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Devo anche confessare che, arrivato ai miei 67 anni, con alle spalle un intenso impegno
nello studio e nell’operare, trovo difficoltà ad applicarmi ad uno studio teorico intenso, anche se
rimango sempre appassionato alla lettura di qualche testo significativo che, in questa fase, mi dà
anche l’eccitazione come di trovarmi a colloquiare con un autore importante e di chiara fama,
riprendendone le considerazioni per ampliarle o discostarmene adducendo la mia esperienza
alternativa. Solo per fare un recente piccolo esempio, Husserl (come riportato da Moustakas nel
testo “Fenomenologia e Integrazione Pluralistica” di Giusti & Iannazzo; p. 24) intende, per
fenomenologia, “una scienza che descrive che cosa una persona percepisce, sente e conosce nella
sua esperienza e consapevolezza immediate”. Sembra che, per Husserl, la consapevolezza
costituisca una qualità, una dote naturale, come i cinque sensi, quando nella mia esperienza è il
risultato di un lungo e sofferto Viaggio interiore alimentato da insight, esperienza e conoscenza
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.
E poco prima, nel testo citato (p.19), afferma che “la presa di coscienza implica una correlazione
tra il contenuto della propria consapevolezza e la propria esperienza” ovvero per metterla in
formula, con la mia deformazione a sintesi ingegneristica, risulterebbe:
presa di coscienza = f (consapevolezza; esperienza) (1)
ma se, come mi chiarisce Iannazzo, la presa di coscienza si può assimilare all’insight, la (1),
considerando la consapevolezza come qualcosa di laboriosamente acquisito lungo un ‘processo’
- in cui entrano in gioco conoscenze, esperienze, insight, proprie caratteristiche biologiche -
dovrebbe diventare:
consapevolezza = f (presa di coscienza; esperienza; conoscenza; caratteristiche biologiche) (2)
Ho riportato questo esempio non a caso, perché al centro del mio lavoro con il Cliente sta
il guidarlo in una crescita in consapevolezza. Consapevolezza rappresenta per me un processo, in
accordo con la (2), in cui si cerca e si arriva a dipanare il groviglio emozionale che molto spesso
fa dire al Cliente “sto male” senza riuscire a descrivere quel suo star male, vederne le
componenti e le dinamiche, spesso i circoli viziosi, i conflitti interni e le coazioni a ripetere. Un
processo che, come sintetizzato nella (2), si articola su prese di coscienza o insight, esperienza
terapeutica, conoscenze acquisite e soprattutto sul ‘sentire’, osservando il ‘dentro’ se stessi ad un
livello sempre più profondo.
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Per Husserl “le cose ‘si danno’ nell’intuizione, nel senso che si mostrano” (Severino; p.196) e questo mostrarsi alla
“coscienza…è evidente indipendentemente dai processi dai quali esso risulta. Anche se questi processi hanno un
carattere radicalmente problematico e sono sprovvisti di ogni garanzia assoluta, l’apparire di quel contenuto, che viene
inteso come risultato di tali processi …..è assolutamente vero e incontrovertibile” (id.; p.202,203). Ma come fa
“l’apparire di quel contenuto” ad essere “vero e incontrovertibile” se risulta da processi con “un carattere radicalmente
problematico…sprovvisti di ogni garanzia assoluta”?? È su tale domanda che, a mio parere, si innesta il problema
della ricerca e del laborioso sviluppo di consapevolezza che vuole ‘osservare’ e cercare di chiarire quei processi.
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Al di là di esempi, notazioni e divagazioni, quel che voglio qui in generale rilevare, è che,
nella mia esperienza, la consapevolezza ha rappresentato una qualità conquistata durante un
lungo e tormentato Viaggio interiore ricercando, mettendomi in discussione, immergendomi nel
sentire, rischiando, confrontandomi etc. Si potrebbe dire per la consapevolezza la stessa cosa
della fenomenologia come afferma Owen: “La fenomenologia (la consapevolezza) respinge
l’inflessibilità e la rigidità a favore del ricercare, del viaggiare che va in una direzione mutevole”
(id.; p. 25; corsivo mio).
Consapevolezza vuol dire accorgersi degli occhiali attraverso cui guardiamo e
distorciamo i fatti, le situazioni e che, di conseguenza, condizionano i nostri comportamenti
mentre restiamo convinti di essere obiettivi, liberi e competenti. Occhiali costituiti da credenze,
convinzioni, valori, atteggiamenti che, nonostante la nostra convinzione di esserceli creati in
autonomia e con intelligenza, sono in realtà la sedimentazione, l’accumulo, la metabolizzazione
di quello che genitori, insegnanti, figure autorevoli, sacerdoti etc. ci hanno trasmesso.
Accorgersi, in sintesi, che siamo come dei robot che agiscono in base ai programmi che in essi
sono stati installati e che sostanzialmente ci condizionano a comportamenti non molto dissimili
da quelli dei bambini che siamo stati e che continuiamo ad essere.
