4
CAPITOLO I
L’INFANZIA, TRA OTTOCENTO E NOVECENTO
1.1 L’infanzia rurale
La realtà infantile del passato è differenziata in base alla sua appartenenza sociale.
L’infanzia dei bambini della classe rurale non è stata allietata dai giochi, cosicché
spesso la strada o la campagna diveniva il loro humus di formazione, ciò si traduceva
anche in una precocità di crescita, in un’adultizzazione che avviava prematuramente
al mondo del lavoro e alla delinquenza minorile. È la storia di un’infanzia negata nella
sua essenza e di un faticoso iter di emancipazione, di attività agricola e condizione
alienata dell’infanzia, che veniva tra l’altro, legislativamente poco tutelata
1
.
I bambini delle classi povere, nell’ambito della famiglia, costituivano una potenziale
forza-lavoro; erano infatti esili braccia utili ad incrementare il magro bilancio
familiare.
Nelle aree agricole del Centro-Nord ed in gran parte del Sud (zone legate ad una
società di tipo tradizionale caratterizzate da culture arcaiche), i bambini, all’età di sei
o sette anni, svolgevano mansioni come: pascolare il bestiame, falciare l’erba,
trasportare legname dai boschi. Ai bambini che per settimane conducevano il pascolo
restando fuori casa tutto il giorno, era preparato un pranzo fugace da consumare per
strada con cipolle, pane e peperoni, o formaggio di casa.
I bambini erano i primi ad essere preda della malaria nelle zone dove questa era
endemica, e lo stesso accadeva per le altre malattie, come la pellagra
2
: l’aspetto fisico
di questi bambini era spesso deforme, conseguenza appunto di malnutrizione, scarsa
1
Cfr. G. DI BELLO, L’infanzia italiana nei progetti di legge e di riforma del secondo
Ottocento, in C. COVATO– S. ULIVIERI (a c. di), Itinerari nella storia dell’infanzia,
Milano, Unicopli, 2001, pp.181-196.
2
«Le carenze alimentari, la situazione di estremo degrado igienico della maggioranza
delle abitazioni rurali, ma anche urbane, furono causa della diffusione di malattie
come il rachitismo, la scrofola, il tifo […] In particolare, nella valle Padana, era tipica
la pellagra: i bambini che ne erano colpiti presentavano forme di degenerazione fisica
e psichica tali da portare spesso alla morte»; M. FERRARI, L’igiene e la salute
dell’infanzia, in F. DELLA PERUTA, La lenta presa di coscienza delle drammatiche
condizioni di vita dell’infanzia, nella società italiana dell’800, in COMUNE DI
MODENA, ASSESSORATO ALLA PUBBLICA ISTRUZIONE (a c. di), Per amore
e per forza: l’infanzia tra Ottocento e Novecento, Modena, Panini, 1987, p.81.
5
igiene, spesso crescevano con ritardi nella dentizione e nella deambulazione, torace
piccolo, addome grosso, gambe esili, così da essere derisi col nome di «ranocchi»
3
.
Le rilevazioni statistiche dello Stato unitario permisero di misurare, a partire dal 1863,
la mortalità nei primi cinque anni di età, distinguendo analiticamente per classi
annuali e mettendo tra l’altro in evidenza il peso della vera e propria mortalità
infantile, che fu rilevato al 228,7% dal 1863-1865 ed al 168,3% dal 1896-1900
4
.
Accanto ai danni prodotti dalle malattie infantili dominanti del periodo (dalle forme
intestinali e tifoidee alla difterite) vi erano gli effetti derivanti da un insieme di
pratiche tradizionali tra le classi popolari, come ad esempio le fasce avvolte
strettamente intorno al corpo del bambino (così da impedirne ogni movimento),
considerate opportune dalle madri occupate nelle faccende domestiche o rurali, in tal
modo, infatti, esse potevano lasciare per buona parte della giornata il bambino nella
culla. Tra le citate pratiche era consuetudine somministrare oppiacei ed alcolici agli
infanti per facilitarne e prolungarne il sonno
5
.
