2 CAPITOLO 1. INTRODUZIONE
1.1 Natura del Rischio
Che cos’e` il rischio? Una nota enciclopedia1 lo definisce cos`ı:
“Il rischio e` un concetto connesso all’eventualita` di subire un
danno dovuto a circostanze piu` o meno prevedibili. In medicina,
il soggetto a rischio, su cui incombe un’elevata incidenza statisti-
ca di particolari eventi patologici; rischio nucleare, connesso con
la possibilita` di esposizione a radiazioni irradiate da impianti,
apparati o materiali nucleari; in economia, nelle assicurazioni e
nella tecnica bancaria e aziendale, possibilita` di subire un danno
in seguito a fatti non prevedibili”.
Quando si parla di rischio i concetti a cui tipicamente ci si riferisce sono
gli eventi, le decisioni, le conseguenze e l’incertezza. Soprattutto il rischio di
un evento negativo (downside risk) e` menzionato, piuttosto che un rischio
di evento positivo, quindi un guadagno potenziale. Per i rischi finanzia-
ri, oggetto di questa tesi, si puo` proporre la definizione in [19]: “qualsiasi
evento o azione che puo` colpire avversamente l’abilita` di un’organizzazio-
ne nel raggiungere i propri obiettivi e l’esecuzione delle proprie strategie”,
o alternativamente, “la probabilita` quantificabile di perdita o l’aspettativa
di rendimenti minori”. Sebbene queste catturino alcuni degli elementi del
rischio, nessuna e` esauriente in tutti i contesti.
Indipendentemente da qualsiasi ambito, il rischio e` fortemente connesso
con l’incertezza e percio` alla nozione di casualita`. Smith et al. [52] e Metel-
li [41] usano a questo proposito richiamare la distinzione fra certezza, rischio
e incertezza:
• una scelta viene presa in condizione di certezza quando e` riferita a
una situazione ambientale perfettamente nota in anticipo. Il soggetto
agisce in un quadro di tipo deterministico.
1Treccani.
1.1. NATURA DEL RISCHIO 3
• una scelta e` presa in condizione di rischio quando e` riferita a piu` si-
tuazioni ambientali, ognuna delle quali esclude le altre. Sono note le
probabilita` di accadimento e le caratteristiche dei risultati associabili;
ne deriva un modello di tipo probabilistico. I risultati che emergo-
no dalle coppie scenario/probabilita` sono determinabili probabilistica-
mente: essi sono diversi qualitativamente (probabilita` di accadimen-
to) e quantitativamente (dimensione del risultato). Tutto si basa sulla
correttezza della probabilita` assegnata.
• quando si opera nell’incertezza si ha davanti a se` una vastita` di casi am-
bientali, ma non si e` in grado di conoscere oggettivamente in anticipo
ne´ le probabilita` assegnabili a ciascuna situazione, ne´ la dimensione
dei risultati potenziali; si possono solo proporre stime soggettive di
probabilita` e risultati, facendo utilizzo della capacita` di previsione e
dell’esperienza.
Nel secondo e nel terzo punto la decisione avviene in base a un mo-
dello probabilistico che determini il valore sperato di ciascuna alternativa,
cioe` il risultato ponderato per la probabilita` d’accadimento; infatti, affinche´
il rischio possa indirizzare concretamente le scelte di gestione, deve essere
suscettibile di misurazione.
Tornando alla nozione di casualita`, questa si e` sottratta da una pro-
pria spiegazione, chiara e profittevole, per molti secoli; si deve aspettare il
1933, quando il matematico russo A. N. Kolmogorov diede una definizione
assiomatica di casualita` e probabilita` [30].
Egli sviluppo` una ricerca che era ormai cristallizzata sul dibattito fra
quanti consideravano la probabilita` come limite di frequenze relative (impo-
stazione frequentista) e quanti cercavano un fondamento logico della stessa.
La matematizzazione che diede a questo concetto si mostrava adeguata a
prescindere dall’adesione all’una o all’altra scuola di pensiero, e divenne la
lingua franca nei discorsi sul rischio e l’incertezza.
