3
di Salerno». La discussione e la polemica intorno a tale “atto” non si sono
ancora placate, e forse non del tutto a torto perché si tratta di una decisione
che ha segnato profondamente la storia della Resistenza italiana
1
.
Il PCI, passato attraverso il VII congresso del Komintern (1935) e la
politica dei “fronti popolari”, era un partito che si avviava, sotto la guida di
Palmiro Togliatti, ad assumere le vesti come fu detto, di un «partito
nuovo», di massa, impegnato a realizzare la «democrazia progressiva»
quale via italiana al socialismo. La politica adottata dal PCI nella
Resistenza era incentrata sull’obiettivo di una partecipazione intensa delle
forze popolari, guidate dalla classe operaia e dal suo partito, alla comune
battaglia antitedesca e antifascista in tal modo da acquisire quella capacità
per imporre profonde riforme di struttura che si sarebbero collocate nella
direzione del socialismo. Era ritenuto pertanto necessario non isolarsi su
posizioni meramente classiste, ma porsi invece al centro di un vasto sistema
di alleanze : innanzitutto con il PSI, in nome appunto dell’unità di classe;
poi, in nome dell’unità delle sinistre (motivo tenuto peraltro piuttosto in
sordina), con il Pd’A; poi ancora con la DC, nella prospettiva di un governo
basato sui tre partiti di massa e dell’incontro, da privilegiare, fra comunisti
e cattolici; alleanza infine con i liberali, gli sbiaditi demolaburisti e, al di là
e tramite questi due partiti, anche con le forze che rappresentavano
l’apparato politico, amministrativo, militare del vecchio Stato, purché
disposte a venire sul terreno dell’unità nazionale nella lotta contro i
tedeschi. Questo tenace perseguimento dell’ “unità” ebbe il suo episodio
fondamentale ed emblematico nella cosiddetta «svolta di Salerno» che
1
ERNESTO RAGIONIERI, Il Partito Comunista, in LEO VALIANI-GIANFRANCO BIANCHI-
ERNESTO RAGIONIERI, Azionisti cattolici e comunisti nella Resistenza, Milano, Franco Angeli
editore, 1971, p. 355.
4
condusse, nell’aprile 1944, alla formazione del primo governo di “unità
nazionale”, sotto la presidenza del maresciallo Pietro Badoglio. Quando
Togliatti giunse in Italia, propose che bisognava accantonare i dissensi fino
alla fine della guerra e di concentrare ogni energia nella lotta di liberazione
nazionale e nell’unità antifascista. Affermò che «si doveva accantonare la
questione istituzionale e mettere subito fine ad una situazione che vede da
una parte un governo al potere che non gode autorità e dall’altra un
movimento popolare antifascista con l’autorità ma senza il potere» ed
aggiunse di «non avere alcuna pregiudiziale contro il maresciallo Badoglio
per la presidenza di un nuovo governo»
1
. L’iniziativa Togliattiana ha da
sempre costituito un ambito privilegiato del dibattito storiografico sulla
Resistenza. In effetti, si è discusso e ricercato con fervore per dare
un’interpretazione a questa politica comunista, soprattutto si è cercato di
comprendere quanto di autonomo, e quanto di eterodiretto, cioè di supina
obbedienza alla linea dettata da Stalin, vi fosse in questa scelta. Certamente
l’iniziativa si muoveva attraverso una direttrice di politica internazionale
che ne costituiva il presupposto immediato. Il riconoscimento sovietico del
governo Badoglio «come un compagno d’armi nella lotta contro la
Germania»
2
, annunziato il 13 marzo del 1944, non senza stupore e
irritazione da parte degli anglo-americani, si era posto come un elemento
dinamico nel quadro della politica italiana delle potenze antihitleriane, fino
allora dominio esclusivo degli anglo-americani, e, insieme, aveva
rappresentato una conferma dell’accortezza e della duttilità politica su
questo terreno di Badoglio e dei suoi collaboratori. A questo punto il
1
Cfr., Cap. II, Par. 3., p. 172.