Quando i bambini avevano problemi intestinali venivano utilizzati rimedi
generalmente adottati per gli adulti, (secondo le pratiche ancora incerte della medicina
generale), tra cui purganti violenti e “vermifughi”, con conseguenze spesso disastrose
per la prima infanzia. Quanto a questi ultimi, i medici chiamavano in causa la
credenza popolare «…che i vermi esistano in noi naturalmente, in certi particolari
ricettacoli, donde se escono, producono malanni, soprattutto per la tendenza a
portarsi alla gola onde soffocare gl’infanti»
6
; credenza che induceva i genitori ad
attribuire alla vermificazione malesseri che avevano tutt’altra origine e che li
induceva a somministrare ai propri figli medicine, ungere con olii o altre sostanze
sperimentali, o addirittura attaccando al loro collo canfora, aglio o altro di peggio.
Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento nacque e si sviluppò la scienza
pediatrica, la cui diffusione e credibilità fu ostacolata da una tenace resistenza al
3
Questi bambini «vengono su spesso terrei, piccoli, con ritardi nella dentizione e
nella deambulazione, con rughe precoci, torace piccolo, addome grosso, gambe esili,
sì da essere derisi col nome di “ranocchi”»; U. ZANOTTI BIANCO, Il martirio della
scuola in Calabria, Roma, Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno,
1918, p. 375.
4
Cfr. F. DELLA PERUTA, La lenta presa di coscienza delle drammatiche condizioni
di vita dell’infanzia, nella società italiana dell’800, in COMUNE DI MODENA,
ASSESSORATO ALLA PUBBLICA ISTRUZIONE (a c. di), op. cit., p.50.
5
Cfr. F. DELLA PERUTA, op. cit., pp.49-50.
6
Ivi, p.51.
6
cambiamento, legata ancora pratiche e rimedi della “medicina popolare”. Sempre
nelle tradizioni popolari dei ceti rurali, era diffusa la mancanza di cure igieniche per la
testa dei bambini, poiché si credeva che essa, in parte ancora cartilaginosa e delicata,
necessitasse di essere fortificata e difesa. Non mancavano, inoltre, cattive abitudini
riguardanti la nutrizione dei fanciulli, come la pratica di somministrare al bambino a
ore fisse quantità eccessive di latte o la breve durata dell’allattamento materno (non
oltre il terzo mese) da parte di molte madri lavoratrici, con il conseguente ricorso
all’allattamento misto, o introducendo nella loro alimentazione pappe con latte e pane
grattugiato o latte e farina di mais, per bambini poco più che neonati.
Sotto il segno della carità “privata” prese avvio l’esperienza degli asili, destinati ai
bambini delle fasce d’età più basse. Gli “asili di carità per l’infanzia” furono infatti
concepiti da Ferrante Aporti, da Giuseppe Sacchi e da quanti li coadiuvarono in
Lombardia e nelle altre regioni italiane come istituzioni che, sovvenzionate da singoli
benefattori, erano deputate a raccogliere e custodire nel corso della giornata fanciulli
di famiglie indigenti tra i due anni e mezzo e i sei anni
7
.
Luigi Alessandro Parravicini, così scrive in una sua testimonianza nel 1839:
«Nascono a furia i bambini popolari! E i genitori di questa numerosa prole non
hanno sacchi di grano, non botti di vino,…la loro ricchezza sono le braccia.
Lavorano, lavorano la giornata intera per buscarsi tanto da mangiare. Allora chi
tesse, chi tinge, chi dissaca, chi ammanisce l’ordito, e sono migliaia di mani, tutti son
digiuni o poco meno. In tanta miseria, che n’è degli innocentissimi bambini? Penuria,
strapazzi, fame, botte, cenci»
8
.
La funzione degli asili rispondeva ad un’esigenza largamente sentita, dimostrata dalla
loro rapida diffusione, limitata peraltro alle più progredite regioni dell’Italia centro-
settentrionale, dal Piemonte all’Emilia, dalla Lombardia alla Toscana, lambendo
marginalmente il Mezzogiorno e le isole. Ma il senso degli asili inteso da Aporti non
era certamente quello che aveva visto realizzarsi. Spesso, infatti, gli asili erano retti da
«donnicciole ignoranti»
9
che si limitavano a prendere in consegna per il corso della
giornata i bambini e reputavano «buona educazione fisica il tenerli seduti sopra le
seggiole perforate, utile erudizione intellettuale apprender loro le più sciocche
7
Cfr. ivi, pp.44-45.