4 CAPITOLO 1. INTRODUZIONE
Nel linguaggio di Kolmogorov un modello probabilistico e` descritto da
una tripletta (Ω,F , P ). Un elemento ω di Ω rappresenta una realizzazione
di un esperimento, in economia e` spesso riferito ad uno stato di natura.
L’asserzione ”la probabilita` che un evento A accada” e` indicata con P (A),
dove A e` un elemento di F , l’insieme di tutti gli eventi. P denota la misura
di probabilita`.2
Consideriamo gli esempi: un investitore che ha acquistato azioni di una
particolare societa`; una compagnia d’assicurazione che ha venduto una po-
lizza; un individuo che decide di convertire un mutuo a tasso fisso in uno a
tasso variabile.
Per modellizzare queste assunzioni un matematico dovrebbe ora definire
una posizione rischiosa uniperiodale (o semplicemente il rischio) X che sia
funzione dello spazio di probabilita` (Ω,F , P ); questa funzione e` chiamata
variabile casuale. Tralasciamo per il momento l’insieme dei possibili valori
di X non specificato. La maggior parte della modellizzazione della posi-
zione rischiosa X riguarda la sua funzione di ripartizione (nella letteratura
anglosassone viene chiamata distribution function) FX(x) = P (X ≤ x), la
probabilita` che per la fine del periodo in considerazione il valore del rischio
X sia minore o uguale a un dato numero x. Molte posizioni rischiose sono
poi indicate da un vettore casuale (X1, . . . , Xd), definito anche X; il tem-
po puo` essere introdotto giungendo alla definizione di processo casuale (o
stocastico), spesso indicato con (Xt).
2
(Ω,F .P ) e` chiamato spazio di misura (measure space). (Ω,F) e` chiamato spazio
misurabile (measurable space). L’insieme Ω e` spesso chiamato spazio campionario (sample
space) e F e` chiamata sigma-algebra (o σ-algebra o field of events). I sottoinsiemi di Ω
che sono in F sono detti insiemi misurabili di Ω rispetto a F , o piu` brevemente insiemi
F-misurabili.
1.2. IL RISCHIO FINANZIARIO 5
1.2 Il Rischio Finanziario
In questa tesi viene discusso il rischio nel contesto della finanza (sebbene
sia applicato anche nel campo delle assicurazioni). La maggioranza delle
insoddisfazioni legate agli investimenti finanziari deriva dalla mancata com-
prensione dei rischi finanziari. I comuni risparmiatori, infatti, con il termine
“rischio” si riferiscono spesso a un qualcosa di molto generico, mentre gli
esperti del settore descrivono il rischio come un elemento molto specifico e
differenziabile in diverse tipologie. In finanza, il rischio, in termini molto
generali, esprime la probabilita` di ottenere un rendimento diverso da quel-
lo atteso. Se si investono 100 euro in un investimento rischioso puntando
ad un rendimento, ad esempio, del 6%, il rischio e` che realizzando questo
investimento si possa avere un rendimento inferiore o perfino negativo.
L’avverarsi di un evento sfavorevole di questo tipo puo` accadere per sva-
riate ragioni, ciascuna delle quali identifica una tipologia di rischio diversa.
La maggior parte degli investitori comuni conosce solamente questa defini-
zione generica di rischio, ignorando completamente le diverse sfaccettature
e sfumature che nella pratica permetterebbero di muoversi con piu` tranquil-
lita` nei mercati finanziari e nei propri investimenti personali. Infatti nella
realta` esistono tipi di rischio diversi, ciascuno con le proprie caratteristiche
e possibilita` di individuazione.
Si cominci dando una breve sintesi delle tipologie di rischio presenti
nell’industria finanziaria.
1. Rischio di Mercato: e` il rischio di un cambiamento del valore della
posizione finanziaria a causa di variazioni del valore delle componenti
sottostanti da cui la posizione dipende, come azioni, obbligazioni, tassi
di cambio, commodities, ecc.
2. Rischio di Credito: e` il rischio che nell’ambito di un’operazione credi-
6 CAPITOLO 1. INTRODUZIONE
tizia, il debitore non assolva, anche solo in parte, ai suoi obblighi di
rimborso del capitale e di pagamento degli interessi.
