4
Peter Gabriel intuisce l’importanza di un concetto antropologico come
quello di posizionamento elaborato da Renato Rosaldo nel 1989: i contributi
provenienti da una strategia di ri-posizione permettono all’oggetto, e nello
stesso tempo al soggetto stesso, di essere definito in maniera diversa.
Concetti fluidi come quelli di suono e rumore, di cui non esistono chiavi di
definizione univoche, o come quello di improvvisazione, in cui nemmeno
l’antropologo riesce a penetrare, non potrebbero altrimenti essere definiti e
probabilmente nemmeno concepiti.
La musica è uno spazio fluido, e per questo ha bisogno di strumenti
concettuali consoni alle sue caratteristiche di indeterminatezza concettuale
e, mai come ora, con le nuove tecnologie a portata di mano dei compositori,
perfino fisica.
5
Parte prima
Elementi di antropologia musicale
1.1 – Il contributo dell’antropologia della musica
La definizione che Alan P. Merriam
1
attribuisce alla musica nel libro
Antropologia della musica è quella di “elemento che si aggiunge alla
complessità del comportamento umano” (1964: p.16).
I processi di elaborazione e di creazione che la figura del musicista adopera
durante il lavoro di composizione, all’interno di una determinata società,
possono aiutare a definire meglio i flussi culturali che scorrono all’interno
della stessa. Ma è la percezione stessa del concetto di musica, che
racchiude in sé una caleidoscopica dimensione di possibili definizioni, a
rendere visibili al ricercatore analogie con altri comportamenti e
manifestazioni sociali; attraverso i quali è possibile tracciare le linee di un
quadro interpretativo generale della cultura a cui ci si intende avvicinare.
Scrive Merriam:
[…] il suono musicale è il risultato di comportamenti umani la cui forma è
determinata dai valori, dagli usi e dalle credenze di un popolo. Il suono musicale non
può che essere prodotto da determinati individui per altri individui e sebbene i due
gruppi di persone possano essere separati concettualmente, l’uno non si comprende a
prescindere dall’altro. […] Il comportamento sta alla base della produzione del
suono musicale, cosicché lo studio dell’uno deve sfociare in quello dell’altro (1964:
p.24).
La musica quindi non possiede un’esistenza propria, è un prodotto
dell’essere umano, è manifestazione esterna di giacimenti culturali
sedimentati all’interno di una singola coscienza; essa trova la sua
legittimazione nel momento collettivo; quando, cioè, la società esterna
1
Alan P.Merriam è nato a Missoula, nel Montana, nel 1923. E’ morto a Varsavia nel
1980. Ha insegnato Antropologia alla Northwestern University, alla Universisy of
Wisconsin e alla Indian University. Tra le sue opere più famose, oltre a The
Anthropology of Music (1964), anche Ethnomusicology of the Flathead indians
(1967).
6
sancisce come propria la composizione, in quanto ne riconosce (e si
riconosce) nei caratteri che la distinguono.
Ciò non proibisce che simili meccanismi di ‘riconoscimento’ possano
avvenire anche tra culture differenti. Leonard Meyer, ad esempio, sostiene,
pur riconoscendo la diversità dei linguaggi musicali, l’esistenza di
“caratteristiche musicali che sembrano essere universali: in quasi tutte le
culture, per esempio, l’ottava, la quinta e la quarta vengono considerate
delle tonalità stabili verso cui tendono tutte le altre combinazioni sonore”
(cit. in Merriam: p.29).
Robert Morey, nel 1940, con un esperimento presso la scuola missionaria di
Holy Cross (a Balahum), nel quale annotò le reazioni di alcuni africani
durante l’ascolto di musiche di Schubert, Wagner e di altri celebri
compositori classici, si rese conto di come le espressioni di emozioni tipiche
della civiltà occidentale non avessero ottenuto riscontro analogo nei ragazzi
africani: nessuno dei tratti tipici che le opere esprimevano (come la paura, la
rabbia, l’amore o la riverenza) fu riconosciuto in maniera significativa da
una cultura non-occidentale, quindi esterna a quella in cui erano state
prodotte queste composizioni.
