e delle operazioni
sul campo volte al censimento di ogni valore testimoniale; è oggi necessario quindi, nel campo
dell’archeologia industriale, definire un nuovo approccio progettuale al riuso di queste
aree.
Nonostante l’intenso dibattito sul tema dell’archeologia industriale attivo ora nel nostro paese, si
nota un leggero ritardo nella definizione di obiettivi indirizzati alla salvaguardia del patrimonio
industriale e, soprattutto, nella messa a punto di strategie operative di recupero che tengano conto
della complessità del fenomeno sotto il profilo culturale.
Gli interventi di trasformazione avvengono ancora in modo parziale e incompleto o frammentario,
con progetti puntuali che raramente manifestano profondi legami con il contesto e con i reperti. La
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critica del settore si raccomanda che con il tempo gli interventi in archeologia industriale diventino
sempre più sensibili e coerenti con il valore dell’oggetto industriale stesso mirando a migliorare la
lettura del sito.
Il ritardo italiano in archeologia industriale, dal punto di vista progettuale e delle realizzazioni
di recuperi, è da ricercare nel ritardo stesso (circa 30 anni) con cui le rivoluzione industriale ha
raggiunto e attraversato la nazione.
La vocazione agricola del paese era ancora molto forte alla fine del XIX sec e i problemi politici di
organizzazione e definizione dello stato unitario sottraevano le forze allo sviluppo industriale.
Solo negli ultimi anni la locuzione ‘archeologia industriale’ sta acquisendo un significato nuovo
per il popolo dei non addetti ai lavori. Alle parole ‘archeologia industriale’ non saltano più alla
mente immagini direttamente tratte da ‘Il Capitale’ di Marx o dai racconti di Charles Dickens
come fabbriche dalle ampie navate, piene di fumo, in cui i lavoratori si affaccendavano attorno a
ingombranti macchinari.
Anzi, l’archeologia industriale sta diventando sempre più un fenomeno di massa, l’interesse
è uscito dalla ristretta cerchia di chi la studia ed è diventata oggetto di stupore e meraviglia di
molti; si è trasformata in un fenomeno estetico a cui le massa si mostrano sensibili e non
più soltanto un interesse scientifico e tecnologico di pochi addetti al settore.
Iniziano addirittura ad essere compilate le prime guide rivolte a questa nuova categoria emergente
di turisti. I maggiori siti industriali dismessi o le città con forti presenze di reperti archeologico
industriali vengono presentate proprio come si trattasse di vere e proprie città d’arte.
Sorgono, in giro per l’Italia, mille musei della tecnica e comunità locale che congestioneranno
l’attenzione del visitatore, per cui si deve approfondire non tanto la musealizzazione di edifici
industriali ma il percorso, il contesto, le relazioni che essi hanno generato e che ancora possono
sviluppare. Percorsi dentro a paesaggi industriali! Non più archeologia industriale ma sito
archeologico industriale!
La nascita di questo interesse tra i profani è legato senz’altro al tipo di riuso che sta prendendo
piede negli ultimi anni, ossia l’ecomuseo.
Secondo la definizione internazionale, l’Ecomuseo è “un’istituzione culturale che assicura in forma
permanente, su un determinato territorio e con la partecipazione della popolazione, le funzioni di
ricerca, conservazione, valorizzazione di un insieme di beni naturali e culturali, rappresentativi di
un ambiente e dei modi di vita che lì si sono succeduti”.
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L’Ecomuseo è uno specchio in cui la popolazione si guarda, per riconoscersi, dove cerca la spiegazione
del territorio al quale è legata, così come quella delle popolazioni che l’hanno preceduta. Ma è pure
un laboratorio di studio, un museo a cielo aperto, una scuola per i residenti e per gli ospiti.
Gli Ecomusei sono aree o luoghi assai diffusi, frequentati ed apprezzati, soprattutto nei Paesi nordici
e di cultura anglosassone. In Italia si stanno affacciando sulla scena solo negli ultimi anni come una
delle forme più innovative per coniugare conservazione e sviluppo, cultura ed ambiente.
Gli interventi italiani realizzati finora possono essere suddivisi a seconda dell’ampiezza di territorio
che considerano.
Una prima iniziativa consiste nel realizzare negli ex-impianti industriali i cosiddetti ‘ m u s e i d i s e
stessi ’. Ciò consiste nel sistemare all’interno di complessi opportunamente restaurati collezioni
di strumenti e documenti inerenti la lavorazione che si compiva nell’opificio stesso.
