sulla vita online, spesso ricchi di anglicismi e italianizzazioni, mi ha spinta, non senza
curiosità, in questo mondo che credevo sostanzialmente essere di nicchia. In effetti, nella
mia precedente esperienza da videogiocatrice, peraltro superficiale, non mi ero mai resa
conto di quanti adepti avesse la comunità videoludica e soprattutto quanto forte potesse
essere la loro passione. Ad oggi, World of Warcraft, spesso abbreviato nell’acronimo WoW,
conta “oltre otto milioni di iscrizioni attive”
1
(dato del gennaio 2007 disponibile su
<http://www.blizzard.com/press/070111.shtml>) e una prima espansione – “the single
largest expansion we've ever created” nelle parole di Mike Morhaime, presidente e
cofondatore di Blizzard Entertainment®
2
– dal titolo World of Warcraft: The Burning
Crusade, meglio conosciuta tra gli appassionati come TBC. Espansione lungamente attesa
e accolta con grande clamore dalla maggior parte dei giocatori di World of Warcraft, tanto
da far registrare il record di 2,4 milioni di copie vendute in tutto il mondo nelle prime 24
ore dal lancio
3
. Dopo un ultimo periodo di stanca, assolutamente normale quando si sono
accumulati due anni di gioco trascorsi ad esplorare ogni più remoto angolo del mondo di
Warcraft, e sicuramente alimentato anche dalla voracità con cui i giocatori più accaniti
avevano fagocitato il gioco, ecco aprirsi la possibilità di esplorare un nuovo continente,
nuove razze, una nuova professione e soprattutto di misurarsi con un nuovo maximum
level. E’ emblematico il caso di Gullerbone: un ragazzo francese di 24 anni, che ha saziato
la sua fame di novità – e la sua smania di protagonismo – raggiungendo il livello 70 dopo
sole 28 ore dal lancio, supportato da 40 membri della sua gilda e da perspicaci piani
strategici per riuscire a tagliare nel più breve tempo possibile il traguardo
4
. Questo
episodio (di certo non l’unico nella storia dei videogame) di nerdizzazione, come si dice in
gergo, è stato immediatamente riportato dai più noti siti dedicati ai MMORPG
5
e ai
videogame, tra ammirazione e disapprovazione, mentre i ricercatori che si occupano di
giochi online e delle loro dinamiche preferiscono parlare di tali eccessi in termini
problematici: Nick Yee, nel suo progetto di ricerca sui MMORPG (intitolato The Daedalus
Project), non esita a parlare di “online gaming addiction”. Ma entreremo più nello specifico
nelle pagine a seguire, esaminando questa ed altre dinamiche relative ai MOG (acronimo
di Multiplayer Online Games) e ai mondi virtuali. Ci avvicineremo passo dopo passo al
nostro case study, in un percorso lineare che va dal generale allo specifico, così da
permettere una comprensione graduale e sistematica anche ai non addetti ai lavori, o a chi
semplicemente non ha mai giocato ai videogame e già davanti a queste poche righe si
sente scoraggiato e tentato a interrompere la sua lettura. Onde evitare questa evenienza
sono stati introdotti alla fine del testo ben due glossari: il primo è un glossario di base,
contenente abbreviazioni, acronimi e sintetiche spiegazioni di termini che si incontreranno
più volte nel testo; il secondo, frutto di una cernita tra i molti termini presenti nel glossario
della guida strategica ufficiale di World of Warcraft e della traduzione del “MMORPG
lexicon” del Daedalus Project, raccoglie una parte dei vocaboli dello slang dei giocatori di
MMORPG, che comprensibilmente si arricchisce ogni giorno di nuove voci e derivate.
4
Inoltre, sempre con l’intento di spronare il lettore spaesato da tanti vocaboli astrusi, vorrei
sottolineare anche la mia estraneità ai MMORPG. E per difendermi da coloro che per
questo motivo mi accuseranno di aver mantenuto un distacco, obsoleto e non necessario,
dall’oggetto di ricerca, sostengo senza nessun problema la mia parzialità, il mio
personalissimo punto di vista, esterno al mondo videoludico eppur vicino ad esso. In
questo periodo di riflessione ho avuto molteplici occasioni di contatto col gioco, con
giocatori intenti a giocare e con giocatori disposti, in modo più o meno formale, a
confrontarsi e a interrogarsi su quali meccanismi spingano persone di tutte le età – “fra i
15 e i 45 anni, ma pare che gli ultra sessantenni siano tutt'altro che rari”
6
– a giocare con
tanto impegno e dedizione. Ciò nonostante ho mantenuto una certa distanza, evitando di
farmi risucchiare da questo nuovo videodrome
7
, cosicché al momento opportuno mi sono
messa nella condizione ipersensibile del convalescente baudeleriano, che uscendo dalla
malattia, dallo stato di torpore e dal sonno, acquisisce uno sguardo vigile, acuto e
interessato come quello del fanciullo, che “si precipita ad esplorare il mondo con la
concitazione e l’entusiasmo della scoperta” (Alberto Abruzzese, nell’introduzione ai
Linguaggi della metropoli a cura di Valeria Giordano, 2002, p. 13).
