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fra culture diverse: un po’ come nel nostro quotidiano, quando pensiamo che certe cose accadono
solo a noi, ma poi parlando scopriamo che non siamo da soli e ci sentiamo più forti poi per
affrontare il problema. Sono convinta che fra i paesi succeda lo stesso, solo in scala più grande. I
popoli non sempre possono confrontarsi con l’esterno e credono che tutto ciò che accade dentro i
loro confini sia l’unico modo di vivere nel bene e nel male. Una volta varcati i confini, però, il
confronto fra chi ha lasciato il proprio paese e chi ospita gli stranieri è inevitabile e spesso iniziano i
problemi di comprensione e convivenza. A questo punto la figura di un mediatore diventa
necessaria e di riflesso diventa necessario anche un collocamento preciso di tale professione nel
mondo del lavoro, dove però purtroppo la mediazione viene spesso gestita dal volontariato o viene
soppressa per mancanza di fondi
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.
Le analogie fra vari paesi, che oggi a prima vista potrebbero essere spiegate con l’effetto della
globalizzazione di fatto non dipendono del tutto da essa. In realtà questo fenomeno è diventato un
mezzo potente di ampliamento su scala mondiale di quanto invece fa parte della pura e semplice
natura umana. Facendo un rapido confronto possiamo notare che la globalizzazione ormai è
familiare a tutti, la notiamo in ogni cosa, dall’abbigliamento ai comportamenti, dall’oggettistica alle
trasmissioni tv e spesso è un termine abusato. La definizione stessa è ancora oggetto di discussione
ed è tutt’altro che scontata, ma la società è talmente bombardata da situazioni e oggetti palesemente
omogenei che di conseguenza si perde l’essenza di questo fenomeno. Ad esempio, chiunque abbia
viaggiato un po’ nota subito che molti degli articoli di uso comune come i souvenir e i beni di
consumo sono gli stessi ovunque: dall’Europa Occidentale a quella Orientale ai paesi oltreoceano.
Così il turista rimane deluso imbattendosi negli stessi oggettini ricordo (pupazzi, magliette,
portachiavi, palle di vetro, magneti da lavagna), ormai privi di fascino perchè tutti uguali, tranne per
una scritta e una foto diversi, senza alcuna peculiarità locale e quasi tutti prodotti in quantità
industriale, spesso MADE IN TAIWAN o IN CHINA. Non mi addentro nella vita quotidiana dove
nemmeno ci facciamo più caso ai prodotti e beni di consumo universali.
La televisione è un altro specchio dell’uniformità a cui andiamo incontro: in ogni paese
ritroviamo gli stessi reality show, le stesse trasmissioni strappalacrime che sfruttano i disagi e le
tragedie umane più o meno autentiche, gli stessi quiz, lo stesso modo di presentare i telegiornali, per
non parlare di innumerevoli telefilm, telenovele, soap opera, che non solo si trasmettono all’estero
in forma originale, ma vengono anche copiati (un esempio per tutti: la serie italiana RIS è
palesemente la riproduzione dei vari CSI e NCIS americani, i serial basati sul lavoro delle squadre
scientifiche in casi di omicidio).
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Fra i molti esempi di cui sono a conoscenza, riferisco un solo fatto recentissimo (dicembre 2007): una scuola materna
di Monfalcone in provincia di Gorizia, con un’altissima percentuale di bimbi stranieri provenienti dall’Europa orientale
e dal Bangladesh, ha dovuto sopprimere il servizio di mediazione a causa della mancanza di fondi.