8
Luigi Alessandro Parravicini (pedagogista milanese autore del Giannetto, uno dei
più diffusi libri di lettura per ragazzi dell’Ottocento) cit. in F. DELLA PERUTA, op.
cit., pp.44-45.
9
F. DELLA PERUTA, op. cit., p.45.
7
cantilene delle quali non poche son laide, ed apice di educazione morale l’insegnar
loro le preci solite a recitarsi nelle pubbliche liturgie in uno storpiato latino»
10
.
Per non parlare poi del deplorevole stato igienico-sanitario in cui si trovavano questi
“depositi” di bambini, infatti in una di queste pessime stanze soggiornavano raccolti
una trentina di fanciulli, dove dovevano divertirsi e leggere, mangiare e deporre gli
escrementi, vivere buona parte delle ore del giorno. Qui le esalazioni cutanee dei
bimbi, le mefitiche esalazioni del piccolo bagno e quelle dell’acido carbonico emesse
dal braciere in tempo d’inverno, erano portatrici di malattie all’apparato respiratorio,
provocando tossi convulse spesso curate come semplici raffreddori e non per ciò che
erano realmente
11
.
Le aule scolastiche spesso erano in cattivo stato e senza riscaldamento. Nelle zone
urbane le classi erano rigidamente divise per sesso, mentre nei paesi era più facile
trovare classi miste, che nelle zone montane diventano addirittura pluriclassi
12
. Le
classi erano anche molto numerose; maestri e maestre stentavano a mantenere la
disciplina. Era cosa comune che il lavoro dei bambini facesse parte delle necessità
familiari, perciò i maestri non pretendevano che i loro scolari non lavorassero affatto,
ma che almeno lavorassero un po’ meno in modo che potessero seguire in maniera più
proficua e continua la scuola. Spesso i maestri di scuole di campagna avevano le aule
vuote fino alle ore dieci e trenta del mattino: ciò avveniva perché prima di recarsi a
scuola i bambini avevano delle faccende da sbrigare come dar da mangiare agli
animali, andare a prendere l’acqua alla fontana. I bambini spesso andavano con i
vestiti logori e d’estate anche senza scarpe. Ma questa era una prassi abituale nelle
aule delle scuole di campagna, i maestri erano avvezzi e ne comprendevano le
ragioni
13
. Era scontato che la vita familiare condizionasse tutte le altre attività
dell’infanzia: la scuola non aveva mai la priorità assoluta. Sono molte le assenze
giustificate dalla scuola perché nei campi bisogna mietere o dedicarsi al
foraggiamento dei bovini, o raccogliere l’uva per la vendemmia
14
.
10
Ibidem.
11
Cfr. la testimonianza di Federico Castiglioni del 1834 cit. in ivi, p.45.
12
Cfr. N. REVELLI, Il mondo dei vinti – Testimonianze di vita contadina, Torino,
Einaudi, 1977, pp. 72-74.
13
Cfr. U. ZANOTTI BIANCO, Il martirio della scuola in Calabria, cit., pp. 27-29.
14
Cfr. F. CAMBI - S. ULIVIERI, Storia dell’infanzia nell’Italia liberale, Firenze, La
Nuova Italia, 1988, pp. 28-29.
8
Tuttavia, i ricordi di scuola, insieme ai ricordi familiari, rimangono centrali nella
memoria. A volte sono memorie dolorose di percosse, di incomprensioni, altre volte
sono memorie colme d’affetto. Il ricordo degli ambienti e degli arredi scolastici in
alcune persone è molto vivo, anche in tarda età
15
.
I compagni e le compagne sono ricordati con affetto, ma anche con una punta di odio,
soprattutto i “primi della classe”, descritti spesso come presuntuosi e boriosi. A scuola
c’era anche, spesso, il banco dei “somari”, quasi un’istituzione. I bambini ritenuti più
incapaci, i ripetenti, i Lucignoli della situazione erano allontanati dagli altri e
emarginati dall’insegnante. Questa divisione era avvertita come un’ingiustizia, prima
umana e poi sociale. Viene anche ricordato che in ogni classe c’erano quattro o cinque
bambini relegati in fondo, ma questa piccola schiera con il tempo si assottigliava e
scompariva: i “somari” erano tuttavia ragazzi che per primi lasciavano la scuola per
andare a lavorare
16
.