“Il convalescente possiede al massimo grado, come il fanciullo, la facoltà di interessarsi
vivamente delle cose, anche più banali in apparenza […]. Il fanciullo vive sempre in novità; egli
è sempre ebbro” e possiede la dote di chi si affaccia alla vita con curiosità, con quell’attrazione
per le cose che rende “fisso e animalmente estatico” l’occhio dei fanciulli “davanti al nuovo,
qualunque esso sia, viso o paesaggio, luce, doratura, colori, stoffe cangianti, incantamento della
bellezza abbellita dalla toeletta” (Baudelarie 1863, p. 939).
8
E lo sguardo assuefatto del videogiocatore, pur sperimentando in prima persona cosa
voglia dire vivere in un mondo virtuale, e così acquistando una competenza tecnica molto
più approfondita della mia (che rimarrà sempre una conoscenza di seconda mano, quando
perché appresa dai libri, quando per sentito dire), sarà anch’esso parziale e incompleto,
dal momento che non potrà più rendersi conto di tanti aspetti per lui ormai normali e
abitudinari. Una conoscenza piena, se mai sarà possibile raggiungerla, soprattutto
considerando il fatto che il fenomeno videoludico è costantemente in evoluzione, potrebbe
esser determinata dalla somma di queste due complementari esperienze, una interna e
l’altra esterna. Sommate ma non unite. Con questo intendo dire che, a parer mio, non
saranno mai presenti in una sola persona: una conoscenza ottunde inevitabilmente l’altra.
Con questi presupposti e da una posizione privilegiata di accesso alle informazioni, ho
dapprima sottoposto ad interviste in profondità alcuni giocatori di World of Warcraft, per
poi analizzare quanto emerso, con l’aiuto dei contributi offerti da studiosi e ricercatori che
rappresentano dei punti fermi nella teoria ludica, videoludica e nell’indagine sulle comunità
virtuali. Per quanto attiene a questa seconda fase di analisi, mi sono servita sia di una
bibliografia tradizionale, che di articoli apparsi su quotidiani e riviste in formato cartaceo;
5
inoltre, l’attualità del tema sotto esame – come è facilmente intuibile – necessitava di una
continua attenzione alle notizie circolanti nel mare magnum di Internet, che, da un lato,
ha rappresentato un ottimo mezzo per avere informazioni di origine internazionale e non,
considerando che molti esperti vi divulgano gratuitamente le proprie ipotesi con lo spirito
di aumentare la conoscenza collettiva
9
, ma dall’altro, ha apportato un overload
informativo
10
dal quale non sempre è stato facile sbrigliarsi.
A questo punto, ritengo necessario fornire una spiegazione del titolo di questo lavoro,
nonostante sia stata più volte tentata di svelarlo più in là nel testo, alimentando così una
piacevole sensazione di suspense nel lettore; ma dal momento che questa altro non è che
l’elaborazione di una tesi di laurea, ritengo giusto dare più importanza a un valore come la
chiarezza a discapito di un capriccio stilistico. Se per i giocatori il termine maintanker (o
più giustamente Main Tank, spesso abbreviato nell’acronimo MT) è assolutamente
familiare, ai più risulterà piuttosto oscuro se non addirittura incomprensibile. All’interno di
una comunità (la gilda), esso sta ad indicare un personaggio il cui ruolo principale, nei
party o raid, è quello di assorbire danni per il resto del gruppo dal mob e far sì che gli altri,
non essendo da questo attaccati, possano infliggergli più DPS possibile (dove DPS sta per
damage per second, ossia danno al secondo); altri personaggi ancora hanno invece il
ruolo di healer (guaritori), e grazie ai loro incantesimi, curano chi ha più necessità e
assistono costantemente il MT
11
. Ma non finisce qui. La scelta di questa sineddoche – e
non me ne vogliano i giocatori che occupano gli altri ruoli – inserita nel titolo completo –
Una vita da maintanker – è evocativa: di testi memorabili – uno tra tutti, La vita sullo
schermo di Sherry Turkle; di un nuovo modo (immersivo) di approcciare al videogioco, che
ci permette di parlare addirittura di seconda vita
12
; nonché di una canzone omonima,
creativo riadattamento testuale della più celebre versione di un famoso cantautore rock
italiano, Luciano Ligabue
13
, che circola all’interno della community italiana.
Non mi resta che ringraziare i membri della community che mi hanno sostenuta in
questa impresa, anche soltanto per la disponibilità dimostratami; un omaggio particolare
va invece a coloro che non hanno esitato a dispensare preziosi consigli e hanno letto le
bozze di questo lavoro: il mio piccolo contributo ai game studies.
6
1
La popolazione del mondo virtuale di World of Warcraft conta più abitanti dell’Irlanda, ed i giocatori sono
così geograficamente distribuiti: 3,5 milioni in Cina, più di 2 milioni in Nord America e più di 1,5 milioni in
Europa. Non è da sottovalutare il fatto che la comunicazione di questi risultati impressionanti, da parte della
stessa casa produttrice, sia arrivata alla vigilia della presentazione dell’espansione del gioco.
<http://it.wikipedia.org/wiki/World_of_Warcraft>.
2
<http://www.blizzard.com/press/070116.shtml>.