3. Rischio Operativo: e` il rischio di perdite per aspetti connessi all’orga-
nizzazione dei processi, a errori dovuti al fattore umano, alla frode e
all’infedelta` dei dipendenti, ma anche derivanti dal fattore tecnologico
(system failure). A fianco di queste cause interne vi sono le origini
esterne di rischi operativi, cioe` eventi che possono provocare danni al
funzionamento dei processi o, piu` in generale, determinare delle perdi-
te. Rientrano in tale categoria i rischi legali, di reputazione e i rischi
strategici.
I limiti di queste tre categorie di rischio non sono sempre ben definiti,
ne´ formano una lista esaustiva di tutti i possibili rischi che un’istituzione
finanziaria incontra. Ci sono nozioni di rischio che affiorano in perlomeno
tutte le categorie come il rischio di modello e il rischio di liquidita`: il primo e`
associato all’uso di modelli mal specificati (inappropriati) per la misurazione
del rischio. Pensiamo, per esempio, al modello di Black-Scholes per il pri-
cing di un’opzione esotica in circostanze le cui assunzioni sulle componenti
sottostanti sono violate (per es. l’ipotesi di rendimenti distribuiti normal-
mente). Puo` essere constatato che il rischio di modello e` sempre presente
in un certo grado. Il rischio di liquidita` si presenta quando un investimento
ha dei problemi di negoziabilita`, nel senso che non puo` essere comprato o
venduto abbastanza velocemente per prevenire o minimizzare una perdita.
La liquidita` puo` essere vista [19] come “ossigeno per un mercato salutare”.
Si ha bisogno di essa per sopravvivere anche se per la maggior parte del
tempo non si e` consapevoli della sua presenza. La sua assenza, comunque,
si percepisce immediatamente, spesso con conseguenze disastrose.
I concetti, le tecniche e gli strumenti che verranno introdotti si appli-
cheranno principalmente alle tre categorie di rischio di base quali mercato,
credito e operativo. E` bene evidenziare che l’unica via fattibile per un con-
1.3. MISURAZIONE E GESTIONE 7
trollo del rishio finanziario consiste nell’usare un approccio integrato che
prende tutte le tipologie di rischio e le loro interazioni. Sebbene questo
sia un obiettivo chiaro, i modelli correnti non riescono ancora a soddisfarlo
pienamente.
1.3 Misurazione e Gestione
Questo lavoro si concentrera` soprattutto sulle tecniche di misurazione
del rischio, un’attivita` che e` parte del processo di gestione del rischio. Si
cerchera` ora di chiarire i due concetti.
Misurazione del Rischio
Si ipotizzi di detenere un portafoglio composto da d investimenti con
rispettivi pesi u1, . . . , ud per cui un cambiamento nel valore del portafoglio
su un determinato orizzonte temporale (il cosiddetto P&L, da profit and loss,
profitto e perdita) puo` essere scritto come X = ∑d
i=1 uiXi, dove Xi indica
il cambiamento in valore dell’investimento i-esimo. Misurare il rischio di
questo portafoglio consiste essenzialmente nel determinare la sua funzione
di ripartizione FX(x) = P (X ≤ x), o i funzionali che descrivono questa
funzione come la sua media, la varianza o il 99-esimo percentile.
Per ottemperare a questo, e` necessario calibrare un modello congiunto
per il vettore casuale degli investimenti (X1, . . . , Xd). Si approfondira` meglio
questo problema nel capitolo 2. A questo punto si puo` constatare che la
misurazione del rischio e` per lo piu` un concetto statistico; basandosi su
osservazioni storiche e utilizzando un modello specifico, viene calcolata una
stima statistica della distribuzione della variazione in valore della posizione
o di uno dei suoi funzionali. Come si vedra`, questo non sara` un compito
facile con un’unica soluzione.
Dovrebbe essere chiaro che una buona misurazione del rischio e` un dove-
8 CAPITOLO 1. INTRODUZIONE
re. Sempre piu` spesso i clienti delle banche chiedono informazioni dettagliate
e oggettive sui prodotti che comprano e le banche devono affrontare azioni
legali quando queste informazioni mancano. Per ogni prodotto venduto deve
essere eseguita una accurata quantificazione dei rischi sottostanti, permet-
tendo al cliente di decidere se il prodotto in offerta corrisponde o meno alle
sue richieste.