2
IVANOE BONOMI, “Diario di un anno, 2 giugno1943 – 10 giugno 1944”, Milano, Garzanti,
1947, p. XV.
5
sentiero si fa arduo. Ernesto Ragionieri tende ad accentuare il valore
autonomo della «svolta» sostenendo che l’iniziativa togliattiana si inseriva
nel quadro della politica internazionale del movimento comunista che era,
nelle linee di fondo, omogeneo, e che non si trattasse di un meccanico e
brusco adeguamento a direttive esterne, come spesso si è sostenuto, è
confermato dalla circostanza, ormai a tutti nota, che quella linea era stata
espressa da Togliatti da molti mesi, fin dalla dichiarazione di guerra
dell’Italia alla Germania
1
, addirittura per Giovanni Amendola dal 1940
quindi, retrodatabile quanto meno come indirizzo di strategia e come
generale indicazione rivolta al PCI
2
. Egli sostiene che quella mossa
nonostante il repentino inserimento nella politica estera di Stalin, possedeva
“un ispirazione originale e autonoma” articolata nel progetto di «partito
nuovo» e nella definizione della «democrazia progressiva». Lo storico
Luigi Cortesi (resistente nel bergamasco a sedici anni nelle «Fiamme
verdi»)
3
afferma che le posizioni che Togliatti caldeggiò nel corso dei mesi
precedenti contemplarono anche, in determinate circostanze, il
riconoscimento dello status quo e la collaborazione governativa; ma questo
possibilismo è da riallacciare alla tradizione che Togliatti rappresentava
nella storia del gruppo dirigente formatosi nel 1924-26
4
. La questione
cruciale riferita all’interrogativo: «iniziativa autonoma o supina
obbedienza?» trova soluzione nel più che evidente coordinamento
1
ERNESTO RAGIONIERI, La storia politica e sociale, in Storia d’Italia Einaudi, Enciclopedia
multimediale, CD-ROM, nr. 7, La politica e la società, Torino, Giulio Einaudi editore, 2002, pp.
821-822.
2
E. RAGIONIERI, Il Partito Comunista, in L. VALIANI-G. BIANCHI- E. RAGIONIERI,
Azionisti cattolici e comunisti nella Resistenza,, p. 356.
3
BRUNO GRAVAGNUOLO, A sinistra di Togliatti. Intervista a Luigi Cortesi, l’Unità onLine,
18 febbraio 2005, p. 1.
4
LUIGI CORTESI, Nascita di una Democrazia.Guerra,Fascismo,Resistenza e oltre. Roma,
Manifestolibri, 2004, p. 363.
6
dell’azione di Togliatti con la nuova politica sovietica – coordinamento che
Togliatti negò sempre e che la storiografia di partito ha finito con
l’ammettere per l’indiscutibilità dei documenti degli archivi dell’URSS
1
; si
pensi all’interesse sovietico sia (e soprattutto) ad un alleggerimento della
terribile pressione tedesca sul fronte orientale, che l’Armata Rossa
affrontava – sola in Europa –da quasi tre anni, sia ad una più forte presenza
politica nel teatro mediterraneo ed euro-occidentale, dal quale parevano
esclusi dopo la gestione anglo-americana dell’armistizio italiano e che
appariva comunque dominato dagli alleati. Tanto naturalmente forte
l’interesse dell’URSS, che la partenza di Togliatti da Mosca, fu preceduta
da un incontro diretto con Stalin, e dalle istruzioni precise che il leader
sovietico diede al compagno italiano, della cui esperienza internazionale e
della cui fedeltà aveva avuto prove importanti negli anni precedenti. Georgi
Dimitrov, ex Segretario generale dell’Internazionale Comunista, divenuto
responsabile per il Partito sovietico delle relazioni con gli altri partiti
comunisti ci ha lasciato nel suo Diario un’informazione del colloquio
Stalin–Togliatti, avvenuta il 4 marzo 1944, fornitagli direttamente da
Togliatti stesso il giorno successivo. Del capo del PCI conosciamo poi gli
appunti elaborati in vista del ritorno in Italia e le correzioni che egli vi
apportò dopo il colloquio al Cremino
2
. In una visione critica dei fatti la
«scoperta» dell’ incontro Stalin-Togliatti, è senza dubbio importante, ma
non risulta sconvolgente. Gli aspetti internazionali della «svolta di Salerno»
risultano chiari dai documenti comprovanti che il ritorno di Togliatti in
Italia e i suoi scopi erano stati negoziati molto chiaramente tra il governo
1
Per quanto concerne i documenti d’archivio sovietici e le novità che essi propongono Cfr.,
seconda parte,capitolo II°, «svolta di Salerno».