3
La prima grande espansione del MMORPG del momento ha superato ogni più ambiziosa aspettativa,
dimostrando che “Blizzard dà ai giocatori ciò che desiderano”, come ha sottolineato Robert McKenzie, vice
presidente del merchandising di GameStop Corp, la più grande catena di negozi specializzati in videogiochi
del mondo. <http://www.blizzard.com/press/070123.shtml>
4
Gullerbone è in realtà il nome del personaggio di questo appassionato di World of Warcraft.
5
Uno tra tutti è MMORPG-ITALIA NETWORK, che ha annunciato il primo livello settanta all’indirizzo che
segue: <http://www.mmorpgitalia.it/forum/showthread.php?t=127835>.
6
Lo afferma Jaime D’Alessandro, in un articolo comparso su Repubblica il 16 gennaio 2007 e disponibile su
<http://www.repubblica.it/2005/i/sezioni/scienza_e_tecnologia/videogiochi/wolrd-giocato-mondo/wolrd-
giocato-mondo.html>.
7
Mi riferisco al noto film del 1983 di David Cronenberg.
8
Giordano, Valeria, a cura, 2002, Linguaggi della metropoli, Liguori Editore, Napoli, p. 28.
9
Pierre Lévy ha dedicato un libro (L'intelligenza collettiva. Per un'antropologia del cyberspazio, Feltrinelli,
1996) all’intelligenza collettiva, che in un’intervista rilasciata nel 1995 definiva in questi termini: “Che cos'è
l'intelligenza collettiva? In primo luogo bisogna riconoscere che l'intelligenza è distribuita dovunque c'è
umanità, e che questa intelligenza, distribuita dappertutto, può essere valorizzata al massimo mediante le
nuove tecniche, soprattutto mettendola in sinergia. Oggi, se due persone distanti sanno due cose
complementari, per il tramite delle nuove tecnologie, possono davvero entrare in comunicazione l'una con
l'altra, scambiare il loro sapere, cooperare. Detto in modo assai generale, per grandi linee, è questa in fondo
l'intelligenza collettiva.” L’intervista completa è disponibile al seguente indirizzo:
<http://www.mediamente.rai.it/biblioteca/biblio.asp?id=193&tab=int#link006>.
10
Mauro Wolf, ne Gli effetti sociali dei media (1992), ci ricorda un caso drammatico di sovraccarico
informativo: il guasto all’origine della sciagura del Challenger, secondo quanto riportato da alcune
testimonianze, era stato rilevato dai computer della Nasa, ma l’eccessiva quantità di dati che passava sugli
schermi dei controllori gli impedì di individuare gli elementi rilevanti.
11
Per l’elaborazione di questa sintetica spiegazione mi sono servita principalmente di
<http://www.wowwiki.com/Main_Page> e della guida strategica ufficiale, nelle pagine in cui chiariscono i
ruoli di gruppo e le loro funzionalità (cfr. Lummis, Micheal; Vanderlip, Danielle, 2006, World of Warcraft.
Guida strategica ufficiale, Multiplayer.it Editore, pp. 84-85)
12
Il riferimento è ovviamente a Second Life, MMORPG di simulazione della vita quotidiana.
13
Il riferimento è ovviamente a Una vita da mediano (1999), di cui il videogiocatore, noto come Hellsing, ha
mantenuto la base musicale.
7
1. Game studies. La situazione attuale
“I game studies sono un gioco di
«cattura la bandiera»”
Cristiano Poian, nel suo intervento al Games@Iulm, 3 maggio 2006
A poco più di quarant’anni di distanza dall’introduzione di quello che è all’unanimità
riconosciuto come il primo computer game della storia – Spacewar! di Stephen Russell e
altri (1962) – il videogioco sta finalmente uscendo dal ghetto nel quale la “cultura alta” lo
aveva ingiustamente confinato. La rinnovata visibilità del videogioco trascende la mera
dimensione commerciale, pur considerevole, invadendo due territori a lungo off-limits: il
mondo dell’arte, e soprattutto
1
, l’ambiente accademico, che ne evidenziano gli aspetti più
propriamente culturali e sociali (Bittanti, Game over U, 2003).
Nel momento in cui, nei primi anni Ottanta, il mercato si configurava in maniera stabile
e autonoma e la concorrenza tra Sega e Nintendo faceva parlare di sé come “boom delle
console”, balzava in primo piano l’esigenza di interrogarsi sulla portata di quello che, nei
fatti, era ben più di un fenomeno residuale. A dimostrazione dell’interesse che i
videogiochi iniziavano a rivestire nell’ambito della riflessione sulle tecnologie, nel 1983 ad
Harvard si svolse il primo simposio internazionale sull’argomento, dal titolo Videogames
and Human Development. Research Agenda for the ‘80s, con i contributi di relatori
provenienti dalle più disparate discipline (psicologia, medicina, pedagogia e
programmazione) la cui intenzione era quella di fare il punto sulla ricerca, ancora
pionieristica e incompleta. Ma a ben vedere sono poco più di dieci anni che si cerca di
studiare in modo continuativo i videogiochi in maniera seria, nel tentativo di dare dignità a
questo new medium
2
, che rivendica la sua completezza e autonomia: alla pubblicistica
specializzata, rivolta ai potenziali consumatori, con il compito principale di presentare e
recensire i prodotti appena usciti sul mercato, si affianca sia l’interesse dei quotidiani a
tiratura nazionale, che dedicano settimanalmente un piccolo spazio all’argomento grazie ai
contributi di giornalisti incuriositi dal fenomeno videoludico, sia una eterogenea riflessione
teorica (Colombo, Cardini, 1996). Il giudizio acritico del giornalista-tipo di videogiochi – un
post-adolescente spesso alla sua prima esperienza, scarsamente o per nulla retribuito,
abbandonato nel paese delle meraviglie del gioco-omaggio in cambio di una recensione,
che non sente la necessità di sollevare il dubbio o di porre la domanda scomoda (Fulco,
2004
3
) – è supportato da un’industria ostile a una riflessione in grado di trascendere le più
crasse banalizzazioni. Ne consegue che la produzione di questi pseudo-professionisti altro
non è che infotainment, informazione promozionale, “consigli per gli acquisti” con la
benedizione dei produttori di videogiochi che, direttamente o indirettamente,
9
amministrano il mercato editoriale (Bittanti, 2005: pp. 9-10). Ma finalmente anche
l’accademia prende atto dell’impatto radicale delle tecnologie del divertimento sulla
società, sull’industria dell’entertainment e sulla cultura tout court: in questi primi anni del
XXI secolo, negli Stati Uniti come in Europa, è esploso il campo dei game studies (Bittanti,
2004: pp. 12-13), definito da Espen Aarseth come
“a new academic field focused on the aesthetics, cultures and technologies of computer games.