Gestione del Rischio
Una risposta generale alla domanda che cos’e` il risk management viene
fornita da Kloman (cf. [29]) che scrive:
Per molti sociologi, politici e accademici e` la gestione dei ri-
schi ambientali e nucleari, quei macro-rischi generati dalla tecno-
logia che sembrano minacciare la nostra esistenza. Per i bancari e
gli analisti finanziari, e` l’uso sofisticato di tecniche come la coper-
tura dal rischio di cambio (currency hedging) e gli interest-rate
swap. Per gli acquirenti e venditori di polizze assicurative e` il
coordinamento dei rischi assicurabili e dei costi di assicurazione.
Per gli amministratori degli ospedali puo` significare “garanzia
della qualita`”. Per i professionisti della sicurezza e` la riduzione
di incidenti e infortuni. In conclusione, il risk management e` una
disciplina per vivere con la possibilita` che eventi futuri possano
causare effetti dannosi.
E` soprattutto l’ultima frase a catturare l’essenza generale del risk ma-
nagement, sebbene per un’istituzione finanziaria si possa andare piu` nel
dettaglio. L’attitudine al rischio della banca non e` passiva e difensiva: in-
fatti una banca prende rischio attivamente e volentieri allo scopo di ottenere
un profitto che non si raggiuge senza assumere del rischio. Anzi, di fatto
la gestione del rischio puo` essere vista come la competenza centrale di una
1.4. LO SVILUPPO DEL RISK MANAGEMENT IN FINANZA 9
compagnia d’assicurazione o di una banca. Un’istituzione finanziaria, usan-
do la sua expertise, la posizione di mercato e la struttura finanziaria, puo`
controllare i rischi rimaneggiandoli e trasferendoli nel mercato in vari modi.
Gestire il rischio e` percio` un aspetto legato alla capacita` di preservare i
flussi di entrate e legato alle tecniche di asset liability management (ALM)3
Nel paragrafo 1.5 si discuteranno queste conclusioni piu` dettagliatamente
dal punto di vista dell’azionista.
1.4 Lo sviluppo del Risk Management in Finanza
Sebbene il risk management sia stato descritto come “una delle piu` im-
portanti innovazioni del 20esimo secolo” (cf. [53]), qualche concetto che e`
usato nel risk management moderno, in particolare i derivati, e` stato utiliz-
zato gia` nei tempi antichi (cf. [19]). Il primo uso di un contratto di opzione
si ebbe nel 17esimo secolo in Olanda e nel 18esimo a Londra (cf. [13]). Un
derivato e` uno strumento finanziario il cui valore e` basato sul valore di mer-
cato di altri beni (azioni, indici, valute, tassi, ecc.). Ad esempio, una opzione
call europea con prezzo d’esercizio K e scadenza T da` al detentore il diritto,
e non l’obbligo, di ottenere alla scadenza dal venditore il titolo sottostante
al prezzo K; una put europea da` il diritto invece di vendere il sottostante
al prezzo K. Mentre l’utilizzo di idee del risk management, quali i derivati,
possono essere tracciate abbastanza addietro, e` solo nel 20esimo secolo che
fu sviluppata una loro teoria di valutazione. Bachelier e Einstein agli inizi
del 900 furono i precursori della nascita della finanza quantitativa, il primo
con la teoria del random walk e il secondo con la scoperta del moto brownia-
no geometrico. Prima degli anni ’50 la scelta di un investimento si basava
solamente sul suo rendimento. Nel 1952, Harry Markowitz (cf. [38]) pubblico`
3Definita come la gestione di un societa` finanziaria in modo da ottenere un rendimento
positivo sui fondi investiti e allo stesso tempo di mantenere un accettabile surplus delle
attivita` (asset) sulle passivita` (liability).
10 CAPITOLO 1. INTRODUZIONE
la teoria della selezione di portafoglio, che allargava la valutazione di un in-
vestimento ad un profilo rischio-rendimento, dove il rischio veniva misurato
dalla deviazione standard (standard deviation). Attraverso il concetto di
frontiera efficiente il gestore di portafoglio puo` ottimizzare il rendimento
per un dato livello di rischio. Gli anni a seguire videro una crescita esplosiva
delle metodologie del risk management, includendo idee quali il Sharp ratio,
il Capital Asset Pricing Model (CAPM) e l’Arbitrage Pricing Model (APT).