2
Ibid.
7
Badoglio e l’Unione Sovietica. Il coordinamento tra gli interessi politici
dell’URSS e le iniziative di un partito comunista era del resto
assolutamente normale; ed era assolutamente paradossale che la storiografia
di partito negasse che nella «svolta di Salerno» avessero avuto una parte
determinante il governo sovietico e – com’era presumibile – il suo stesso
capo
1
. L’idea di prendere in considerazione lo sviluppo degli eventi storico-
politici del PCI durante il 1943 è di fondamentale importanza per ravvisare
e comprendere nel corso del tempo quali furono gli argomenti
(conversazioni radiofoniche: Radio Milano-Libertà) caratterizzanti di
Ercoli, che prefigurano i prodromi della «svolta», ampiamente osannati da
buona parte della storiografia «ortodossa», di partito e da alcuni
atteggiamenti narcisisti dello stesso Togliatti. Siccome si è sostenuto che la
«svolta di Salerno» fu una politica di coordinamento tra quelle direttive e la
nuova politica sovietica, lo sviluppo di questo lavoro tra l’atro, consiste nel
dimostrare se la «svolta» fu di pari misura farina del sacco di Togliatti e
crusca del rais moscovita oppure il prevalere di una delle due.
La partita politica che Togliatti aveva aperto sbarcando nell’Italia
meridionale era singolarmente importante. Potremmo dire che l’Italia dei
decenni successivi è stata condizionata nel bene e nel male dagli esiti di
quella partita, del cui valore fondativo il capo del PCI, aveva piena
coscienza storicistica. Le valutazioni dell’iniziativa togliattiana
determinarono subito due schieramenti contrapposti, destinati a riprodursi a
lungo nella riflessione storiografica successiva. Per gli uni, la mossa di
Ercoli aveva in primo luogo il merito di avere sbloccato la situazione di
impasse determinatasi dopo il Congresso di Bari, salvaguardando l’unità del
1
L. CORTESI, Nascita di una Democrazia…., cit., p. 363.
8
fronte antifascista e dando così nuovo impulso alla lotta armata contro i
tedeschi; in secondo luogo, la costituzione di un nuovo governo Badoglio
aveva permesso l’esautoramento di un esecutivo di funzionari legati al
vecchio regime e scongiurato il pericolo che, dopo la liberazione di Roma,
si creasse un ministero moderato senza i rappresentanti dei partiti della
sinistra. Da questo punto di vista la svolta ha trovato ampi consensi anche
nella storiografia non comunista e moderata, dal Cotta al Chabod.
1
. Per gli
altri, la «svolta» era invece una scelta tattica inopportuna, sia perché la
situazione politica si sarebbe comunque sbloccata di li a poco con la
liberazione di Roma, sia perché la soluzione di compromesso era destinata a
frenare lo sviluppo democratico della Resistenza, rilegittimando le forze
conservatrici raccolte attorno a Badoglio e vanificando l’obiettivo di
risanare moralmente e politicamente la nazione; inoltre la disponibilità
partecipazionista di Togliatti era giudicata il frutto di indicazioni
provenienti da Mosca e inquadrata in una logica interna di partito, che da un
lato inseriva si i comunisti nella realtà italiana, ma dall’altro faceva ricadere
i costi dell’operazione sugli altri partiti di sinistra e creava una rigida
polarità tra PCI e forze moderate, affossando ogni tentativo di coinvolgere
queste ultime in una politica di rinnovamento e di rottura con il vecchio
stato
2
. Su questo fronte nettamente polemico si collocano gli storici di
derivazione azionista, Leo Valiani ne rappresenta un esempio.