In contesti dove spesso i genitori erano assenti per lavoro, i giovani adulti
rappresentavano per i bambini delle figure di riferimento; in rapporto ognuno al
proprio sesso, si presentavano spesso come modelli da seguire, da imitare, da cui
imparare.
I modelli maschili sono i più avventurosi: iniziano alle scorribande notturne, alla
caccia, alla lotta. I referenti femminili erano più legati ai saperi domestici: le nonne e
le mamme insegnavano a fare la “treccia”, vale a dire ad intrecciare la paglia per fare
cappelli e borse; vi erano anche maestre artigiane, soprattutto sarte e ricamatrici, che
insegnavano a cucire e a ricamare; le uniche figure diverse che sembravano indicare
percorsi alternativi d’elevazione sociale per le bambine erano le maestre di scuola.
Nelle campagne la vita infantile è fatta di lavoro, di crescita veloce, ma restano spazi
per il gioco: giochi poveri da fare per strada, con pietre per giocare alla campana, con
palloni fatti di carta o il semplice gioco a nascondino. Il bambino contadino non
possedeva giocattoli, raramente li ereditava da qualche bambino ricco quando
quest’ultimo aveva passato l’età o quando erano malconci e smessi; al massimo se li
costruiva da sé perché non vi erano mezzi per comperarli: si gioca senza giocattoli
15
Cfr. U. FABIETTI – V. MATERA, Memorie e identità – Simboli e strategie del
ricordo, Roma, Meltemi, 1999, pp.18-20.
16
Cfr. C. PANCERA, La socializzazione dell’infanzia lavoratrice nell’età
preindustriale, in C. COVATO – S. ULIVIERI (a c. di), Itinerari nella storia
dell’infanzia, cit., pp.127-130.
9
oppure con giocattoli più simili agli oggetti del mondo reale o naturale
17
. Artigiano ed
utente, il bambino aveva a sua disposizione spazi ampi da esplorare, ambienti
generosi di ricchezze naturali, prati, alberi e animali che si proponevano come
inesauribili compagni di gioco. Il bambino costruiva il suo carrettino col quale
scivolare dai pendii erbosi, la sua bambola di pezza per “giocare alla mamma”. Si
rubava il cappello o la pipa del papà e lo scialle della mamma e si giocava ad essere
grandi, ad imitare i modi delle persone della loro quotidianità
18
. In realtà i bambini del
mondo rurale si divertivano con qualsiasi cosa che li distogliesse dalla routine.
La vendemmia ad esempio era un momento in cui i bambini “inventavano” un gioco
di socializzazione; ad essi i grandi affidavano la raccolta dei chicchi d’uva caduti ai
raccoglitori. Era come se i bambini in quei momenti si trasformassero in adulti,
partecipando al rito, interiorizzando ogni comportamento e pensando che un domani
quando sarebbero diventati adulti avrebbero dovuto sostenere quelle mansioni: «A
volte quando si vendemmiava si andava dai contadini a raccattare i chicchi.
Accucciati,si raccattavano i chicchi,si mettevano nel secchio e poi si buttavano nella
bigoncia per fare il vino. Pagare no, non ci pagavano, si mangiava»
19
.
I bambini quindi non vivevano la loro infanzia separata dalla vita degli adulti,
mantenendo vivo il contatto con i riti e il folklore della comunità, mentre ci si
preparava a farne parte integrante. I bambini quindi erano parte attiva nelle feste di
comunità, in cui erano integrati socialmente
20
. Questa partecipazione alla vita di
comunità era legata anche agli stessi giochi infantili, che imitavano le feste nuziali
21
o
quelle natalizie, e soprattutto il Carnevale: in questa ultima festa i ragazzi saltavano,
correvano, imitando le movenze dei grandi
22
. Nei ricordi d’infanzia il momento più
bello era infatti rappresentato dalle festività come il Natale, la Befana, Pasqua,
17
Cfr. E.BECCHI, L‘Ottocento, in E. BECCHI – D. JULIA (a c. di), Storia
dell’infanzia, Roma-Bari, Laterza, 1992, vol.II, pp.149-150.