Not just as part of media studies, or digital culture studies, or a freaky corner of computer
science, or as educational technology, but as an autonomous discipline of teaching and
research, with an agenda not subjected to the rules of a condescending (or hostile) established
academic field.” (Aarseth, 2002)
Le potenzialità di questo campo di studi, frutto del dialogo amichevole e costruttivo tra
ricercatori e game designers
4
, vengono celebrate in numerose conferenze, progetti di
ricerca, articoli e libri, che da New York come a Londra, da Milano come a Helsinki hanno
fatto di tutto per far sì che il videogioco espugnasse la Torre D’Avorio (Bittanti, 2004: p.
13), così come la filmologia lo ha fatto negli anni Cinquanta del XX secolo.
Dalle prime necessarie pianificazioni della disciplina, che doveva “to excel in research
(or nobody will take your ideas seriously), […] in local politics (or nobody will fund you),
and […] in creating a curriculum (or nobody will learn anything from you)” (Aarseth,
idem), i game studies hanno offerto un numero notevole di analisi per comprendere
appieno la risorsa videogioco, cercando di creare un vocabolario comune, nonché
individuandone e sciogliendone i principali nodi di discussione, evitando di abbandonarsi a
pregiudizi e facili giudizi morali negativi.
Sembra confermata la “regola dei 30 anni” coniata da Paul Saffo (Figura 1), direttore
dell’Institute for the Future di Menlo Park, in California, secondo la quale “da cinque secoli
a questa parte, la quantità di tempo richiesta perché le nuove idee possano penetrare
completamente all’interno di una cultura, si è assestata regolarmente su una media di tre
decenni” (Fidler, 2000: pp. 14-19). Saffo ha individuato tre stadi caratteristici, distinguibili
al suo interno:
“Il primo decennio: moltissimo entusiasmo, moltissima perplessità, scarsa penetrazione. Il
secondo decennio: flussi paralleli, sta cominciando la penetrazione del prodotto nella società.
Terzo decennio: «E allora?» è solamente una tecnologia di base e tutti la possiedono.” (Saffo,
1992: p. 23)
I videogames, proprio quando Saffo scriveva queste parole, entravano di diritto nella
terza decade dalla loro nascita e dapprima negli Stati Uniti, poi in Europa, l’accademia
sentì la necessità di dedicargli le proprie attenzioni. Ma qual è la situazione italiana? Anche
10
nel bel paese l’università è in fermento, soprattutto grazie al contributo di Matteo Bittanti,
uno dei suoi massimi esperti di game studies.
Figura 1. La regola dei 30 anni di Paul Saffo. <http://www.saffo.com/idea1.php>
La situazione italiana
Nel tentativo di incentivare lo studio di un medium a lungo trascurato dall’analisi
accademica, a partire dal 2002, Matteo Bittanti con la collaborazione del critico e saggista
cinematografico Gianni Canova, ha lanciato la prima collana editoriale italiana dedicata ai
videogiochi: si tratta di Ludologica. Videogames d’Autore, i cui volumi, analizzando in
profondità titoli o serie che hanno fatto la storia dei videogame – da The Sims di Will
Wright a Super Mario di Shigeru Miyamoto, da Doom di John Carmack a Ultima di Richard
Garriott – hanno colmato un gap evidente all’interno della produzione editoriale. Lontano
dal considerare il videogioco come un semplice passatempo per bambini, o peggio ancora,
come mera merce, si propone di considerarlo come un’opera d’arte a tutti gli effetti,
sottolineando le capacità di sintesi dei più svariati elementi culturali, sociali ed estetici della
contemporaneità ad opera del game designer. Questa posizione non dimentica che la
produzione videoludica è frutto di un’opera collettiva, ma parte dalla convinzione che la
figura dell’autore rivesta un ruolo centrale all’interno dei processi produttivi. Nel momento
stesso in cui si cerca di analizzare i videogame criticamente e coerentemente, ci si rende
subito conto di quanto siano complessi e sfuggenti, per natura fluidi, dinamici e cangianti,
e quindi del fatto che richiedano strumenti analitici ad hoc, che tengano conto della
peculiarità della fruizione ludica. Superando i limiti di una (a)critica videoludica
ossessionata dalla misurazione della qualità del gioco attraverso parametri inadeguati,
11
come “grafica-sonoro-giocabilità-longevità”, Ludologica presta attenzione alle implicazioni
ideologiche, politiche, artistiche e culturali del fenomeno videoludico, scandagliato e
investigato da molteplici punti di vista, sia come costrutto di produzione immateriale
finalizzata all’intrattenimento che come artefatto culturale dotato di codici linguistici,
iconografici e tematici riconoscibili.