1
GIOVANNI DE LUNA, Storia del Partito d’Azione. La rivoluzione democratica (1942-1947),
Milano, Feltrinelli, 1982, p. 171.
2
GIANNI OLIVA, I vinti e i liberati. 8 settembre 1943 – 25 aprile 1945. Storia di due anni,
Milano, Mondadori, 1994, p. 296.
9
PARTE PRIMA (ANNO 1943)
I. STORIA E POLITICA DEL PCI
1. Dall’Accordo di Lione all’armistizio ( marzo – settembre 1943)
E’ indiscutibile che il PCI fu il partito antifascista più forte e meglio
organizzato, uno dei pilastri della Resistenza
1
, grazie al sacrificio, coraggio
e disciplina dei suoi militanti, unici e strenui sostenitori dopo le «leggi
eccezionali» del 1926 emanate dal governo fascista, della possibilità di
continuare la lotta in Italia e della necessità di un intervento continuo nella
vita del Paese
2
, in virtù delle esperienze di vita semilegale o illegale fatte in
precedenza (spesso veri e propri «rivoluzionari di professione»). Togliatti
sosteneva che:
“ Ciò che dovevamo affermare a qualsiasi costo era la presenza
nell’Italia capitalistica, anche sotto il regime tirannico in cui si era
organizzata, di una forza antagonistica irriducibile, insopprimibile, radicata
nella classe operaia e nel popolo e sicura del proprio avvenire. Questo era il
solo serio ed efficace pegno di mutamento di situazione e di futura vittoria
che potevamo dare a tutti coloro che soffrivano della barbarie fascista, a tutti
gli amici della democrazia”
3
.
La scelta di “restare” in Italia ebbe alti costi umani, comprovato dalla
successiva “caduta” dei centri interni (diretti via via da Camilla Ravera,
Secchia, Santhià e Frausin), dall’arresto di migliaia di militanti e dalle
condanne del Tribunale speciale (l’86,32 per cento dei condannati, più o
1
G. BOCCA,Storia dell’Italia partigiana, Milano, Mondadori, 1995, cit., p. 405.
2
PIETRO SECCHIA, L’azione svolta dal Partito comunista italiano durante il fascismo, 1926-
1932, Milano, XI, Feltrinelli Editore, Annali, 1969, Introduzione, p. X.
3
PALMIRO TOGLIATTI, Il Partito Comunista italiano, Roma, Editori Riuniti, 1976, p. 63.
10
meno 4030, fino al 25 luglio 1943 era composto da comunisti
1
, ripartiti col
70% di operai e artigiani e il 10% contadini
2
), ma al tempo stesso permise
al PCI di conservare radici nel Paese, specie in alcuni strati di lavoratori
dell’Italia centro-settentrionale, evitando la sua trasformazione in un
semplice raggruppamento di “fuoriusciti” riuscendo pertanto a sviluppare
ancora prima della data dell’armistizio, una coerente strategia protesa verso
l’affermazione democratica nel Paese alla quale rimase sostanzialmente
fedele fino alla liberazione. Il biellese Pietro Secchia, definito da un
compagno «il Carnot della nostra guerra partigiana»
3
, uno dei maggiori
dirigenti comunisti, praticamente colui che aveva diretto insieme al
compagno Luigi Longo, tutta l’organizzazione del partito nella lotta della
Resistenza dal Piemonte alle Marche, sosteneva che:
“il contributo del PCI alla guerra di liberazione fu così alto perché il partito,
impegnandosi senza risparmi di colpi e di costi nella lotta clandestina al
fascismo, dal 1927 sino al 1943, avendo saputo effettuare, nel 1929-31, una
«svolta» di intensa presenza nel Paese a tutti i costi, popolando i penitenziari
del regime mussoliniano dei suoi uomini migliori, aveva fatto una scelta
giusta, sparso una semina, accumulato un patrimonio umano e politico
rivoluzionario che poté appunto raccogliere e spendere nella Resistenza”
4
1
CELSO GHINI,Gli iscritti al partito e alla Fgci.1943-1979, in MASSIMO ILARDI e ARIS
ACCORNERO (a cura di ), Il Partito comunista italiano. Struttura e storia dell’organizzazione
1921/1979, XXI, Milano, Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 1981. Vedasi anche
FRANCO DELLA PERUTA in: L’età dei Totalitarismi e la seconda guerra mondiale,
Enciclopedia La Storia di Repubblica, XIII, Novara, De Agostini-UTET, 2004, p. 229, e P.