18
Cfr. P. BRANZINI, I giocattoli di ieri e di oggi, in COMUNE DI MODENA,
ASSESSORATO ALLA PUBBLICA ISTRUZIONE (a c. di), op. cit., p.90.
19
Cfr. C. COVATO – S. ULIVIERI (a c. di), Itinerari nella storia dell’infanzia, cit.,
2001.
20
Cfr. P. ARÌES, Infanzia, in AA.VV., Enciclopedia Einaudi, Torino, Einaudi, 1979,
vol. VII, ad vocem.
21
Anche in questo caso, infatti, la festa è «è un po’ per loro, perché essi sono lo scopo
finale della festa. Essi rompono le vecchie stoviglie, essi mandano urli di gioia, essi
salutano e servono gli sposi»; A. DE GUBERNATIS, Storia comparata degli usi
nuziali in Italia e presso gli altri popoli indoeuropei, Milano, Treves, 1919, p.18.
22
Cfr. R. FERRETTI, Alcuni appunti sul Carnevale nel Grossetano, in AA.VV., Dire
e fare Carnevale, Montepulciano, Grifo, 1984, p.144 e ss
10
Carnevale: in campagna il momento della festa è anche il momento in cui la famiglia
si concede il cibo migliore: la carne
23
.
Ma vi erano anche altri momenti di festa, legati a particolari eventi significativi per le
attività rurali, come quello della trebbiatura: tutta la grande famiglia, con l’aiuto di
altri contadini che venivano volontariamente dai dintorni, partecipava a questa grande
festa collettiva del raccolto e del cibo, un’antica festa pagana dove l’abbondanza per
una volta sconfiggeva fame e miseria. In questa festa/rito i bambini sono in prima fila:
aiutano, portano da bere ai trebbiatori, partecipano alla grande cena che chiude
l’importante giornata di lavoro
24
.
L’infanzia tuttavia era una stagione brevissima alla quale l’incalzare delle necessità
metteva ben presto termine, poiché non appena il bambino disponeva di forze e di
capacità veniva avviato al lavoro. Il lavoro minorile, fin dai quattro o cinque anni è
presente in tutta Italia, nelle industrie estrattive come in quelle tessili, nel Napoletano,
in Calabria e in Lucania si ha addirittura la tratta dei bambini: venduti a dei trafficanti
che li trascinavano anche all’estero per impiegarli in lavori debilitanti, erano ceduti
dai genitori con dei contratti
25
.
La borghesia italiana indignata da tale fenomeno, accusa i genitori dei bambini di
abbandono e sfruttamento; ma più della condizione tragica in cui vivono i piccoli, le
brucia che tutta questa povertà “sbandierata” all’estero leda il buon nome della
nazione
26
.
23
Cfr. S. ULIVIERI, La mia mamma faceva la corallaia!, in C. COVATO – S.
ULIVIERI, op. cit., pp.269-270.
24
Cfr. F. JESI, La festa – Antropologia, etnologia, folklore, Torino, Rosemberg &
Sellier, 1967, p.140.
25
Cfr. U. ZANOTTI BIANCO (a c. di), La Basilicata – Inchiesta sulle condizioni
dell’infanzia in Italia promossa dalla Unione Italiana di Assistenza all’infanzia,
Roma, Meridionale, 1926, p. 45.
26
«A Vienna, a Linz, a Monaco, a Norimberga, a Parigi, a Londra, a Bruxelles, a
Pietroburgo, nel fango più lubrico delle vie più oscure, nelle ore più sinistre,
passeggia tremante, macilenta, squallida, affamata, una caterva di bambini e bambine,
vestiti di stracci, che raffigurano i più pittoreschi costumi di alcune regioni d’Italia:
bambini e bambine che sono oggetto di ludibrio, di disprezzo, di pietà, di dileggio,
secondo l’animo di chi li guarda»; Jarro (pseud. di un anonimo giornalista fiorentino),
Salvate l’onore italiano!, cit. in F. CAMBI – S. ULIVIERI, op. cit., p.161.