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In generale, l’atteggiamento della società si sta uniformando e diventano importanti i futili
“problemi esistenziali” come i cellulari o i vestiti firmati, e cambia persino l’aspetto delle città
uniformandosi con il resto del mondo. Per fare un esempio a me vicino
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, ecco che in Serbia
spariscono i tipici chioschi di ghiottonerie locali (i semi di girasole arrostiti, pattate fritte fresche,
girice (pesciolini di fiume fritti avvolti in semplice carta bianca), e si trovano invece ristoranti di
fast food; sono cambiate le farmacie, sono nati i bar e i pub, persino i negozi cinesi sono spuntati
ovunque. Nascono situazioni comiche come il lettore ottico per i prezzi nell’unico negozietto in un
paese di campagna in mezzo ai campi e allevamenti di pecore, con un’unica strada asfaltata e
quattro pali della luce, senza una scuola per mancanza di bambini e con la popolazione che si aggira
a venti anime, quasi tutte ultra sessantenni. Non è la terra che ho lasciato diciassette anni fa. Mi
sono trovata a camminare nella mia città di recente dopo moltissimi anni di assenza e se non avessi
saputo dove mi trovavo, avrei potuto credere di essere in qualsiasi altra città europea.
Insomma, sotto molti aspetti questo processo inarrestabile ci fa tutti un po’uguali e rischia di
farci perdere la propria identità, modifica le esigenze e priorità del singolo, stravolgendo la scala dei
valori. Per quanto ormai diffuso e accettato, l’effetto della globalizzazione rimane qualcosa che ci
viene imposto dall’alto, dall’esterno e volenti o nolenti tutti ne siamo influenzati. E per uno strano
motivo, sembra si sia persa l’idea guida di questo fenomeno che può trovare origini molto lontane:
la volontà di stabilire i punti di interesse globale per passare poi a quello nazionale
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. In chiave più
moderna, la globalizzazione viene vista come
“…traiettoria verso l’uniformità sistemica, quindi, che non significa la fine delle differenze ma la loro
integrazione ed armonizzazione”.
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Il punto è che noi SIAMO tutti un po’ uguali, ma ce lo dimentichiamo crescendo, influenzati
dai contesti socio-culturali e politici. I bambini ce lo dimostrano: loro giocano ovunque in modo
molto simile e quando si ritrovano insieme ai bambini una nazionalità diversa, non hanno problemi
di comunicazione e riescono a entrare presto in sintonia. In seguito invece, crescono e assimilano le
nozioni dall’ambiente circostante, sentono la diversificazione e da uomini lottano in nome di queste
differenze. Il bisogno di appartenenza verso la società è uno dei componenti fondamentali
dell’individuo che si sente più protetto e soddisfatto all’interno di un gruppo (in senso generico).
Partendo dal presupposto che l’individuo può essere inteso come singolo o come un’entità compatta
all’interno di un organismo più grande (etnia - stato), esso vuole mantenere la propria identità con le
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Sono nata e cresciuta in Serbia a Požarevac
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Cfr. Saint-Simon C.-H. “Della riorganizzazione della società europea” in Opere, UTET, Torino 1975
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Salamone N., Il disincanto del mondo – Traiettorie della globalizzazione, ed. FrancoAngeli, Milano 2006, pag. 69
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sue peculiarità, il che spesso lo porta alla lotta sia che si tratti di affermazione propria, di espansione
e dominio verso gli altri, sia che si tratti di difesa. La guerra è uno degli aspetti innati dell’uomo ed
è il concetto sul quale mi soffermerò brevemente in quanto fondamentale per il movimento pacifista
delle DiN.
Paradossalmente,
“…mentre la pace è ardua da definirsi senza chiamare in causa la guerra, e di essa si può dare anzitutto una
definizione al negativo (pace cioè come assenza di guerra), è invece la guerra che può definirsi anche senza chiamare in
causa la pace.”