Come vedremo la questione non può essere risolta su questo piano
d’indagine in quanto le differenze tra composizioni musicali di culture
diverse non possono essere analizzate seguendo i canoni occidentali di
estetica o di funzionalità. Come sostiene Francesco Giannattasio, l’impatto
con le culture extra-occidentali ha messo in crisi il concetto (occidentale) di
musica non solo “facendo crollare le illusioni circa la naturalità,
l’universalità e l’immortalità dell’arte delle Muse, ma ponendo anche serie
ipoteche sulla validità dei tratti fino ad allora considerati distintivi delle
forme e dei comportamenti musicali” (1998: pg.41).
Ciascuna cultura possiede, dunque, la propria ‘idea’ di musica, ma ciascuna
cultura può contenere anche, nello stesso tempo, differenze significative al
suo interno: è possibile trovare, in una medesima società, un ventaglio di
definizioni e di concetti che concepiscano la musica in modo anche
diametralmente opposto tra loro. Cercare un confronto a livello estetico o
funzionale significa muoversi all’interno di dimensioni diverse rispetto a
quello dell’oggetto di studio che si tenta di comprendere, col rischio di
trovarsi di fronte a dati e conclusioni contrastanti se non addirittura
contraddittori.
7
Occorrerà far emergere il concetto di posizionamento caro a Rosaldo
2
per
riuscire a decifrare l’insieme di significati che, attraverso la musica, una
cultura comunica a sé stessa e al mondo esterno.
E’ una tragedia personale come la morte della moglie Michelle a suggerire a
Rosaldo la soluzione dall’impasse teorica in cui era precipitato non
riuscendo a definire con esattezza cosa intendessero gli ilongot, popolazione
a cui si era avvicinato per studiarne la cultura, quando per rabbia, dolore o
frustrazione provavano l’impellente quanto inesorabile desiderio di tagliare
una testa:
L’etnografo in quanto soggetto dalla posizione determinata, riesce ad afferrare
alcuni fenomeni umani meglio di altri. Lui o lei occupa una posizione o una
collocazione strutturale che consente di osservare solo da una particolare
angolazione: basti pensare ad esempio a come l’età, il genere, l’estraneità rispetto al
gruppo studiato e il fatto di essere associato ad un regime neocoloniale possano
influire su quel che l’etnografo apprende. Ma la nozione di posizione si riferisce
anche al modo in cui le esperienze di vita possono inibire o favorire particolari
forme di comprensione intuitiva.
Nel caso di cui ho parlato, non v’era nulla nella mia personale esperienza che
potesse farmi immaginare la rabbia nata da uno stato di lutto e privazione sino al
1981, anno della morte di Michelle Rosaldo. Solo allora mi trovai in una posizione
tale da riuscire a comprendere la forza di quello che gli ilongot mi avevano detto
molte volte sul dolore, la rabbia e la caccia alle teste (1989: p.59).
Le parole di Rosaldo spianano la strada verso una nuova epoca per
l’etnografia e lo studio dei cosiddetti ‘nativi’; per usare le parole di
Canevacci: “L’esperienza rabbiosa della morte spinge Rosaldo a
riposizionarsi. E nello stesso tempo contribuisce a riposizionare la nuova
antropologia
3
.”
Si vede come sia necessaria una penetrazione di carattere generale
all’interno di una determinata cultura. La nuova prospettiva di analisi può
diventare utile anche per riuscire a ri-definire la musica della nostra società
attuale, arricchita da un contributo proveniente da una diversa posizione.
2
Renato Rosaldo, professore in Scienze sociali e Antropologia culturale e sociale
presso l’università di Stanford. Tra le sue pubblicazioni: Ilongot headunting, 1883-
1974: A Study in Society and History (1980).
3
Renato Rosaldo, Cultura e verità, prefazione all’edizione italiana.