Alcuni esempi sono il Museo del Patrimonio Industriale a Bologna nei locali restaurati dell’ex-fornace
Galotti, oppure il Museo del Tessile nell’ex cimatoria Campolmi di Prato.
Un’altra tendenza, che ha ottenuto consensi ultimamente, è quella che vede la creazione di r e t i
museali. Queste operazioni interessano parti più o meno estese di territorio che si riconoscono
nella formazione di ‘reti ‘ museali essendo articolate da sistemi di oggetti fra loro interconnessi.
Molto spesso queste reti, interessando anche ampie parti di territorio, si trasformano in ecomusei
con l’intento di salvaguardare la complessità e le stratificazioni di ambienti che hanno subito forti
trasformazioni antropiche. In questi sistemi l’aspetto della valorizzazione storica viene fortemente
legato a quello della valorizzazione dell’ambiente e del paesaggio in particolare di quello caratterizzato
dall’azione umana.
A questa categoria appartengono il Museo Territoriale e dell’Industria Vicentina oppure l’ Ecomuseo
di Argenta e Parco del Delta del Po. La regione Piemonte costituisce un caso particolarmente felice
di ‘infrastrutturazione museale’ del territorio; qui infatti, grazie a leggi regionali particolarmente
favorevoli è potuto nascere l’Ecomuseo della Provincia di Torino.
Altrove si agisce attraverso la realizzazione di parchi tematici, questo avviene soprattutto
nel caso del recupero paesaggistico di zone che hanno subito spinte trasformazioni dalla mano
dell’uomo; ad esempio siti minerari e cave di estrazione. Ambienti che ora necessitano di ritrovare
un equilibrio ed un identità propria, evitando l’abbandono e la trasformazione in discarica abusiva.
In Toscana, il parco-museo minerario di Abbadia S. Salvatore, quello minerario naturalistico di
Gavorrano e quello archeo-minerario di San Silvestro sono ottimi esempi di questa iniziativa. Altri
esempi si trovano in Valle d’Aosta e la Sardegna.
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Percorrendo l’Italia si trovano anche esempi di recupero grazie a fondazioni d’arte o m u s e i
d’arte contemporanea, in questo caso gli ampi spazi delle ex fabbriche ben si adattano ad
diventare cornici suggestive di capolavori anche di grandi dimensioni. Esempi ormai noti: la centrale
elettrica Montemartini a Roma, che tra turbine e macchine perfettamente restaurate ospita statue e
basso rilievi dai Musei Capitolini; oppure la Fondazione Burri negli antichi essicatoi del tabacco della
Città di Castello.
In altri casi si è agito instaurando funzioni specifiche come poli scientifici e tecnologici, o tramite
consorzi commerciali o artigianali, non mancano scuole, biblioteche, centri per la cultura.
Molto più vasto e differenziato appare il panorama di interventi all’estero, soprattutto nei paesi Nord
Europei, dove valorizzazione e riuso consapevole di siti industriali sono sentimenti collettivi ormai
consolidati. I governi stessi, con speciali piani di sviluppo, perseguono questi obiettivi impegnandosi
in una sistematica riqualificazione dei reperti industriali. Comprensibile se si considera che questi
paesi hanno vissuto la rivoluzione industriale in anticipo sull’Italia, e di conseguenza anticipatamente
hanno sviluppato la sensibilità e coscienza verso le problematiche della salvaguardia.
Queste soluzioni sono però finora state attuate solo in città a salvaguardia di grandi complessi
ex-industriali; rimangono ancora esclusi da sistematiche operazioni di valorizzazione i piccoli opifici
e le manifatture che punteggiano il territorio e che spesso appartengono alla primissima fase di
industrializzazione.
Non è facile reperire esempi della prima epoca industriale, nella loro forma ancora originale, poiché
spesso sono stati ‘aggiornati ’ oppure sono caduti in disuso e in rovina prima di diventare oggetti
di studio dell’archeologia industriale. Questi esempi sarebbero testimonianza della nascita della
fabbrica con una forma architettonica propria, svincolata dagli stili accademici, con preoccupazioni
puramente funzionali. Solo successivamente subentrò l’uso che gli edifici industriali rispettassero i
canoni estetici in voga al momento e soltanto dopo un secolo si tornerà al funzionalismo.