Non deve sorprendere l’ambiguità del termine “videogioco”. Per molti è un semplice
“testo”, costruito da un autore e de-costruito da un fruitore a partire dalle caratteristiche
specifiche del medium e del genere di riferimento; ma considerando che i videogiochi
sono, de facto, mondi possibili – e non semplicemente storie – definirli testi non ci aiuta
particolarmente. Altri allora propongono di parlare di “discorsi” riconoscendo la fluidità del
nostro oggetto misterioso, di cui spesso è difficile persino individuarne con precisione un
inizio e una fine (si pensi ad EverQuest, in cui lo stesso titolo significa “avventura
infinita”): si tratta di discorsi complessi, interpretativi e produttivi, insieme ai quali
prendono parte differenti tipologie di fruitori/produttori/spettatori (e i cui ruoli si
scambiano di continuo). In altre parole, non è più importante il testo di per sé, bensì le
dinamiche attivate dall’interscambio tra i soggetti che lo utilizzano. Ma c’è ancora chi non è
soddisfatto neanche di questo modo di intendere il fenomeno ludico e propone una
definizione alternativa: il videogioco come “pratica”. Questo termine è più versatile dei
precedenti perché tiene in considerazione anche le dinamiche sociali innescate dal medium
videoludico (essenziali, per molti, a definirne la peculiarità rispetto ad altri media). In
questo modo si assegna una priorità alle vite davanti allo schermo e al contesto: ci si
preoccupa dei processi mentali e sociali attivati dal giocatore nel momento in cui decide di
dare vita ad una sessione interattiva.
Per Bittanti, il modello narrativo tradizionale è uno strumento interpretativo inadeguato
a restituire la specificità dei media interattivi. Il videogame pur non essendo a-narrativo, è
sicuramente post-narrativo, se non altro perché il fruitore svolge il doppio ruolo dello
scrittore e del lettore. Forse l’aspetto più propriamente narrativo del videogioco sono i
“racconti” dei giocatori, i resoconti delle partite, delle sessioni e delle esperienze di gioco.
In realtà, l’esperienza videoludica è qualitativamente differente da quella della lettura o
della visione di un film, nonostante alcune affinità tangenziali. Il videogiocare coinvolge tre
classi di fenomeni: cinestesia, aptica e sinestesia.
Dal greco kinesis (movimento), la cinestesia riguarda, in primo luogo, la percezione
delle immagini in movimento sullo schermo, stimolando l'organo della vista. Lo sguardo è
diretto principalmente a una sorgente video. Per aptica, dal greco apto (tocco), si intende
invece la percezione tattile, che evoca la nozione di apprensione palpabile dello spazio,
nonché di autopercezione dell'assetto corporeo. In ambito videoludico, l'aptica si riferisce
alla manipolazione dell'interfaccia di controllo, che stimola direttamente l'organo principale
del tatto, la pelle. La simulazione produce una stimolazione che ricorda al soggetto di
12
essere carne, corpo, materia, ma il movimento delle dita rende possibile la percezione di
una massa di spazio esterna e non ancora strutturata, nella quale il protagonista è
l’avatar, prolungamento e protesi del corpo stesso. Si viene a determinare, così, la
percezione dell'io corporeo all'interno dello spazio ludico. Non va infine dimenticata la
dimensione sinestetica della fruizione videoludica. Il termine sinestesia, dal greco syn
(insieme) e aisthànestai (percepire), indica una contaminazione sensoriale: il videogioco
può ben essere definito come un generatore sinestetico, vista la sua capacità di sollecitare
più sensi simultaneamente. La fruizione videoludica, dunque, combina percezioni ottiche e
acustiche, manipolazioni aptiche, nozioni di carattere cognitivo e fenomeni sinestetici. Si
determina dunque un loop continuo tra ottica-acustica-aptica-cognizione (Bittanti, 2005
5
).
Ciò che conta in un videogame non è allora capire “what happens”, quello che succede,
bensì individuare i sistemi di valorizzazione del mondo simulato.
Ludologica senza ignorare le implicazioni ideologiche del divertimento elettronico (la
tecnologia, com’è noto, non è mai neutra) prende in considerazione tutte le sue
componenti, manifeste e latenti, al fine di giungere ad una comprensione il più possibile
completa e cercando di trovare il giusto equilibrio tra i due poli della tecnofobia da una
parte e della tecnofilia
6
dall’altra (Bittanti, 2004
7
).