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Vediamo ora come il ricercatore, una volta divenuto soggetto ri-posizionato,
in quali aree di studi dovrà operare nella pratica.
Il lavoro dell’antropologo musicale, come per ogni altro campo di studi, può
essere suddiviso in tre fasi principali (Merriam: cfr.): la raccolta, l’analisi e
la valutazione dei dati. Le differenze principali dalle altre aree di ricerca si
trovano soprattutto nei metodi e nelle tecniche utilizzate dai ricercatori. La
competenza e la conoscenza musicale sono fattori palesemente determinanti
al fine di ottenere un lavoro metodologicamente coerente e compatto, in
grado di riconoscere la pratica musicale di una determinata cultura nella sua
singolarità. Ed è proprio la particolarità di quest’area di studi, infatti, che
può creare problemi durante l’opera di collezione dei materiali: pensiamo
alle centinaia di possibili variazioni che si possono riscontrare ascoltando il
medesimo canto all’interno di un villaggio in tempi diversi.
L’antropologo musicale deve saper registrare soltanto le variazioni che
ritiene significative, se vuole evitare un sovraccarico di materiale e di
lavoro, facile causa di dispersione interpretativa.
Si vede come diventi necessaria una competenza anche di tipo tecnico, oltre
che di tipo descrittivo; di conseguenza un’adeguata istruzione musicale sarà
un requisito fondamentale per lo studioso.
La natura doppia dell’antropologia musicale è parte integrante della sua
identità: cercare un punto d’incontro tra la musicologia, che nella sua
accezione classica ha preferito occuparsi della storia della musica di tipo
occidentale (ibidem), e l’antropologia è lo scopo a cui questa disciplina
tende, ed è soltanto perseguendo tale obiettivo sarà possibile valutarne il
contributo scientifico. Scrive Giannattasio:
[…] la storia di oltre 100 anni di studi etnomusicologici può essere anche letta come
la cronaca del passaggio di una definizione a priori di musica, basata sulle
esperienze e le categorie cognitive occidentali, a una nuova griglia interpretativa in
grado di spiegare a posteriori le profonde e reciproche alterità musicali delle diverse
culture (p.45).
Quattro sono i fattori principali che l’antropologo musicale dovrà tenere in
considerazione per la sua analisi: i tipi di strumenti utilizzati e i suoni che
essi producono, i canti, i testi e, infine, il contesto sociale dei musicisti.
Prima di affrontare questi aspetti occorre eseguire un’operazione di
carattere concettuale, ovvero cercare di definire il nostro oggetto di studio.
Assume fondamentale importanza, infatti, capire cosa sia il suono per la
nostra e per le altre culture.
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1.2 – Il confine tra suono e rumore
La musica moderna occidentale ha fatto del concetto di indefinibilità del
suono il suo nuovo cavallo da battaglia: le sempre più sofisticate tecnologie
di mixaggio e di recording hanno reso ancor più complessa la distinzione tra
suono e rumore.
Scindere la componente propriamente ‘musicale’ dal cosiddetto ‘rumore’ è
un’operazione che non solo non può essere applicata ad alcuni generi della
musica ma nemmeno è pensabile farlo se si vuole evitare di pregiudicare la
comprensione (a qualunque livello essa si riferisca, da quello semantico a
quello propriamente tecnico) del brano in esame.
La congiunzione, un tempo imminente e ora possibile, tra suono e rumore è
un obiettivo verso cui alcuni generi di musica tendono fin dalle loro prime
apparizioni storiche. Ammaliare l’ascoltatore con nuove e indefinibili
contaminazioni, mischiare lo strumento classico al suono naturale del
mondo che lo circonda, trasformare melodie e scale armoniche in suoni che
hanno perso quasi completamente la loro origine acustica; viceversa mutare
rumori che culturalmente non siamo abituati a concepire come musica in
componenti armoniche e musicali del brano. Suoni ibridi che permeano la
composizione tecnica di una lirica a tal punto che talvolta sembrano essere
proprio le note e le melodie ‘classiche’ gli elementi di disturbo. E’ il caso
dei Depeche Mode, band emblema della musica elettronica degli anni ’80,
che ha trasformato le strutture musicali di alcuni brani fino al punto da
essere la ruota di una bicicletta che gira e il rumore provocato da un paio di
forbici a costituire la struttura portante della canzone
4
.