Bisogna ricordare che in Italia un movimento tecnologico come quello britannico, per ampiezza e
periodo storico, non ha avuto luogo: la grande industrializzazione in questo paese, e segnatamente
in Emilia-Romagna, è arrivata solo molto più tardi.
Una volta giunta in Italia, la diffusione dell’industria ha seguito un percorso a suo modo originale e
unico, forse, in Europa; così lo descrivono Massimo Tozzi Fontana, Enrico Chirigu (funzionari IBC)
all’ultimo congresso del TICCIH: ‘puntiforme se visto sulla carta, non geograficamente omogeneo’,
‘senza scatenare rivoluzioni, ma che ha introdotto l’innovazione a piccoli passi e con grandi battute
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d’arresto, facendo convivere, per lunghi o anche lunghissimi periodi, la modernità con l’arcaicità.’
La stessa affermazione è ampiamente condivisa da Pier Paolo D’Attorre e documentata nel volume
‘Archeologia Industriale in Emilia-Romagna Marche’: il parallelismo tra le due regioni nasce dal
simile sviluppo che hanno subito e che le ha portate da regioni agricole a regioni con importanti
distretti industriali. Entrambe partivano da una situazione estremamente arretrata con un economia
fortemente legata all’agricoltura, ma sono poi giunte a sviluppare distretti industriali specializzati e
altamente all’avanguardia nei rispettivi settori; comunque sempre connessi al territorio.
Comprese le dinamiche e i modi con cui il fenomeno industriale ha percorso tutta la penisola,
diventa necessario sviluppare e ampliare il campo d’azione considerare cioè i temi della storia del
lavoro lasciati in ombra dall’azione conoscitiva fin qui intrapresa; bisogna volgere l’attenzione a
manufatti meno noti, di dimensioni più ridotte, magari databili ad epoche lontane, dai luoghi che
sono stati teatro di industrializzazione precoce, le cui vestigia, nel corso del tempo, sono andate
quasi interamente perdute.
Le diverse regioni hanno seguito un approccio diverso alla catalogazione e conservazione del
patrimonio industriale.
Per prima la regione Umbria ha avviato una campagna per la catalogazione dei resti industriale (fin
dal 1982) e per far fronte alla mancanza di una scheda fornita dall’Istituto Centrale del Catalogo, ha
appositamente formulata un modulo utilizzabile sia per l’inventario che per l’analisi dettagliata dei
monumenti e dei siti archeologico - industriali.
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premesse storico-tecnologiche
allo studio di una fornace Hoffmann
l’evoluzione tecnologica
Le fornaci per la cottura dei prodotti ceramici non sono certo una invenzione moderna.
Le prime ceramiche Cinesi infatti erano cotte in fornaci composte da una serie di camerelle
sovrapposte scavate nel lato di una collina. La camera più in basso, ai piedi dell’altura, veniva
accesa per prima così che il calore della combustione salendo verso l’alto riscaldasse già l’aria delle
camere sopra. Allo stesso modo, quando il processo di cottura in una camera della fornace era
terminato, la temperatura era automaticamente abbassata dall’aria fresca risucchiata dall’esterno,
che contemporaneamente si pre-riscaldava prima di entrare nella camera sovrastante in cui intanto
era iniziata la cottura.
I primi laterizi, intesi come elemento architettonico, impiegati dall’uomo risalgono al 4000 a.C. ; le
“ziggurat” in Mesopotamia erano costruite con mattoni allo stato “secco”; per i primi mattoni cotti si
dovette attendere ancora un millennio, il 3000 a.C. circa.
Il processo di sviluppo della tecnologia di cottura è stato molto lento e graduale, non subì infatti
rilevanti modifiche fino ad un secolo fa, quando l’introduzione della macchina a vapore nel ciclo di
produzione del mattone segnò una svolta.
Da questo punto, seguire le dinamiche dello sviluppo della moderna tecnologia utilizzata per
la cottura dei mattoni non è un’impresa facile. Con l’industrializzazione si moltiplicarono i testi
a carattere tecnico-scientifico che circolavano nelle scuole e nei cantieri d’Europa, per cui le
innovazioni e le sperimentazioni che apportavano miglioramenti agli impianti esistenti procedevano
parallelamente nei diversi Paesi. Tali pubblicazioni, come la traduzione della Stigler, o i manuali del
Carena, del Reveré e del Corti, giunte fino a noi conservate nelle biblioteche delle più prestigiose
scuole di ingegneria, ci permettono di ripercorrere le tappe salienti e di conoscere nel dettaglio il
funzionamento, la diffusione e le caratteristiche dei diversi tipi di impianto.