Consapevolezza vuol dire mettersi in Viaggio, alla ricerca del vero se stesso per diventare
adulti maturi capaci di rimanere più saldi sulle proprie gambe, di gestire difficoltà, disagi e
frustrazioni senza scadere nelle infantili lamentele o pretese od orgogliose chiusure. Adulti che si
incontrano sui problemi per cercare soluzioni sapendo che lo scontro rende tutti perdenti.
In termini pratici consapevolezza è allora la capacità di comprendere come salvaguardare
il proprio benessere, il piacere di esser-ci anche quando la vita, la realtà ci mette di fronte a
problemi, frustrazioni, stress, pressioni a fare o a “dover essere”. Perché si può evitare di entrare
nelle nevrosi o nel malessere fatto di paure, vergogne, dolore, rabbia, rassegnazione, depressione
e così via. Consapevolezza diventa così il riuscire a tenere ben saldo il timone, quando ci
veniamo a trovare tra le onde del malessere che si agitano al proprio interno, e mantenere la rotta
utile a “tornare a riveder le stelle”.
Provo a dare una definizione succinta di consapevolezza, mutuando le parole di Carl
Rogers: è “come un’illuminazione di ciò che avviene all’interno dell’individuo” (p.219) che ha
la capacità di non frapporre “barriere, né inibizioni che impediscano l’esperienza piena di
qualsiasi cosa sia presente nell’organismo” (p.216). La ricerca e il laborioso Lavoro di sviluppo
della consapevolezza sta nell’osservare e sciogliere quelle “barriere e inibizioni”. A seguire ed
importante, sta lo sviluppo della capacità di fare distacco, cioè non restare travolti da emozioni e
pensieri spiacevoli, giudizi, critiche, conflitti etc., cioè da quelli che possiamo definire come
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‘stati negativi’. Un distacco magari molto piccolo all’inizio, ma pian piano sempre maggiore fino
ad arrivare a disidentificarsi, riuscire a non immedesimarsi ed essere un tutt’uno con quegli stati
negativi, considerandoli semplicemente come un sintomo di qualcosa da esplorare e con cui si
può convivere mentre si lavora per migliorare il proprio benessere. Un distacco con cui poter
osservare e contenere, per quanto possibile con serenità e rilassamento, il proprio processo
emozionale nelle sue componenti e relazioni tra esse; capace di trovare i nessi tra presente e
passato, tra quel che si sente nel presente e la propria storia; capace di valutare l’influenza di
tutto ciò sul proprio comportamento e di questo sugli altri con cui si è in relazione. Perché, ad
esempio, è importante non restare catturati e rimanere un tutt’uno con il dolore o la
collera/rabbia o la paura e riuscire a collocare quelle emozioni spiacevoli in uno
spazio/contenitore più ampio in cui, oltre le emozioni, ci possa essere una consapevolezza e
un’intelligenza che sappiano guardare oltre, per trovare soluzioni od alternative utili ad alleviare
o trasformare quelle emozioni/situazioni spiacevoli. Anche per il solo fatto di considerarle non
una condanna o una situazione definitiva o prevista nel futuro, ma semplicemente un evento,
un’opportunità per conoscerci meglio, scoprire nuove risorse per ripartire più forti e con più
fiducia in noi stessi. Si tratta, in definitiva, di riuscire a non restare sopraffatti e un tutt’uno
(identificati) con le sensazioni di dolore o rabbia o paura, ma, attraverso un lavoro di
consapevolezza e di osservazione di sé, arrivare a fare distanza da quelle emozioni ‘negative’,
metterle come a lato di se stessi, pur restandoci in contatto. Per parlare su e non nel dolore o
rabbia o paura. Arrivare, dunque e anche, a meta-comunicare.
Questi brevi cenni introduttivi mi valgono a introdurre e motivare il perché, tra i diversi
approcci utilizzati, ne presento anche uno mio personale, comunque integrato con gli altri sia in
termini di sinergia che di sua costituzione.
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1.2 approcci e modelli utilizzati
Quel che rilevo, molto spesso, nei clienti e, più in generale nelle persone con cui
interagisco, è il loro stare nel meccanismo di difesa della “razionalizzazione” con scarso accesso
al loro sentire che, se pure c’è, viene razionalizzato o evitato con meccanismi nevrotici di
‘distrazione’. Il tentativo di indirizzarli al sentire ed al corpo mi fa utilizzare l’approccio
bioenergetico del modello biofunzionale-corporeo che, lavorando sul corpo e attraverso il corpo
può essere di aiuto nel far affiorare un sentire rimosso.