TOGLIATTI, Storia del PCI, cit. p. 63-64.
2
A. DAL PONT, A. LEONETTI, P. MAIELLO, L. ZOCCHI, Aula IV. Tutti i processi del
Tribunale speciale fascista, ANP, Roma, 1961, p. 548.
3
GIORGIO AMENDOLA, Lettere a Milano. Ricordi e Documenti. 1939-1945, Roma, Editori
Riuniti, 1973, cit., p. 348.
4
PIETRO SECCHIA, L’azione svolta dal Partito comunista italiano durante il fascismo, 1926-
1932, XI, cit., nell’introduzione.
11
Il PCI fu il primo partito a ricostruire, tra il 1941 e i primi del 1943, una
propria organizzazione in Italia, il «Centro interno», e ad affrontare le
profonde trasformazioni intervenute nell’opinione pubblica e nelle sue varie
componenti di classe.
1
Umberto Massola, che aveva raggiunto nel giugno
1940 la Jugoslavia, riuscì in effetti nell’agosto 1941 a trasferirsi
clandestinamente in Italia e a riavviarvi un’attività di partito, ritessendo la
trama dell’organizzazione clandestina e rivendicando a sé con particolare
insistenza la responsabilità di diretto inviato di Togliatti ; gli altri membri
del Centro estero, Novella e Roasio, lo raggiunsero tra il febbraio e l’aprile
1943. Il partito fu anche il primo a dotarsi di una propria stampa clandestina
e di strumenti di propaganda: il «Quaderno del lavoratore» uscì
mensilmente (con irregolarità) dal giugno (in realtà agosto) 1941 al giugno
1943; il «Grido di Spartaco» uscì con alcuni numeri dall’ottobre 1941 al
giugno 1942; dal luglio seguente uscì «l’Unità», mensilmente e poi (dal
dicembre 1942 al marzo ’43), due volte al mese
2
.