La situazione tecnologica doveva essere estremamente variegata sul territorio europeo: accanto
a sistemi sperimentali perfettamente organizzati che parevano illustrazioni viventi tratte
dall’Encyclopedie, convivevano situazione molto più arretrate. Spesso il fronte di avanzamento della
tecnologia del laterizio corrispondeva con quello della rete delle infrastrutture. La presenza di una
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rete di trasporti efficiente infatti, che permettesse una distribuzione capillare del prodotto a prezzi
non elevati, fu la condizione necessaria affinché l’industria dei laterizi diventasse stabile in un luogo
e iniziasse a percorrere le tappe del progresso alla ricerca di un risultato sempre più raffinato e
omologato.
Avvalendomi degli studi e delle classificazioni fatte dall’ing. Adolfo Carena per la stesura del suo
manuale “L’industria dei Laterizi” del 1911 e della ristampa riveduta ed ampliata del 1923, in questa
sede mi limito a dare una breve panoramica della situazione europea per quel che riguarda la cottura
dei laterizi. Rimando, pertanto, ai testi in bibliografia per una trattazione più completa.
Come lo stesso Carena, cercherò di tracciare una linea di evoluzione delle fornaci, il più diretta
possibile, dalle tecniche più arcaiche di cotture fino al forno Hoffmann, omettendo passaggi, anche
se importanti, non direttamente collegati dal punto di vista tecnologico o morfologico, per non
appesantire o distrarre da quelli che sono i passaggi fondamentali.
Per schematizzare possiamo suddividere le fornaci in tre grandi categorie a seconda del loro
funzionamento:
. intermittenti
. cottura allo scoperto o in pignoni;
. forni provvisori di campagna;
. forni a fiamma orizzontale, tipo Cassel;
. forni anulari parziali semplici;
. forni a fiamma rovesciata (per la cottura della ceramica);
. semicontinue
. vari tipi di forni accoppiati
. forni anulari parziali doppi
. continue
. con zona del fuoco mobile e materiale da cuocere fissi: forni anulari tipo Hoffmann,
(forni anulari del tipo normale, a tiraggio inferiore o superiore; forni anulari interrati senza
volta; forni raccorciati, o a zig-zag; forni a camere);
. con zona del fuoco fissa e materiali da cuocere mobili: forni a canale.
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Cottura allo scoperto o in pignoni
Fin dall’antichità era usanza produrre i mattoni e i
materiali fittili direttamente in cantiere, nei pressi del sito
dove si stava costruendo. Si utilizzavano per questo “forni
monouso” realizzati con i pezzi, già formati ma ancora
crudi, disposti in cataste, dette anche pignoni.
Questa pratica, che permetteva di risparmiare le spese
per il trasporto del materiale finito, rimase in uso fino
all’introduzione dei mezzi di trasporto a vapore, più
economici e veloci.
In Europa la cottura in pignoni era già in disuso a metà
del XIX sec, veniva praticata solo per cantieri di grandi
dimensioni e territorialmente isolati. In Italia invece era
ancora largamente utilizzata quando il Carena compilò la
prima edizione del suo manuale, nel 1911. Nella prefazione
al testo, l’autore stesso si augura che la sua opera incoraggi
gli imprenditori locali ad intraprendere la strada verso
l’innovazione e lo sviluppo moderno di un settore così
fondamentale ma che in Italia era ancora arretrato mentre
in Germania sta va già compiendo passi enormi.
Nella nostra zona, la Bassa Romagna questo sistema
trovava largo uso anche grazie all’ampia reperibilità di
buona argilla da laterizio sulla quasi totalità del territorio.
Questo fattore limitava la spinta verso l’impiego di impianti
più evoluti.
A volte avvenne che i forni provvisori costruiti nei pressi di
importanti cantieri, al termine dell’opera si trasformassero
in fornaci stabili; così successe a Bagnacallo.
A Mezzano invece la fonace fu costruita per alimentare
il cantiere del grande zuccherificio Eridania, ma a lavori
ultimati rimase come manifattura autonoma.