11
1.2 L’infanzia borghese
Nelle famiglie borghesi i bambini vivevano in una loro dimensione esistenziale
“minore”, che spesso li emarginava dai rapporti familiari. Le relazioni genitori-figli
erano di carattere diverso in base al ceto e al contesto culturale, pur essendovi di
fondo un modello educativo quasi unico. I ruoli dei genitori erano divisi: il padre
autoritario, la madre colma d’affetto
27
, anche se per lo più il ricorso alla disciplina era
proprio della madre, la quale si avvaleva di procedure diverse a seconda della classe
sociale
28
. Mentre nelle famiglie più povere la disciplina veniva imposta con le mani,
ricorrendo anche a forme di violenza fisica, nelle famiglie borghesi il rimprovero si
esprimeva con il distacco e la negazione dell’affetto e della confidenza. La figura
paterna si collocava all’interno di un rapporto educativo basato su severità e distacco,
era spesso vista come un’entità lontana e di difficile approccio
29
.
Un ricordo d’infanzia ci trasporta in una famiglia borghese degli anni Trenta: «Allora
non usava che una donna accudisse i figli, la madre stava poco con i bambini. La mia
era una donna molto intelligente e colta, piena di interessi, una persona molto
sfuggente e molto indipendente, e me la ricordo tutta bella ed elegante. Noi
mangiavamo sempre separati dai genitori. E poi, al momento in cui siamo stati
ammessi alla tavola dei grandi, dovevamo stare zitti; tanto zitti che io sono restata
timida per tutta la vita. Coccolamenti io non me ne ricordo, e neppure racconti di
favole da parte della mamma. Le norme di buona educazione le impartiva la mamma,
poi c’è stata la signorina tedesca; ma senza rigori né castighi, nulla di duro; anche
perché al di sopra di lei c’era la severità di mio padre, al quale non arrivava proprio
nulla della nostra vita di bambini; né pianti, né risate, né strilli, nulla di nulla»
30
.
Come si può osservare, i rapporti non erano di certo improntati all’intimità ed
all’affettività, ma vi dominava il valore dell’autorità e della normatività, ovvero di ciò
che era appropriato e riconosciuto come rispondente alle regole comportamentali
richieste.
L’ingresso nel gruppo sociale veniva facilitato dal contributo di altre figure, (diverse
da quelle tipiche di una famiglia rurale che erano nonni, zii, cugini) come le balie, che
27
Cfr. T. PARSONS - R.F. BALES, Famiglia e socializzazione, Mondatori, Milano
1974, pp. 28 e ss.
28
J. VALLÉS, Il ragazzo, Feltrinelli, Milano 1953, pp. 13 e ss.
29
Cfr. C. COVATO, Educare bambine nell’Ottocento, cit., pp. 216-217.
30
G. ASCOLI, Balie, op. cit.
12
abitano nella famiglia insieme al piccolo e ai suoi genitori, le nutrici del padre o della
madre, le governanti che badano al bambino, i precettori, le istitutrici che convivono
con l’infanzia e ne hanno cura. Grazie a queste figure il bambino borghese si
accultura, socializzando all’interno di una rete di rapporti e ruoli cui anche al figlio
piccolo viene riconosciuto uno status. Del personale domestico non si sa molto, e
quasi nulla del rapporto che il bambino ha avuto con loro, tranne alcune testimonianze
autobiografiche o letterarie. Spesso si trattava di più persone che si occupavano dei
bimbi con ruoli differenziati: governanti per le bambine, precettori per i maschi,
istitutrici per entrambi, ognuna con le sue strategie, le sue autorevolezze, le specifiche
mansioni che le erano affidate. Al personale servile cui erano affidati i bambini
toccavano non solo i compiti di istruzione, ma soprattutto di cura del corpo infantile,
del suo intrattenimento quando il piccolo non andava a scuola, delle sue passeggiate
fuori casa
31
.
