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politiche e sociali che costituiscono la materia concreta delle nostre cronologie e stabiliscono la
contiguità delle epoche della storia occidentale (p. 26).
Per un’analisi sufficientemente approfondita, bisogna andare a ricercare alcuni elementi
sociali, storici, economici, tecnologici, che hanno creato in passato i presupposti necessari al
“potere della mobilità”, così come viene definito da Leed (p. 159) il popolo mobile atti a
modificare l’assetto sociale.
L’avvento dell’industrialismo ha fatto da spartiacque tra una modernità nomadica, vissuta
in maniera tradizionale e una post modernità neo-nomadica con caratteristiche originali
rispetto al passato. La “democratizzazione del movimento geografico” (Urry, 2002, p. 36),
inizia ad attuarsi dal momento in cui, verso il XX secolo e con il successivo, avviene il
“progressivo perfezionamento tecnico dei mezzi di trasporto tradizionali e l’introduzione di
nuovi mezzi di trasporto (automobile e aereo)”, fatto che ha consentito di “raggiungere
località sempre più distanti. Si giunge alla «globalizzazione del territorio»” (Ferrarini, 1999,
p. 90).
Oltre alla globalizzazione del territorio, dovuta alla rivoluzione dei trasporti, uno degli
aspetti più stravolgenti dell’ultimo secolo, è stato l’avvento dei mass media, i quali hanno
collaborato a loro volta, a determinare una globalizzazione culturale senza precedenti grazie
all’intenso scambio di informazioni tra paesi che prima non erano in collegamento tra loro.
Questi eventi, agendo in concomitanza, hanno prodotto una contrazione del concetto di
mondo, il quale ha assunto i connotati prefigurati nell’idea di “villaggio globale” di McLuhan
(1898) andando a stravolgere di conseguenza definitivamente anche i concetti di tempo e
spazio.
Mentre lo spazio sembra rimpicciolirsi fino a diventare un “villaggio globale” della
telecomunicazione e una “terra-navicella” di interdipendenze economiche ed ecologiche (...) e
mentre gli orizzonti temporali si accorciano fino al punto in cui il presente è tutto ciò che c’è (...),
dobbiamo imparare a venire a patti con un travolgente senso di compressione dei nostri mondi
spaziali e temporali (Harvey, 1993, p. 295).
Nonostante la compressione spazio-temporale abbia portato innumerevoli vantaggi, essa
ha anche causato un forte senso d’incertezza nell’uomo.
Lo stesso Freud (1930) mise infatti in evidenza il rapporto di compensazione che esiste tra
lo sviluppo delle tecnologie dei trasporti che dilatano il mondo, quello delle tecnologie
comunicative che, per assicurarne il controllo, tendono a contrarlo, ed un aumento del senso
di disagio che tutta questa realtà ha creato nell’essere umano.
Infatti l’uomo veniva da un periodo meccanico, caratterizzato dalla specializzazione
imprescindibile dei ruoli, all’interno di una società ben delimitata. Una solida struttura che
non permetteva in alcun modo l’autodeterminazione in cui i ruoli erano sovra imposti e
standardizzati:
Visto generalmente come positivistico, tecnocentrico e razionalistico il modernismo universale è
stato identificato con la fede nel progresso lineare, nelle verità assolute, nella pianificazione
razionale di ordini sociali ideali e nella standardizzazione della conoscenza e della produzione
(Harvey, 1993, p. 280).
Nonostante ciò possa sembrare limitante, per l’uomo della società meccanica, era
comunque un motivo di sicurezza: “Il concetto di tradizione è paradossale. (...) ci fa credere
che il passato vincoli il nostro presente; d’altro canto, incoraggia (e determina) i nostri
tentativi presenti e futuri di costruire un “passato” al quale sentirci vincolati, perché ne
abbiamo bisogno o perché lo desideriamo” (Bauman, 1999, p. 135).