Il Comitato d’azione per l’unione del popolo italiano costituito a Lione il 3
marzo 1943, faceva seguito a quello formato a Tolosa nell’ottobre del 1941
dai tre partiti in esilio, il PCI, il PSI e GL, dove sistematicamente veniva
abbandonata la proposta di «governo operaio e contadino» e si affermava
un programma antifascista – democratico che invocava l’alleanza di tutte le
correnti politiche per imporre la fine della guerra a Mussolini; non per caso
esso non conteneva neppure un’affermazione repubblicana
3
. Quello del
1943 era composto dai rappresentanti del PCI Amendola e Dozza, del PSI
Saragat, dal movimento «Giustizia e libertà» da Lussu. Esso impegnava i
1
L. CORTESI, op.,cit. p. 326.
2
P. SALVETTI, La stampa comunista da Gramsci a Togliatti, Parma, Guanda, 1975.
3
L. CORTESI, cit., p. 333.
12
tre gruppi «a condurre in comune, nel quadro di un’alleanza che deve essere
estesa a tutte le forze nazionali, l’azione per salvare l’Italia…imponendo la
pace separata», ma parlava della necessità di «procedere…alla distruzione,
col fascismo, delle cause economiche, politiche e sociali che lo hanno reso
possibile (capitale finanziario, monarchia)» precisando il loro carattere di
“partiti repubblicani” e propugnando «la separazione della Chiesa dallo
Stato». Nella stessa riunione venne approvata una mozione dalla quale si
evinceva che :
I tre partiti condannano le illusioni di coloro che aspettano la salvezza
del paese da un repentino mutamento di condotta della monarchia o dallo
sbarco in Italia di forze alleate, ed ogni altra forma di attesa passiva. La
pace, l’indipendenza, la libertà potranno essere conquistate solo dalla
volontà del popolo. Essi riconoscono nella lotta delle masse il fattore
decisivo dal cui sviluppo dipendono le sorti dell’Italia. Essi impegnano le
loro forze al fine di promuovere e organizzare tutte le lotte delle masse, dalle
più elementari alle più avanzate, alle dimostrazioni di strada, agli scioperi, al
sabotaggio della macchina di guerra hitlero-fascista, alle azioni armate dei
partigiani, per preparare l’insurrezione nazionale
1
.
Ma già da allora risultava evidente che la segreteria del PCI, nell’URSS,
interpretava il documento come un primo passo per l’ampliamento delle
alleanze, pronta a rinunciare alla pregiudiziale repubblicana e laicista non
appena si presentasse l’occasione di estenderle
2
.
Gli scioperi del marzo ’43
3
, intesi a Torino e Milano, più che il risultato di
1
Il comunismo italiano nella seconda guerra mondiale. Relazione e documenti presentati dalla
direzione del partito al V Congresso del Partito comunista italiano. Introduzione di GIORGIO
AMENDOLA, Roma, Editori Riuniti, 1963 p. 179-180.
2
GIORGIO GALLI, Storia del Partito Comunista Italiano, Milano, Schwarz Editore, 1958, p. 223.
3
AA.VV., Operai e contadini nella crisi italiana del 1943-1944 (in particolare i saggi di Luigi
Canapini su Milano, di Claudio Dellavalle su Torino, di Antonio Gibelli e Massimo Ilardi su
Genova), Milano , Feltrinelli, 1974.
13
un’operazione capillare di organizzazione, furono la verifica di una
scollatura tra il regime e importanti settori di classe operaia, e della capacità
dell’organizzazione comunista, sia pure con forze quanto mai esigue, di
inserirvisi, traendone il massimo beneficio politico. E’ importante
sottolineare che questi scioperi furono un punto di svolta nella storia sociale
della seconda guerra mondiale. Si trattò infatti del primo movimento di
massa avvenuto all’interno della fortezza continentale dominata dall’Asse e
dal nazifascismo. Sulla spontaneità rivendicativa e anticapitalistica la
propaganda e l’attività dei comunisti inserì l’obiettivo della lotta per la pace
e contro il fascismo. La forza operaia fu tanto grande che il regime non osò
scatenare una repressione aperta e sanguinosa, e gli industriali dovettero
cedere alle richieste più pressanti. I grandi industriali non si sentirono più
protetti dal fascismo, il quale non avrebbe potuto beneficiarli con i
soprapprofitti della vittoria, ed esponeva ormai gli interessi di tutta la
borghesia nazionale e dello Stato alla completa rovina
1
. Un anello
importante della catena di avvenimenti che portò alla caduta del regime fu
la preoccupazione suscitata dalla riscossa operaia in Senato, dove
echeggiarono voci di allarme e di dissenso dal fascismo. Reso possibile dal
fatto che l’assemblea, nel quadro diarchico del totalitarismo imperfetto, era
di nomina regia, il dissenso acquista tutta la sua importanza in quanto
dimostrazione della efficacia determinante degli scioperi. Essendo viva la
paura, un po’ da tutte le parti si invocava un intervento della monarchia, per
un ricambio politico indolore che garantisse il mantenimento dei rapporti di
classe e i diritti di proprietà
2
. Tra la primavera e l’inizio dell’estate regnò
1
CORTESI, cit., p., 329-330.
2
Il testo integrale inedito del << discorso del bagnasciuga >> (24 giugno 1943), in L. CORTESI,
op., cit. p., 329-330 e pp. 75 e sgg..