La casa borghese perciò era luogo educativo, con le sue norme (ritmi del tempo,
regolarità degli spazi, obbedienza ai genitori, separazione dei sessi non solo per i
bambini ma anche per i genitori per determinati compiti
32
), i suoi ruoli e le sue
relazioni, le sue finalità.
Nel corso dell’Ottocento la famiglia borghese si sviluppa intorno alla dimensione
privata, separata da quella pubblica, ad iniziare dalla divisione delle stanze della casa:
le sale da pranzo, i soggiorni, gli studi, erano divisi dai luoghi di riposo così come i
servizi e le cucine erano collocati a parte, nella zona riservata ai domestici. Anche i
bambini avevano dei settori di loro pertinenza, ma del tutto marginali rispetto agli
spazi riservati agli adulti.
Alcuni luoghi deputati all’infanzia si ridefiniscono durante tutto il secolo, cercando di
realizzare progressivamente spazi più a misura di bambino, comunque più accoglienti
sia a casa che a scuola. Spesso il bambino della famiglia borghese aveva spazi
specifici, in modo da consentirgli una vita “propria”, con ritmi e dimensioni peculiari,
ma anche per esercitare un controllo più fermo sulla prima età, bene prezioso e
31
La carrozzina (che nasce nell’Ottocento) era spesso trasportata da una balia o nurse
o governante, raramente da una mamma, e spesso il piccolo veniva portato in braccio
da domestici e non dai genitori. Sul ruolo dei domestici nella famiglia italiana
borghese cfr. D’AMELIO M., Figli, in P. MELOGRANI (a c. di), La famiglia
italiana dall’Ottocento a oggi, Laterza, Roma-Bari 1988, pp. 477 sgg.
32
Cfr. il saggio di T. VIGNE, Genitori e figli: 1890-1918, distanza e dipendenza,
trad. in Passerini (a cura di) [tit. orig. Parents and children, 1890-1918, distance and
dipendence, in “Oral History”, III, 2, autunno 1975, pp. 6-13].
13
soggetto a rischio della famiglia e della società. Alla fine dell’Ottocento iniziava la
storia di quella che in tedesco viene chiamata Kinderstube
33
equivalente alla stanza
del bambino. Scuola di socializzazione, la stanza dei bambini era il luogo nel quale
questi si potevano meglio osservare. In essa era centrale una sala di studio che per i
piccoli dei ricchi sostituiva o anticipava l’aula di scuola
34
. La casa si articolava in
stanze deputate a usi particolari, rigorosamente i maschietti da una parte e le
femminucce dall’altra. Se non ci fosse stata possibilità di una stanza tutta per loro, ai
bambini era consentito di occupare stabilmente un angolo della casa con i propri
materiali di gioco. La stanza dei bambini era anche la mostra concentrata del
materiale che serviva all’infanzia di allora; si potevano scorgere abbigliamenti, arredi,
modi di pensare il bambino, condotte ludiche. L’arredo di questi spazi domestici
assegnati prima età era, agli inizi del secolo, composto da mobili vecchi, solo
gradualmente prendono piede mobili su misura: culle, lettini con le sponde o con i
bordi e rete per impedire che il piccolo cada nel sonno, seggioline e piccoli tavoli. Si
perfezionano strumenti utili ai fanciulli (seggioloni, fasciatoi, girelli, carrozzine
35
) nel
cui uso veniva considerata anche la differenza di età. Questi erano gli stili di vita che
emergono dalla testimonianza di un’infanzia vissuta in una famiglia agiata negli anni
Venti. Ricorda Anna Salvetti: «La mamma stava poco con noi. Io avevo la mia stanza
da letto, la mia stanza da gioco e il bagno e stavo tutto il giorno con la tata e più
tardi con una signorina austriaca. La mamma la vedevo per la prima colazione,
quando scendevo al piano di sotto; noi abitavamo al secondo piano, dove c’erano le
stanze dei bambini e del personale. Mangiavamo sempre separati dai grandi. Il
legame d’affetto con la mamma è stato molto tempo dopo, quando avevo dodici anni.
Prima, noi bambini venivamo consegnati alla balia o alla signorina»
36
.