E’ lo spazio che Canevacci definisce sprawl sincretico, incroci diasporici in
cui è “l’attraversamento sradicante” a divenire laboratorio sonico. La
metropoli e’ il nuovo spazio ibrido rimesso in discussione, il luogo in cui
musica, antropologia e architettura convivono (Canevacci 2004). Canevacci
riporta, nel suo libro, un interessante esempio di “ambito sonico multiplo”:
la celebre sequenza, presente nel film ‘Apocalypse Now”, in cui gli
elicotteri bombardano con il napalm i soldati nemici. La voce solista degli
elicotteri, accompagnata dalle urla delle mitragliatrici e da quelle degli
uomini uccisi, viaggiano nello spazio sonoro assieme alla ‘Cavalcata delle
valchirie’ di Wagner. La sincretizzazione (sporca) conduce ad uno spazio
sonoro ibrido, nuovo (Canevacci 2004: cfr.); in cui scinderne le singole
4
Blasphemous Rumors, dei Depeche Mode. Brano tratto da Some Great Reward,
album del 1984.
10
parti, opportunamente fuse, risulterebbe una modifica irreversibile
dell’interpretazione sonora che l’autore intende darne.
Vedere la cultura come stazionaria, e indagarla in tal senso, è un modo di
agire completamente fuorviante; tipico di un modello di schema mentale
viziato da una pigrizia concettuale che tende ad ‘incasellare’ ciascuna
singola entità entro ambiti prestabiliti e delimitati, perché controllabili.
E’ invece nelle zone di confine, negli incroci (criss-crossing) e attraverso il
riconoscimento di entità fluide che possono emergere le differenze: ambito
di ricerca che deve essere sostituito a quello che tende, piuttosto, a ricercare
le omogeneità.
Emblematica in tal senso può dirsi la cultura punk. Sorgente inesauribile di
segnali contraddittori, simbolo per eccellenza del vuoto, del non-senso.
Composto da una semantica interna totalmente sconosciuta e indecifrabile
(Chambers). Il punk fa del suo corpo un vero e proprio incrocio di identità e
flussi culturali, dando vita ad un ibrido contaminato dal mondo stesso in cui
vive: la svastica sotto la maglietta di Karl Marx, i vestiti e il corpo forato da
spille e piercing, tatuaggi che trasformano la pelle umana in pagine di un
libro che intende raccontare una molteplicità di storie, tutte diverse tra loro.
Scrive Iain Chambers:
Il punk era una musica decisamente etnica. Il suo crudo suono locale produceva un
‘rumore’ bianco che risultava offensivo per il pop normale quanto l’indecifrabile
monotonia del reggae, con suo basso rintronante e i suoi ritmi stoppati, risultava
misteriosa. […] I punk riattivarono inevitabilmente quel perenne contatto tra la
cultura negra e gli stili della gioventù bianca (ivi: p.35).
Con l’ascesa dei modelli più sofisticati di amplificatori e mixer la
‘personalizzazione’ del suono è diventata un’ipotesi sempre più realizzabile
e concreta. Pensiamo a cosa avviene quando ‘equalizziamo’ il nostro stereo
di casa o il nostro lettore mp3 secondo la configurazione sonora a noi più
congeniale.
Il suono diventa estendibile così all’infinito, le possibilità di allargare lo
spettro sonoro indistintamente verso tonalità sempre più basse o più alte
consentono di raggiungere gradi sonori che vanno perfino oltre a quelli che
l’orecchio umano può percepire.
La stessa tecnica del fade out applicato con il passare degli anni a sempre
più numerosi brani musicali (Michel: cfr.) è sinonimo non di conclusione
degli stessi, ma di “proseguimento indefinito nello spazio sonoro”.