14
l’incertezza. La totale perdita delle posizioni in Africa e lo sbarco in Sicilia
(10 luglio) fecero però precipitare le decisioni. Fu questo il clima nel quale
Vittorio Emanuele III congedò Mussolini, ormai rimasto in minoranza nello
stesso Gran Consiglio, il supremo organo del fascismo, e il partito che
aveva dominato l’Italia per vent’anni si sfasciò in poche ore, tra il 25 e il 26
luglio, al di là delle stesse aspettative della Corona e della borghesia
moderata. Il re incaricò di costituire un nuovo governo Pietro Badoglio, un
vecchio generale fascista, conquistatore dell’Etiopia e perciò fregiato del
titolo di duca di Addis Abeba, ma da qualche tempo ritiratosi per dissensi
sulla condotta politica e militare della guerra. La congiura di palazzo ( o le
varie congiure che si intrecciarono) segnò contemporaneamente la caduta
del fascismo e una sorta di controrivoluzione preventiva di ispirazione
conservatrice
1
. Le modalità del crollo del fascismo nel luglio ’43 misero in
luce come il regime fosse stato completamente svuotato dall’andamento
della guerra. Dopo non aver saputo far combattere il paese, il fascismo non
seppe combattere neppure per sé; e si disfece in un tripudio di popolo in cui
pareva che nessuno avesse mai dato consenso al regime. I fascisti,
abbandonata d’un colpo la sfera pubblica che avevano con tanto clamore
occupato, cercarono, pressoché senza eccezione, la via della sopravvivenza
individuale. L’improvviso sfaldamento del fascismo svelò
inequivocabilmente come e quanto il suo potere e la sua esistenza avessero
poggiato sul compromesso con i suoi partner
2
.
Crollato il regime, il governo tecnico-istituzionale di Badoglio sostenuto dal
re si preoccupò essenzialmente di mantenere l’ordine interno. Il che fece
1
Ibid, p. 330.
2
MASSIMO L. SALVADORI, Storia d’Italia e crisi di regime. Saggio sulla politica italiana
1861- 1996, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 74.
15
con determinazione. Ma esso mostrò una completa incapacità
nell’affrontare il compito supremo imposto in quel momento storico al
governo : «portare il paese fuori da un conflitto che non era più in grado di
sostenere senza trascinarlo nella completa rovina»
1
.
Il PCI colse, della nuova situazione, principalmente l’aspetto della
continuazione della guerra di cui parlava l’appello di Badoglio. E premette,
attraverso il Comitato delle opposizioni, perché si sottolineasse la necessità
della pace immediata. Il manifesto lanciato a Milano dai partiti presenti alle
riunioni di giugno e luglio chiedeva espressamente l’armistizio e non
sollevava la questione della monarchia. Giorgio Amendola, che in quelle
settimane era il più dinamico dirigente del PCI in Italia, ottenuto quel primo
risultato, partì immediatamente da Milano per Roma, speditovi la sera del
26 luglio dai compagni del capoluogo lombardo, onde suggerire un analogo
appello ai comitati della capitale, ma, per influenza dei vecchi esponenti
liberali, la richiesta non venne accolta e l’appello si limitò a sollecitare il
ripristino delle libertà democratiche
2
. La politica che il PCI condusse a
Roma, era volta soprattutto a far accettare la presenza comunista come
normale, ed anzi indispensabile per un ricambio politico democratico, a far
accettare insomma il PCI come partito nazionale e di governo
3
. Il giorno 28
veniva decretato lo scioglimento del Partito Fascista, mentre si annunciava
l’amnistia per i detenuti politici. Ma intanto la spinta popolare verso la pace
assumeva aspetti sempre più marcati, e nei grandi centri del Nord le masse
si ridestavano alla lotta di classe
4
.
1
Idid.
2
G. GALLI, Storia del Pci, cit., pp. 226-227.
3
CORTESI, cit., p. 336.
4
G. GALLI, cit., p. 227.