La famosa formula di Black-Scholes-Merton (cf. [10]) per il prezzo di
una call europea apparse nel 1973. L’importanza di questa formula fu
sottolineata solo nel 1997 come un nuovo metodo per la valutazione dei
derivati.
La metodologia sviluppata per il pricing razionale e la copertura dei de-
rivati finanziari cambio` la finanza. I mercati crebbero enormemente e furono
scambiati sempre piu` contratti. L’innovazione accademica e tecnologica per-
mise un continuo sviluppo di prodotti sempre piu` sofisticati e complessi. La
crisi del mercato azionario americano del 1978, le crisi petrolifere degli anni
’80 e la rovina della piu` antica merchant bank del Regno Unito del 1995
aumentarono sempre di piu` la domanda di esperti del rischio e di prodotti
strutturati. Tre anni piu` tardi fall`ı l’hedge fund americano Long-Term Ca-
pital Management, di cui Black e Scholes erano i teorici e gestori. Comincio`
ad accrescere la necessita` di una regolamentazione piu` accurata dei mercati
finanziari. Poiche´ in alcuni di questi casi i derivati avevano senza dubbio
giocato un ruolo, sono stati analizzati piu` attentamente; al tempo stesso
sono comunque parte di tutte le borse del mondo ed e` pertanto impensabile
una gestione del rischio seria senza questi strumenti.
La maggior parte della regolamentazione e` stata creata dal Comitato
di Basilea (Basel Committee of Banking Supervision), un’organizzazione
internazionale istituita dai governatori delle Banche Centrali del G10 alla
fine del 1974.
1.4. LO SVILUPPO DEL RISK MANAGEMENT IN FINANZA 11
Non ha capacita` regolamentare autonoma (anche se i paesi che vi aderi-
scono sono implicitamente vincolati dagli accordi raggiunti e i non aderenti
si adeguano a quello che di fatto diventa uno standard regolamentare) e ha
come obiettivo il miglioramento della collaborazione internazionale al fine di
garantire la stabilita` monetaria e dei mercati finanziari.
Basilea I
Il primo accordo di Basilea risale al 1988 e diede una serie di requisiti
patrimoniali minimi per gli istituti di credito. La sua maggior enfasi attin-
geva il rischio di credito, chiaramente la tipologia di rischio piu` importante
nell’industria bancaria. In ogni modo, Basilea I impiego` un approccio che
fu abbastanza scadente e che misurava il rischio superficialmente. Anche
la trattazione dei derivati era piuttosto insoddisfacente. Nel 1993 venne
pubblicato un rapporto nel quale ci si indirizzava per la prima volta sui
prodotti fuori bilancio (off-balance sheet), di cui anche i derivati fanno par-
te. Nello stesso periodo l’industria bancaria noto` chiaramente il bisogno di
una migliore gestione del rischio di questi nuovi prodotti. Alla JpMorgan,
per esempio, il famoso rapporto Weatherstone 4.15 domando` un resoconto
giornaliero del rischio di mercato della banca da essere spedito al direttore
esecutivo (CEO, Chief Executive Officer) nel tardo pomeriggio (per questo
motivo “4.15”). Nacque cos`ı il Value-at-risk (VaR) come misura del rischio
di mercato e l’approccio RiskMetrics divento` lo standard industriale [45]. In
un mondo altamente dinamico con una forte attivita` di mercato divento` ne-
cessario avere una valutazione istantanea delle posizioni intraprese nel mer-
cato (marking-to-market). Inoltre, nei settori dove molte posizioni (lunghe e
corte) vengono scritte sullo stesso sottostante, gestire il rischio basandosi su
una semplice aggregazione delle posizioni nominali divento` insoddisfacente.