Attualmente e a partire dal settembre 2005, Matteo Bittanti, è ideatore e curatore di
una nuova serie: videoludica. game culture, che ha l’ambizione di offrire un quadro
completo dell’evoluzione degli studi sui videogames, in Italia e all’estero, ponendosi come
laboratorio di studio e di riflessione su quello che può ben essere definito il medium della
nostra epoca. Spaziando dalla ludologia – una disciplina che studia appositamente il gioco
e le sue manifestazioni digitali – alla semiotica, dalla narratologia alla psicologia, ecc.
videoludica cerca di rendere ragione alla complessità tematica, estetica ed ideologica dei
videogiochi, che sfortunatamente gli altri media, generalisti e non, presentano come un
tutto omogeneo, caratterizzato indistintamente da violenza e aspetti diseducativi. Ma così
come nessuno si sognerebbe di bandire i libri tout court solo perché alcuni di essi
contengono dei contenuti controversi, analogamente l’idea più volte invocata di vietare il
divertimento elettronico è di per sé preoccupante. La demonizzazione dei videogiochi da
parte dei media riflette ansie tecnofobiche e non aiuta a fare chiarezza, ma istiga ad una
delirante caccia alle streghe. Ed in ogni caso, la censura non rappresenta certo la
soluzione al problema: un consumo eccessivo di videogiochi violenti è indice di un disagio,
ma non necessariamente ne è l’origine. Sarebbe utile interrogarsi sulle ragioni di tale
disagio in modo differente da come lo fa una certa retorica giornalistica, che con le sue
sentenze, non fa altro che alimentare la tensione.
13
“Oggi che lo studio dei videogame sta progressivamente conquistando una sua dignità
accademica, è fondamentale giocare la partita della critica fino in fondo perché la cultura ludica
è la nostra cultura.” (Bittanti, in videoludica. game culture
8
)
Da Milano si sta dunque diffondendo un nuovo approccio all’analisi del videogame
basato su una criteriologia assai diversificata, formulata dai più attenti studiosi del medium
elettronico, e ancora Bittanti non manca di sottolineare gli eventi più significativi che
mettono al centro delle proprie osservazioni il videogioco, medium al tempo stesso nuovo
e arcaico: da una parte non è che la traduzione elettronica di attività ludiche ancestrali;
dall’altra ha introdotto categorie estetiche radicalmente inedite (Bittanti, 1998: pp. 1-2).
L’ultima conferenza, la più importante mai organizzata in Italia sui game studies, si è
tenuta dal 25 al 27 gennaio 2007 presso il Dipartimento di Scienze Sociali e Cognitive
dell'Università di Reggio Emilia e Modena: "The Philosophy of Computer Games. An
Interdisciplinary Conference"
9
, che si è avvalsa, fra gli altri, dell’illustre presenza del
ludologo Espen J. Aarseth. Partendo dal presupposto che “milioni di individui spendono
una significante porzione del loro tempo a giocare ai MMORPG in rete, e che le economie
reali di alcuni di questi giochi eguagliano quelle di piccoli paesi esistenti”
10
e considerando
che finora si è avuto poco o nessun consenso su questi temi, lo scopo della conferenza è
quello di studiare i computer games da una prospettiva filosofica, mantenendo però un
impianto multidisciplinare. I contributi sono stati organizzati per temi generali (uno per
ogni giorno della conferenza):
− “Computer Game Entities”, per affrontare la natura virtuale degli oggetti e degli
eventi realizzati dai computer games;
− “Player Experience”, relativo al soggettivo punto di vista del giocatore (in questo
tema rientrano i concetti di identità ed esperienza percettiva);
− “The Ethics of Computer Games”, nel quale si sono affrontati gli aspetti morali,
economici e politici nelle fasi di produzione, distribuzione e consumo del game.
I concetti filosofici sembrano mettere bene in luce due caratteristiche fondamentali del
medium videogioco: il fatto che sia costruito su un feedback iterato fra game e user,
nonché la virtualità degli ambienti forniti.
Questa conferenza è nata dalla collaborazione dell’Università di Reggio Emilia e Modena
con alcuni dipartimenti dell’Università di Oslo e col Center for Computer Game Research
della IT University di Copenhagen; ma in Italia, durante l’anno appena trascorso, anche lo
IULM di Milano si è organizzato per fare ricerca sui videogiochi. Non possiamo dimenticare
a tal proposito un progetto: il GamesLab
11
, un gruppo di studio e ricerca multidisciplinare
di videogiochi e mondi sintetici; e un evento: il Games@Iulm, una manifestazione con
l’intenzione di analizzare il ruolo che il videogioco ricopre nell’universo artistico e culturale
contemporaneo. È proprio in questa occasione che, oltre alla mostra di arte videoludica di
Mauro Ceolin, uno dei massimi esponenti mondiali della game art, è intervenuto il giovane
14
ricercatore videoludico Cristiano Poian, presentando una mappatura dei game studies ed
evidenziando al loro interno “una feroce diatriba” tra narratologi e ludologi: la dialettica
conflittuale che li anima lo porta a pensare che gli stessi game studies siano un gioco.