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Analizzando le cause delle guerre si può notare che tutte hanno alcuni denominatori comuni:
la difesa dell’identità nazionale, del territorio, delle risorse naturali e delle caratteristiche personali,
della propria lingua, della cultura, della religione. Gli storici confermano che la guerra nella storia
ha svolto il ruolo di primissimo piano nei più svariati campi: in quello sociale, economico, politico,
tecnologico, religioso, letterario e artistico. Dal punto di vista antropologico è risaputo che ci sono
intere civiltà basate sulla guerra, non solo per soddisfare i bisogni primari, ma anche con lo spirito
di perpetuarla. Prese singolarmente, le parti in causa difendono le proprie convinzioni belliche
ritenendole autentiche e più giuste se paragonate agli altri conflitti, ma in realtà non ci sono
eccezioni: è dimostrato che la guerra ha toccato almeno una volta i paesi benestanti e quelli poveri;
terre ricche di risorse e paesi desertici e aridi, dove molti di noi non andrebbero mai a vivere
nemmeno se ci fosse la pace eterna; la guerra è sempre stata presente ovunque, dai tempi antichi ai
tempi moderni e contemporanei. Il fatto che ogni guerra porti terrore, distruzione, morte e profondi
disagi nell’immediato periodo post bellico non ha impedito il ripetersi di questi massacri. Invece di
diminuire le guerre sono aumentate e “grazie” al progresso sono diventate ancora più crudeli e
subdole: le armi nucleari e quelle biologiche ne sono l’esempio più evidente.
Un’altra peculiarità delle guerre nel complesso è il fatto che vengono fatte generalmente dai
maschi, il che richiama il loro istinto primordiale: la difesa del territorio, della propria femmina,
l’espansione del territorio per la caccia e la protezione del bottino.
E le donne? In guerra sono le prime a subirne l’urto diventando proprio un “bottino” per
un’altra triste “consuetudine”. Non solo: la storia delle donne ci dimostra che esse sono un’eterna
merce di scambio: persino oggi in molti paesi in tempi di pace esse vengono letteralmente vendute
ai mariti in cambio di vantaggi economici e sociali, o ai malviventi per traffici illegali
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come per
esempio capita in Albania. La guerra esaspera la condizione femminile. Da combattenti devono
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Cfr. Cardini F., Prefazione, in Quell’antica festa crudele – Guerra e cultura della guerra dall’età feudale alla grande
rivoluzione, Sansoni Editore Nuova S.p.A, Firenze 1982, Pag. 3
8
Cfr. Don Oreste Benzi, Prostitute – vi passeranno davanti nel Regno dei Cieli, Mondolibri, Milano 2001
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dimostrare di valere di più, devono essere più brave, a volte più spietate e crudeli degli uomini, per
essere considerate a pari livello ed evitare la discriminazione. In sostanza, è lo stesso meccanismo
del mondo del lavoro in tempi di pace: le donne spesso vengono sottovalutate in partenza e quindi
devono dimostrare di più per essere considerate alla pari, pena le pressioni di vario genere. Spesso il
solo fatto che potrebbero rimanere incinte le penalizza in fase di assunzione.
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La complessità delle situazioni in guerra è elevata all’ennesima potenza.
In caso di prigionia le donne sono le prime a essere sacrificate negli scambi di prigionieri e
comunque ci rimettono molto di più rispetto agli uomini per semplice fatto che sono sempre in
agguato lo stupro e le uccisioni.
Nemmeno per coloro che riescono a rimanere a casa l’esistenza è più facile. Durante l’attesa
che i loro uomini tornassero dalla guerra, tutto crolla sulle loro spalle: i figli, la casa, i campi, la
difficoltà a sopravvivere nella miseria. Si devono difendere dall’eventuale nemico, ma anche dai
falsi amici e finti benefattori che approfittando delle difficoltà ricattano e sfruttano le donne per i
propri comodi in cambio di cibo o di medicine. Un’esistenza impregnata nella costante paura per i
propri cari in guerra e per quelli a casa, nel terrore di vedersi portare via i figli e le persone amate,
nella paura per se stesse nella consapevolezza di poter diventare l’oggetto di conquista e soprusi di
ogni genere: da esseri umani vengono trasformate in merce di scambio, vengono usate per ricattare
la controparte, stuprate per “contaminare il sangue del nemico” o per semplice sfogo del singolo o
del branco, per quel concetto distorto e perverso del “maschio potente conquistatore”. Ma il peggio
consiste in quella violenza velata e invisibile che incrementa il numero delle vittime. E’ la violenza
dell’anima, peggiore delle altre perché le donne ferite la ritrovano a casa, proveniente dalle persone
amate e protette, per le quali hanno fatto enormi sacrifici. Sono proprio i mariti, i padri, i fratelli e a
volte persino i figli che una volta tornati dalla guerra e scoperte le violenze subite dalle loro donne,
invece di rincuorarle e amarle, incrementano quelle torture: spessissimo le ripudiano e bandiscono
in quanto diventate “impure”, arrivando persino ad ucciderle. Ai loro occhi quelle povere vittime
hanno il torto di “non essersi ribellate”, “di essere sopravvissute, quando avrebbero dovuto
suicidarsi pur di non darsi al nemico”. E per chi rimane incinta a seguito allo stupro è ancora
peggio: nessuna pietà né per loro né per il piccolo nascituro che è veramente l’unico a non aver
colpa alcuna.