In questo tipo di casa, oltre ad esserne preclusa una larga parte, erano incompresi i
giochi, i quali all’epoca non avevano quella giusta riconoscenza educativa che è
presente nel nostro tempo. Diversi per sesso, i giocattoli delle bambine avevano le
33
Cfr. P. ROBERTSON, La casa come nido: l’infanzia borghese nell’Europa del XIX
secolo, in L. DE MAUSE, Storia dell’infanzia, Milano, Emme, 1983, pp. 348 e ss.
34
S. LASDUN, Vita d’infanzia nell’età vittoriana. Il mondo dei bambini Drummond
1827-1832, Passigli, Firenze 1986.
35
Si tratta di materiale reclamizzato, nella seconda metà del secolo, sulle varie riviste
femminili destinate alla famiglia. Cfr. L. DALLE NOGARE - L. FINOCCHI (a c. di),
Nascere, sopravvivere, crescere nella Lombardia dell’Ottocento 1815- 1915,
Cinisello, Pizzi, 1981, pp. 72 sgg.
36
Testimonianza di Anna Solvetti cit. in G. ASCOLI, Balie, op. cit. pp. 123- 124.
14
sembianze che ai nostri giorni definiamo “a scopo educativo-didattico”. I maschietti,
oltre al materiale ludico tradizionale che condividevano con le bambine (palle, cerchi,
birilli, pupazzi meccanici, lanterne magiche
37
), avevano balocchi di loro uso
esclusivo: soldatini, piccole armi, carrettini, più tardi anche piccole automobili,
trenini, battelli. Per le bambine il giocattolo più gradito era la bambola, la quale
raffigurava bambini ma anche adulti nei vari ruoli della vita domestica, come madre,
padre, figli e persino servitori (i quali avevano ruoli e trattamenti come da vita reale)
38
I giochi oltre che per sesso si differenziavano progressivamente anche per età: dal
pupazzo morbido e dalla palla (giocattolo che attraversa i tempi) per i più piccini, al
giocattolo più complicato, mobile, meccanico che via via diveniva più definito, fino
ad arrivare ai giocattoli scientifici
39
. I genitori e i parenti in generale ascoltavano i
desideri dei bambini e capitava spesso che appagassero le loro richieste di giocattoli
nuovi nei periodi di festa, collocate nei calendari delle varie culture europee: San
Nicolò, Santa Lucia, Natale, la Befana, il compleanno, cui si aggiungeva a volte
l’onomastico, la caduta del primo dentino, una buona pagella, la promozione a scuola.
Era soprattutto in queste occasioni che si facevano dei doni al bambino borghese,
cercando però di far coincidere nell’interesse ciò che egli desiderava e ciò che era più
adatto alla sua età e al suo percorso di vita. Nelle famiglie abbienti succedeva non
infrequentemente che il piccolo di casa ereditasse teatrini, soldatini e casette di
bambole provenienti dai genitori o da qualche zia, e spesso capitava che l’eredità
fosse già stata tramandata da generazioni precedenti. Ma la bella bambola e il gioco
prezioso venivano “prestati” solo in certe occasioni, come premio per il bambino, e
riposti quando sembravano correre qualche “pericolo”
40
, facendo sì che durassero per
più tempo.
37
Cfr. R.M. RILKE, Tre incursioni nell’immaginario dell’infanzia, Roma, Stampa
alternativa, 1991, pp. 29-43.
38
Per la casa delle bambole e il suo uso da parte di una bambina cfr. l’autobiografia
d’infanzia di M. MAC CARTHY, Un’infanzia Ottocento, Sellerio, Palermo 1990, pp.
20 sg. L’autrice era nata nel 1882.
39
W. BENJAMIN, in Infanzia berlinese, Einaudi Torino 1973, p. 32[tit. orig. Berliner
Kindheit um Neunzehnhundert, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1950], ricorda “ un grande
cubo di vetro che racchiudeva un intera miniera vivente, in cui minatori, zappatori,
sorveglianti, con carriole, martelli e lanterne, si mettevano in movimento al ritmo di
un meccanismo ad orologeria”.
40
Nella sua autobiografia A la mémoire des disparus, vol I, PUF, Paris 1958, p. 354,
Marie Bonaparte ricorda che le sue bambole, appena ricevute, venivano rinchiuse in