Le banche, percio`, sentirono il bisogno di considerare gli effetti netti. Nel
1996 l’emendamento a Basilea I prescrisse il cosiddetto modello standardiz-
12 CAPITOLO 1. INTRODUZIONE
zato per il rischio di mercato, ma allo stesso tempo permise alle banche piu`
grandi di adottare un modello interno basato sul VaR (VaR-based). L’imple-
mentazione legale fu raggiunta nell’anno 2000. Il problema della valutazione
del rischio di credito rimase inrisolto e le banche continuarono a vendicare
il fatto che non c’erano abbastanza incentivi per diversificare i portafogli
creditizi le regole di vigilanza del capitale erano troppo insensibili al rischio.
Basilea II
Dal 2001 inizio` un processo di consultazione per un nuovo accordo di
Basilea (Basilea II) con entrata in vigore l’1 gennaio 2007. L’obiettivo del
nuovo accordo e` quello di incentivare le banche a sviluppare sistemi di ge-
stione del credito fondati su una valutazione piu` oggettiva e puntuale dei
rischi assunti, in modo da aumentare la stabilita` del sistema bancario inter-
nazionale. Con l’adozione di questi nuovi criteri, le banche dovranno fissare
la clientela attraverso un rating che identifichera` il merito creditizio (grado
di solvibilita`). Conseguenza di cio` sara` una selezione della clientela sulla
base del rating attribuito e un differente costo del credito erogato sempre
determinato sulla base del merito creditizio.
Il contenuto del nuovo accordo si articola su tre pilastri; attraverso que-
sto concetto il Comitato di Basilea mira a raggiungere un approccio al risk
management piu` olistico, che si focalizza sulle interazioni tra le differenti ca-
tegorie di rischio. Allo stesso tempo evidenzia che esiste una dissomiglianza
tra rischi quantificabili e non. Esaminiamo i tre pilastri:
• requisiti patrimoniali minimi : si tratta di un affinamento della misura
prevista dall’accordo del 1988 che richiedeva un requisito di accanto-
namento dell’8%. Sebbene la valutazione del rischio di mercato sia
rimasta invariata relativamente al primo accordo, per il rischio di cre-
dito e per la prima volta per il rischio operativo le banche possono
scegliere tra tre approcci (qualche dettaglio e` discusso piu` avanti).
1.4. LO SVILUPPO DEL RISK MANAGEMENT IN FINANZA 13
• il controllo prudenziale dell’adeguatezza patrimoniali : tenendo conto
delle strategie aziendali in materia di patrimonializzazione e di assun-
zione dei rischi, le Banche Centrali avranno una maggiore discrezio-
nalita` nel valutare l’adeguatezza patrimoniale delle banche, potendo
imporre una copertura superiore ai requisiti minimi.
• disciplina di mercato: sono previste regole di trasparenza per l’in-
formazione al pubblico sui livelli patrimoniali, sui rischi e sulla loro
gestione
In un contesto bancario, il piu` antico tipo di rischio ad essere regolato e`
il rischio di credito. Come menzionato prima, con Basilea I si diede scarso
peso ad esso. Con Basilea I e II il rischio di credito veniva accertato come
somma delle attivita` ponderate per il rischio, cioe` la somma dell’esposizione
nominale pesata per un coefficiente che rifletteva il merito creditizio del-
la controparte. In Basilea I questo era suddiviso in tre semplici categorie:
governativo, banche regolamentate e altri. A causa di questa insufficienza,
l’implementazione di Basilea I era estremamente semplice. Ma con lo svi-
luppo di database piu` dettagliati, il miglioramento dei modelli analitici e
la crescita rapida del mercato dei derivati creditizi, le banche pressarono le
autorita` di vigilanza per far nascere una guida piu` specifica sull’adeguatezza
del capitale.
Questo e` il contenuto principale di Basilea II, nel quale le banche hanno
la possibilita` di scegliere tra un metodo standard (standardized) e due me-
todi IRB (internal-ratings-based) piu` avanzati. La scelta finale dipendera`
dalla dimensione e dalla complessita` della banca; quelle piu` grandi e di livel-
lo internazionale sono favorite a sviluppare gli approcci piu` all’avanguardia.