I pignoni erano grandi mucchi di mattoni appoggiati al
forno a catasta rudimentale
forn o a catasta di tipo più evoluto
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terreno, di circa 8 x 8 o 10 x 10m, incassati di circa 80-100cm nel suolo. I mattoni crudi essiccati
si disponevano in muretti paralleli lasciando tra essi dei cunicoli per il passaggio dei fumi prodotti
dalla combustione. Questi muretti venivano raccordati con volte, sulle quali si continuava a disporre
materiale crudo fino ad ottenere catasta dell’altezza di 6-7m dal livello del suolo che poi veniva
rivestita da uno strato di 50cm di mattoni e spesso anche intonacato con malta di argilla, per limitare
le dispersioni termiche. Il combustibile, principalmente legna, veniva immesso dalle aperture lasciate
in corrispondenza dei cunicoli interni. La fine del processo di cottura veniva giudicata dall’occhio
esperto degli operai in base al ritiro volumetrico della catasta per la perdita di acqua.
La cottura con questo sistema non assicurava una distribuzione uniforme del calore nell’ambiente
chiuso per cui i laterizi non presentavano tutti la stessa qualità, vi era un forte scarto di materiale.
Inoltre i tempi di cottura e raffreddamento erano molto lunghi e quindi molto elevati i costi in
termini di combustibile. Inoltre presentava l’inconveniente che la struttura, per così dire “usa e
getta” doveva essere riallestita ad ogni ciclo di cottura.
F o r n i p r o v v i s o r i d i c a m p a g n a
o forni a camera
I forni di campagna, dal punto di vista tecnologico,
appartengono ancora alla categoria ‘forni intermittenti’, ma
a differenza dei pignoni, anche se estremamente semplici,
sono un primo passo verso un impianto stabile.
I più comuni erano strutture a base quadrangolare,
caratterizzati da grosse mura perimetrali a cui spesso
venivano addossate masse di terra per aumentare l’inerzia
termica e da una copertura lignea a falde sorretta da
pilastri anch’essi in muratura. Quando era possibile il
forno era realizzato ipogeo, interamente scavato nella
terra. La camera di cottura, realizzata con muri a scarpa
dallo spessore di 2m della base e 0.9m all’estremità, veniva
riempita con i mattoni crudi, anche in questo caso disposti
su muretti paralleli, tra i quali venivano allestiti i focolari.
A copertura dell’ultimo filare di laterizi crudi, venivano
realizzate voltine, poi si copriva con uno strato di argilla di
10-15cm di spessore a cui erano praticati fori per migliorare
il tiraggio. Il fuoco si manteneva acceso a temperatura
moderata per un paio di giorni, successivamente si
forno di campagna
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sigillavano le bocche con mattoni e malta e si lasciava raffreddare lentamente prima dello
sfornaciamento.
La fornace di Compignano, Marscaino
(PG)
Un esempio conservato, restaurato e
visitabile di forno di campagna.
L’antica fornace di Compignano è stata interamente restaurata nel 2002 e rappresenta una delle
rarissime testimonianze dell’antica arte dei fornaciai, molto diffusa nel passato e tanto importante
per l’economia del territorio. Accanto ai due forni preesistenti ne è stato costruito uno nuovo, con
la capienza di circa 1.000 pezzi, per poter fare dimostrazioni dei metodi manuali con cui i fornaciai
di Compignano costruivano i mattoni d’argilla. L’ultima rievocazione storica dell’antica tecnica di
costruzione del mattone, dalla preparazione dell’impasto al riscaldamento del forno fino alla cottura
della terra, risale al settembre 2004, grazie alla passione di Giancarlo Bertolini, rinomato fornaciaio
della zona. La fornace, dopo il restauro, è meta di un crescente numero di scolaresche, turisti e
curiosi ed è visitabile anche di sera, grazie all’illuminazione alimentata da pannelli solari.
I forni fin qui descritti sfruttano una fiamma diretta dal basso verso l’alto con la diretta conseguenza
e svantaggio, che gli strati inferiori di materiale in cottura vengono sottoposti a temperature più
elevate di quelli ai piani alti. Questo comporta una cottura eccessiva del laterizio, con possibile
vetrificazione, nonché la deformazione di quelli disposti alla base dei muretti per l’eccessivo peso
che sopra vi grava.
Il primo tentativo per dare soluzione a questo problema fu l’impiego di un sistema con f i a m m a
orizzontale, altrimenti detto forno Cassel.