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Cadendo queste certezza, gli uomini si sono trovati smarriti in un vuoto che andava sanato:
La fine del secolo XX annuncia l’avvento dello «spaesamento» totale e della perdita di ogni fissa
dimora. Cadono con ciò la coscienza del passato, la capacità di richiamarlo e riviverlo, e insieme
qualsiasi capacità di progettazione per l’avvenire. Gli esseri umani vivono circoscritti e schiacciati
nel cerchio della luce accecante di un immediatismo piacevole e crudele ad un tempo (Ferrarotti,
1999, pp. 131-132).
Le nuove tecnologie hanno contribuito, appunto, a sopperire a questo vuoto:
I processi di virtualizzazione, che i linguaggi e le tecnologie digitali portano ad un estremo grado
di sviluppo, coincidono così, sia con fenomeni di desocializzazione che (...) sia con riscritture di
ruoli nuovi, scaturiti direttamente dall’era contemporanea (Abruzzese, Borrelli, 2000, p. 272).
Con il termine “desocializzazione”, definiamo la scomparsa di quei ruoli, norme e valori
sociali su cui si basava il mondo passato.
Lo svanire di queste “catene sociali” ha reso possibile il liberarsi, da parte di ogni
individuo, dei residui di un ruolo ereditario e di quei valori tradizionali ormai inadeguati a
fronteggiare una realtà in costante mutamento.
La pratica nomade è stata da sempre una delle alternative dell’essere umano, tra la scelta di
essere mobile o stabile. Ora è come se questi due fattori si compenetrassero. È come dire che
la nostra attuale sedentarietà è ad alto tasso di nomadismo.
La società stessa è ad alto tasso di nomadismo, intendendo con ciò un nomadismo
moderno, che si trasforma dall’essere un fenomeno di gruppo, ad essere un “modus vivendi
individuale, che sposta il soggetto in una condizione sociale (sfera sociale) di «non
appartenenza», liminale, in uno «spazio intermedio»” (Ferrarini, 1999, p. 114).
Tutti viaggiamo, chi più, chi meno, e c’è un viaggio per ogni tipo di portafoglio e per
ogni tipo di gusto, cosa che da vita a diverse tipologie di viaggiatore. Per quanto non si possa
costringere ogni viaggiatore in etichette precise, vi sono caratteristiche diverse, in relazione ai
suoi gusti, obiettivi, mete, età, disponibilità economica, che nonostante tutto si accomunano.
Si parla di compenetrazione tra nomade e stanziale, ma in questo caso, anche di globale e
locale, formando quel concetto di glocale, molto in voga (perché molto calzante) nella società
contemporanea in cui questa ibridazione sta diventando di giorno in giorno più forte:
“Occorre farsi stranieri al proprio luogo, abitatori del confine, saccheggiatori delle immagini
fluttuanti, che non rimangono, costruttori di testi mobili, portatori – ancora una volta – di una
duplicità fatta di curiosità e di nostalgia, di appartenenza e di estraneità” (Giordano, 2002, p.
52).
Se all’inizio del fenomeno della globalizzazione si pensava che alla fine ci saremmo
trovati tutti identici, l’uno all’altro, come prodotti industriali sfornati dalla catena di
montaggio, oggi possiamo osservare come, seppur silenziosamente e timidamente (ma in
fondo non poi così tanto silenziosa), il locale si stia facendo spazio tra le rovine della
globalizzazione e si stia installando con discreta prepotenza.
Michael Maffesoli parla di “nomadismo glocale” in quanto:
sintesi della nuova erranza (...), un movimento che ha la matrice di riferimento non più solamente
nel territorio fisico, ma che trova nuove istanze nello spazio del sapere, della conoscenza, così
come nei flussi cosmopoliti del sistema-mondo (Maffesoli, 2000, p. 16).