In ogni modo, le banche che hanno optato per l’approccio tradizionale pos-
sono differenziare meglio i vari rischi di credito di un portafoglio, ma questo
perche` Basilea II ha aumentato sostanzialmente la sensibilita` dei vari rischi
assunti. Sotto il piu` avanzato modello IRB, il giudizio di una banca sulla
14 CAPITOLO 1. INTRODUZIONE
rischiosita` di un’esposizione creditizia e` usato come input al calcolo del ca-
pitale a rischio. Il costo del capitale totale e` poi definito aggregando i vari
input interni usando formule specificate dal Comitato di Basilea. Se questo
permette una crescente sensitivita` al rischio dell’approccio IRB rispetto a
quello standardizzato, gli effetti di portafoglio e di diversificazione non sono
valutati; affinche´ lo siano si dovrebbero utilizzare modelli interni completi,
come quelli per il market risk. Questo problema e` correntemente in dibat-
tito nella comunita` del risk management ed e` ampiamente atteso che nei
prossimi anni verra` rivista questa ultima versione dell’accordo sul capitale,
per incorporare tali metodologie.
Per quanto riguarda l’introduzione della valutazione dei rischi operativi,
tutti sono d’accordo che i rischi umani (incompetenze, frodi), i rischi di pro-
cesso (modelli, transazioni e controlli operativi) e i rischi tecnologici (system
failure, errori di programmazione) siano importanti, ma la maggior parte del
disaccordo si ha sul quando e come questi devono essere quantificati.
I benefici che emergono da questo regolamento non sono messi in dubbio.
Permangono, tuttavia, numerose critiche e preoccupazioni quali:
• il fattore costo di creare e implementare un funzionante system di risk
management, soprattutto per le istituzioni piu` piccole.
• il problema della prociclicita` finanziaria, che potrebbe portare le ban-
che nei periodi di rallentamento economico a ridurre gli impieghi, cau-
sa il crescere del rischio, con la potenzione conseguenza di inasprire la
crisi stessa.
• la regolamentazione puo` portare ad un’eccessiva sicurezza nella qualita`
delle misure statistiche di rischio
• la penalizzazione del finanziamento alle piccole e medie imprese (PMI)
indotto dal sistema dei rating interni, che andra` a generare un legame
di corrispondenza diretta tra grado di rischio dell’impresa da finanziare
1.5. PERCHE´ GESTIRE IL RISCHIO FINANZIARIO? 15
e pricing, fino al’eventuale possibilita` di portare determinate aziende
ad essere emarginate all’accesso al credito.
• la discriminazione tra le banche grandi e quelle piccole, per il fatto
che sulla base dell’attuale impostazione, queste ultime non possono
utilizzare le metodologie piu` avanzate di valutazione e attenuazione
dei rischi, per cui subiranno un onere patrimoniale maggiore rispetto
a quelle di grandi dimensioni.
1.5 Perche´ gestire il Rischio Finanziario?
Un problema importante di cui gia` si e` parlato e` perche´ si dovrebbe
investire in primo luogo nel Risk Management. Questa domanda puo` essere
posta da varie prospettive, includendo i clienti di una istituzione finanziaria,
i suoi azionisti, gli amministratori, i direttori, gli organi di vigilanza, i politici
o il settore pubblico in generale. Ognuno di questi partecipanti puo` avere
una risposta differente, e alla fine del giorno, deve essere trovato un equilibrio
tra i vari interessi. La societa` moderna confida in una funzione agevolatrice
del sistema bancario e assicurativo e ha un interesse collettivo alla stabilita`
di tale sistema. Il processo regolatorio culminato con Basilea II e` stato
fortemente motivato dalla paura del rischio sistematico4. La societa` vede
quindi il risk management positivamente e chiede agli organi di vigilanza
di creare una struttura che salvaguardi i suoi interessi. Consideriamo il
dibattito che coinvolge l’uso e l’abuso dei derivati. La vigilanza serve a
ridurre il rischio del cattivo utilizzo di questi prodotti, ma allo stesso tempo
riconosce il loro valore all’interno del sistema finanziario globale. Forse,
contrariamente alla visione popolare, i derivati dovrebbero essere visti come
4
il pericolo che i problemi di una singola istituzione finanziaria eccedano e in situazioni
estreme, spezzino il normale funzionamento dell’intero sistema finanziario.