1.1. Ludologia vs. Narratologia
Il dibattito che ha coinvolto accademici e ludologi di tutto il mondo viene fatto
generalmente risalire al 1997, data di pubblicazione di due opere seminali e
sostanzialmente antitetiche: Cybertext di Espen Aarseth e Hamlet on the Holodeck di Janet
Murray. Si è anche sostanzialmente d’accordo nel ritenere che la comunità accademica
abbia archiviato la polemica nel novembre 2003, in occasione di “Level up”
12
, la prima
conferenza mondiale di ricercatori di videogiochi a Utrecht, in Olanda (Bittanti, 2005): in
quell’occasione, infatti, si espresse la “willingness to explore a diverse network of relations
with other, more established disciplinary areas”
13
. Poian, comunque, non esita a
sottolineare quanto in questi sei anni, lo scontro tra le due fazioni sia stato spietato da
entrambe le parti in gioco: ognuna ha tentato di impadronirsi del medium con lo scopo di
acquisirne l’esclusiva legittimità di studio. Il problema sta nel fatto che le due posizioni, per
quanto divergenti, hanno fatto di tutto per mantenersi distanti l’una dall’altra, talvolta fino
a sfociare in un’estremizzazione dei discorsi (Poian, 2006). Ma prima di addentrarci nel
cuore della discussione, proviamo a delineare un quadro della situazione di respiro
internazionale
14
, passando in rassegna le principali scuole di pensiero e teorie
videoludiche.
“Il giovane campo dei computer game studies è in uno stato di caos produttivo. È un’
amalgama di ricercatori provenienti da differenti discipline che portano coraggiosamente nella
discussione considerazioni anche molto contraddittorie, ma anche un’area con le proprie
conferenze, associazioni e riviste.
Anche se potrebbe non essere ovvio, questa situazione è vicina ad essere il nostro stato ideale,
e dobbiamo prendere ciò che ne viene di buono.”
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(Jesper Juul, 2005)
Uno stato ideale, secondo Jesper Juul, che dipende proprio dalla molteplicità dei punti
di vista esistenti, ma i due approcci maggiormente visibili rimangono comunque la
narratologia e la ludologia.
L’approccio narratologico
I narratologi sono accademici provenienti da molteplici ambiti di studio
16
che,
nonostante la loro eterogeneità, sono accomunati dal fatto di aver preceduto i game
studies come li conosciamo oggi, dalla volontà di studiare il videogioco secondo
prospettive già radicate all’interno della ricerca universitaria e soprattutto di studiarlo in
15
quanto “testo”, mettendo in secondo piano l’elemento dell’interazione. L’americana Janet
Murray è stata una delle prime studiose a comprendere l’importanza dell’oggetto
videoludico nell’ambito dei cosiddetti nuovi media e a considerarne il valore come medium
di tipo narrativo. Nel suo Hamlet on the Holodeck (1997) si domanda se il computer possa
offrire la base per una forma narrativa espressiva, così come, in passato, la tecnologia
della stampa aveva supportato lo sviluppo del romanzo e la tecnologia filmica quello del
cinema. La sua risposta è positiva. Il computer è un mezzo di rappresentazione con un
particolare set di proprietà: è procedurale, partecipatorio, enciclopedico e spaziale; ed
offre, attraverso il videogioco (uno dei tanti usi possibili del computer), tre piaceri in
particolare (ma non sono gli unici): l’immersione (in un altro mondo), l’agency (intesa
come l’opera di intraprendere azioni significative e osservare i risultati delle scelte e
decisioni prese
17
) e la trasformazione (dell’utente in un’altra persona). Murray definisce
l’interattività come combinazione delle proprietà procedurale e partecipatoria che insieme
offrono il piacere dell’agency. Per spiegare le caratteristiche innovative del medium
videoludico conia il termine Cyberdrama, intendendo con questo le modalità per
raccontare nuove forme di storie attraverso il computer, e sottolinea la presenza di diversi
punti in comune tra gioco e storia, ma “which come first, the story or the game? For [her],
it is always the story that comes first, because storytelling is a core human activity”
18
. Il
fulcro del pensiero narratologico di matrice americana sta in queste poche parole, che
considerano il game come un medium eminentemente narrativo, tanto che la Murray
riesce a rintracciare, con un atto di “violenza interpretativa” (Eskelinen, 2001), un
significato estrinseco anche nei giochi più astratti. Si pensi al suo approccio al Tetris
19
–
per cui è stata a lungo criticata dalla controparte ludologica – da lei interpretato come:
“una perfetta rappresentazione delle vite oberate di impegni degli americani negli anni Novanta,
del costante bombardamento di attività che richiedono la nostra attenzione e che dobbiamo in
qualche modo riuscire a infilare nei nostri affollati palinsesti; dell’ansia di riordinare la scrivania
prima del successivo attacco.” (Murray, 1997: pp. 143-144)
Come è facilmente intuibile, una simile descrizione dell’attività videoludica affonda le
sue radici “nella volontà di trovare o di creare una storia ad ogni costo” per rendere Tetris
un oggetto degno di essere analizzato. In altre parole, Murray invece di studiare il gioco in
quanto tale prova a interpretarne un ipotetico contenuto o, meglio ancora, a proiettare
“her favourite content on it”; di conseguenza, non impariamo nulla delle caratteristiche
che fanno di Tetris, prima di ogni altra cosa, un gioco (Eskelinen, idem).