Come sostiene Lowen, ritengo “importante l’espressione delle emozioni trattenute,
perché consente la liberazione delle energie necessarie al cambiamento” (Giusti; Montanari;
Montanarella; p.113). Ciò porta sovente degli insight che forniscono al Cliente una nuova,
diversa percezione di sé e degli altri. Nel processo terapeutico “le emozioni vengono comprese
attraverso l’imitazione e la replica, e non attraverso l’interpretazione” (id.; p. 117). Come Lowen
do molta importanza alla respirazione, guidando spesso il Cliente in meditazioni che gli facciano
‘sentire’ il corpo e, soprattutto, il respiro, oltre che le emozioni. Ritengo altresì di notevole aiuto
il grounding e gli esercizi che permettono di mobilitare l’energia e alleggerire il senso di
pesantezza del Cliente, connesso ai suoi ‘stati negativi’, per sentire un maggior radicamento sul
terreno. Il rilassamento e la respirazione profonda e naturale permettono inoltre di creare un certo
distacco tra sé e i problemi vissuti, oltre che essere fonte di energia.
Inoltre, poiché come affermava il filosofo greco Epitteto (scuola ‘stoica’; 50 – 125 d.c.)
“non sono i fatti che turbano gli uomini, ma i giudizi che gli uomini formulano sui fatti”, ritengo
che il modello cognitivo-comportamentale sia di efficace integrazione per ristrutturare credenze,
opinioni, valori, atteggiamenti che determinano i comportamenti e il sentire.
A partire dalla osservazione guidata dei propri comportamenti ‘automatici’ e della loro
riconduzione alle esperienze dell’infanzia e familiari, il Cliente può prendere coscienza, divenire
consapevole dei condizionamenti subiti e appresi, per poterli depotenziare fino a prendere le
distanze da quegli ‘automatismi’. Bandura afferma che non è solo l’influenza dell’ambiente a
determinare lo sviluppo della natura umana, e che questa influenza “è modulata dalle
caratteristiche genetiche e biochimiche individuali” per cui “il funzionamento psicologico è il
risultato dell’interazione tra fattori personali (pensieri, aspettative, percezione di sé) e fattori
ambientali (azioni sociali, atteggiamenti degli altri, variabili fisiche)” (id.; p.53). Credo, tuttavia,
che attraverso uno sviluppo di consapevolezza si possa ampliare l’area della dipendenza del
funzionamento psicologico dai fattori personali, al di là di quanto già espresso da Bandura.
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Ad esempio per l’entità delle risposte emozionali di reazione rispetto a pericoli percepiti,
reali o immaginari, provenienti dall’ambiente e, dunque, quel funzionamento psicologico può
essere molto migliorato attraverso una crescita in consapevolezza che può arrivare sia ad
influenzare anche alcune caratteristiche emozionali della persona, di norma ricondotte alla
biologia, come ad esempio la pervasività dell’emozione; sia ad uscire dalle reazioni automatiche
ed inconsapevoli e poter accedere ad azioni guidate da consapevolezza e intelligenza, fino alla
creatività.
Se infatti pensiamo che all’entità dell’emozione e al suo mantenimento concorrono:
• l’ambiente esterno (ad esempio la fiducia, tolleranza, cooperazione, accettazione
che in esso si possono trovare);
• le aspettative o pretese;
• i collegati pensieri (ad esempio “cosa succederà se…”; “dopo tutto quello che ho
fatto per…” etc.) e, con essi
• l’auto-immagine (l’idea che ho di me; cosa penso di me, come mi considero etc.);
• la presenza di uno ‘stato di emergenza’
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, più avanti meglio descritto a proposito
della fisiologia, a sua volta dipendente da
• la biologia (ad esempio pressione sanguigna, ritmo cardiaco, produzione di
ormoni etc.) e da
• la tendenza all’azione (attacco; fuga; inibizione).
possiamo concordare sul fatto che la sensibilità allo ‘stato di emergenza’, la biologia e la
tendenza all’azione sono fattori genetici, diversi per ognuno e immodificabili. Su pensieri,
autoimmagine, aspettative/pretese e pervasività dell’emozione, in particolare connessi ad uno
‘stato di emergenza’, si può però intervenire attraverso la consapevolezza. Anche sull’ambiente
esterno, per quanto è alla nostra portata, possiamo pure intervenire, usando la consapevolezza e
la comunicazione.
Così pure, il processo descritto da Meichenbaum che “ritiene necessario il cambiamento:
a) della struttura cognitiva che controlla e dirige la scelta dei pensieri e li organizza all’interno di
schemi e modelli, e b) del ‘dialogo interno’ delle persone, che influenza il modo di vedere le
cose e di comportarsi” (id.; p.54) corrisponde, nella mia ottica, ad uno sviluppo di
consapevolezza, tema centrale nel mio modello, più avanti succintamente presentato, e nel lavoro
con il Cliente.
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Quando il cervello rettiliano avverte, percepisce un pericolo per l’integrità fisica scatena uno ‘stato di emergenza’,
lanciando segnali di allarme che alterano la fisiologia (ad esempio variazioni del ritmo cardiaco, della produzione di
ormoni etc.) e ci allertano con una sensazione di paura predisponendoci, così come negli animali, a reazioni di difesa
automatiche ed immediate: la fuga, l’attacco, l’inibizione dell’azione.