Ed è così che ritorniamo alle DiN, donne che sono diventate il ponte di comunicazione tra
diverse nazioni e culture, come potrebbero essere proprio Israele e la Serbia: paesi diversi e lontani
sotto molti punti di vista eppure così vicini e simili nelle proprie difficoltà esistenziali e nelle azioni
delle loro donne.
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Per esperienza personale, diverse volte ho ottenuto il lavoro per il fatto che ero single e senza progetti di matrimonio e
figli a scapito delle altre candidate.
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I
ISRAELE, CISGIORDANIA, GAZA
All’origine del ponte di solidarietà
Gennaio 1988, Piazza Parigi
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a Gerusalemme ovest. Sette donne israeliane vestite di nero.
Un incontro in silenzio. Non si tratta di sette donne qualunque: una di loro è la femminista e
pacifista Hagar Roublev. Erano lì, in quella piazza, per esprimere la loro dissociazione dalla scelta
del governo israeliano di occupare militarmente la Cisgiordania e Gaza. Forse non immaginavano
affatto che quel gesto avrebbe dato il via alla formazione di un movimento internazionale. Un gesto
coraggioso ed estremamente significativo, in quanto la loro protesta non si limitava al loro paese,
alla pace delle loro famiglie in senso stretto, ma era per il bene di tutti, soprattutto della popolazione
sottomessa duramente proprio da Israele in Cisgiordania e Gaza. Ma perché si era arrivati a tanto?
Perché quei soprusi? Cosa aveva spinto queste donne alla protesta?
La questione è molto complessa e uno sguardo rapido (per quanto possibile) ai fatti storici
che hanno portato queste donne a manifestare ci aiuterà ad evidenziare alcune analogie con la
situazione della ex Jugoslavia, e in particolare della Serbia, per ricollegarci alle DiN di Belgrado.
Proprio per la complessità delle vicissitudini e del modo in cui il movimento ha conquistato il
mondo non è possibile lavorare per compartimenti stagni concentrandosi solo su un singolo stato e
un singolo ramo dell’organizzazione. Volendo, si potrebbe analizzare ogni paese dove le DiN
operano e si troverebbero molte analogie nelle rispettive problematiche, proprio a riprova di quanto
ho esposto circa la natura umana. Tuttavia, non essendo questa la sede per uno studio così vasto mi
limiterò ad esporre quanto riguarda i due paesi citati.
Israele è sempre stato un luogo difficile, ancora prima di esistere come stato. Quest’area
stretta tra Egitto e Mar Mediterraneo a ovest, Transgiordania e Siria ad est e Libano a nord, abitata
da varie popolazioni, è il luogo dove sono nati sia l'Ebraismo che il Cristianesimo e contiene molti
luoghi di grande importanza spirituale per ebrei, cristiani e musulmani: il Muro Occidentale per gli
ebrei, il Santo Sepolcro e la Basilica della Natività per i cristiani e la Spianata delle moschee per i
musulmani. Gli ebrei hanno sempre considerato Israele come loro patria, Terra sacra e promessa, e
oggi condividono il territorio con gli arabi che per un lunghissimo periodo erano in maggioranza.
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Questa piazza, originariamente Paris Square, dopo la morte di Hagar Roublev (21 Agosto 2000) diventerà Hagar
Square.