Del resto, è insito nella natura dei prodotti culturali il fatto che possano assumere i più
differenti significati metaforici o associativi, e anche il game designer Chris Crawford
compie un’interpretazione simile di Space Invaders e Pac-Man,
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senza per questo
misconoscere le qualità specifiche di ognuno dei due giochi. Infatti bisogna distinguere che
giudicare legittime o meno tali letture metaforiche non significa attribuire al gioco in
16
questione un unico significato. Crawford, già nel 1982 fece vari tentativi di catturare
l’essenza dell’attività ludica, enunciandone i principi. Nel seminale testo The Art of
Computer Game Design
21
(1982), definisce il computer game come evento epocale e
come “an art form because it presents its audience with fantasy experiences that stimulate
emotion” in modo intrinsecamente partecipatorio, per poi evidenziare i quattro momenti
fondamentali che caratterizzano l’esperienza ludica:
- RAPPRESENTAZIONE. “Un gioco è un sistema formale chiuso che rappresenta
soggettivamente una porzione di realtà” (Crawford, 1982: p. 7). Con queste
parole Crawford intende un insieme di parti che interagiscono tra di loro,
governato da regole esplicite, completo e autosufficiente: “il mondo modello
creato dal gioco è internamente completo; non è necessario alcun riferimento ad
agenti esterni al gioco” (Crawford, ibidem). Anche se il gioco è irreale, il
giocatore lo ritiene soggettivamente reale, grazie all’uso della propria fantasia,
ma “un gioco che rappresenta un sottoinsieme di realtà troppo ampio sfugge alla
[sua comprensione] e diviene quasi indistinguibile dalla realtà stessa” (Crawford,
ivi: pp. 7,9).
- INTERAZIONE. La forma più completa ed evoluta di rappresentazione è quella
interattiva, ovvero quella che consente ai propri fruitori di esplorare liberamente i
rapporti di causa/effetto. Questa forma di interazione è la discriminante tra gioco
e storia, che perseguono lo stesso scopo – rappresentare la realtà – in maniere
differenti: la storia è un racconto lineare, un susseguirsi di cause ed effetti
obbligati, invece il gioco presenta “a branching tree of sequences and allows the
player to create his own story by making choices at each branch point”,
incoraggiato a esplorare alternative, contrapposizioni e possibili inversioni di
marcia (Figura 2). Queste caratteristiche fanno sì che il giocatore possa giocare
per molte volte allo stesso gioco, provando ogni volta differenti strategie, mentre
il valore rappresentativo di una storia decresce con le letture successive non
essendoci nuova
informazione. Ad ogni
modo, questo non significa
che “games are better
than story” ma che la
storia è statica mentre il
gioco è dinamico
(Crawford, 1982).
- CONFLITTO. Il giocatore,
nel cercare di raggiungere
i suoi scopi, viene
continuamente ostacolato
Figura 2. Rappresentazione grafica della
differenza tra una storia e un gioco.
17
da elementi statici o dinamici, che richiedono la presenza di un agente
intelligente: il conflitto tra agente e giocatore è inevitabile.
- SICUREZZA. “Il gioco è un modo sicuro per sperimentare la realtà” (Crawford,
ivi: p. 14): si può esperire psicologicamente il conflitto e il danno che ne deriva
escludendo la loro realizzazione fisica.
Crawford inoltre tenta una prima tassonomia dei testi videoludici, da lui classificati in
combat e sport game (che simulano un’attività umana), maze game (in cui il mondo
narrato ha una disposizione spaziale), paddle game (caratterizzati da un dispositivo di
interfaccia uomo/computer) e miscellaneous game. Più interessanti sono invece le
descrizioni ante litteram dei giochi multiplayer via rete telematica, divenuti una realtà
commerciale e sociale solo 15 anni più tardi (Maietti, 2004: p. 44). Infine, i commenti
relativi al tipo di mondo narrativo creato dal gioco ricordano alcune formulazioni
successive dei semiologi che si sono occupati di mondi possibili, con l’unica differenza che
questi ultimi non sono completi, bensì raggiungono la completezza solo durante il processo
di interpretazione del fruitore stesso, sulla base delle sue competenze enciclopediche
(Maietti, ivi: pp. 44, 147). I narratologi di impostazione semiotica hanno trovato in Italia
un punto di riferimento in Massimo Maietti, che nel documento I videogiochi come ipertesti
sincretici (1998), per quanto riguarda la manifestazione del giocatore all’interno
dell’attività ludica, individua ben quattro tipi di risemantizzazione del simulacro:
- Assente, quando il simulacro del fruitore non può essere presente (è il caso dei
giochi astratti alla Tetris), né identificarsi nel fruitore stesso (ad esempio negli
FPS);
- Individuale, quando il simulacro è un individuo, non necessariamente umano
(pensiamo a Pac-Man o Tomb Raider);
- Molteplice, quando ci sono più simulacri (caso tipico i giochi di guerra o gli RTS);
- Superindividuale, come nel caso dei “simulatori divini” (Sim City 2000 è un buon
esempio di questa categoria)
22
.
Maietti offre anche altre interessanti concettualizzazioni, all’interno di Semiotica dei
videogiochi (2004), primo vero tentativo di applicazione della teoria semiotica al gioco
digitale in maniera organica: il risultato è sia una teoria generale della testualità
videoludica, che una pratica di analisi dei singoli videogiochi. La semiotica, in quanto
disciplina che si occupa dello studio e dell’interpretazione dei segni, sembra l’approccio
privilegiato allo studio del videogioco, inteso come sistema di segni altamente codificati
(testo, suono e immagine).
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