A braccetto con il fenomeno della desocializzazione osserviamo il fenomeno
dell’“individualizzazione”. Determinate barriere, sempre esistite nelle società precedenti, si
stanno modificando o, addirittura stanno crollando definitivamente:
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(...) individualizzazione significa dissoluzione di forme di vita sociale precostituite - per esempio il
logorarsi di categorie del mondo della vita come classe e ceto, ruoli legati al genere, famiglia,
vicinato, ecc. (...) o anche crollo delle biografie “normali”, dei parametri di orientamento e dei
modelli guida prescritti dallo Stato (...) (Beck, 1992, pp. 4-5).
Ad esempio, l’appartenenza di classe, le istituzioni di base che perdono di importanza,
piuttosto che il genere sessuale, o il tempo libero e il denaro destinato a spese superflue,
assumono un valore diverso rispetto al passato.
Molto rappresentativo, in questo senso, può essere il discorso sul genere sessuale: “Il
viaggio è stato per secoli una dimensione lontana dal mondo femminile, legato com’era
all’azione, prerogativa del maschio” (Silvestre e Valerio, 1999, p. 9).
La donna, da sempre è la personificazione della stanzialità, in opposizione alla figura
maschile, simbolo della mobilità e perciò portavoce della propria cultura verso le altrui.
Significativo è l’esempio per cui, nella storia passata, l’uomo mobile ha sempre cercato di
copulare con la donna stanziale al fine di migliorare la razza e la propria cultura di
appartenenza.
Possiamo affermare che rispetto al passato questo fattore si è già sensibilmente modificato,
tanto da permettere oggigiorno alle donne di viaggiare più o meno liberamente. Ed ecco che
così il numero di donne in viaggio stia aumenta in maniera esponenziale, nonostante alcuni
limiti ancora esistano. Il senso del pericolo è sicuramente sentito più dalla donna, che
dall’uomo. Mary nell’intervista afferma: “mi fa tanta paura la violenza sulle donne, non hai
più la sicurezza di camminare da sola nella strada, non basta non vestirsi troppo appariscente,
stravagante, anche se vai al lavoro, ti aggrediscono. Durante il viaggio devo guardarmi bene
attorno” (intervista numero 32).
Perciò, la normale evoluzione della società si riflette, non solo sul modo di viaggiare e
sulla tipologia del viaggiatore, ma anche sul come si concepisce il viaggio stesso,
relativamente appunto a colui che lo compie.
Si eclissa il senso stesso del viaggio, a vantaggio di nuove concezioni dello spostarsi: “nella
cultura del presente assoluto si viaggia costantemente con una fretta esponenziale e con la
bulimia tipica dell’ Era del consumo, dove il godimento è immanente, ma vacuo e di rapida
(e smemorata, N.d.A.) fruizione” (Ferrarotti, 1999, p. 132).
È un viaggiare più mirato, forse, meno dispersivo, ma sicuramente anche maggiormente
sciapo. Si ha l’impressione di muoversi in continuazione e di non arrivare mai da nessuna
parte.
L’uomo sembra alla continua ricerca di qualcosa, un desiderio che non riesce mai ad essere
appagato del tutto. L’uomo moderno sembra spostarsi talvolta senza sapere che cosa stia
veramente cercando:
Vagabondo ero, vagabondo resto (...). Quando il virus dell’irrequietezza inizia ad impadronirsi di
un uomo caparbio, e quando la strada che porta via da qui pare larga e diritta e agiata, la vittima
deve innanzi tutto trovare in sé stessa una ragione buona e sufficiente per andare. Ciò non è
difficile per il vagabondo attivo (Steinbeck, 1972, p. 15).
Un ruolo fondamentale in questo nuovo modo di rapportarci al viaggio, è stato sicuramente
assunto dai media tradizionali e dai nuovi media, soprattutto negli ultimi cinquant’anni: “ciò
che lo sviluppo dei media fa è creare nuovi tipi di azione e interazione e nuove forme di
relazioni sociali –tipi e forme completamente differenti dal genere d’interazione che ha
dominato per buona parte della storia dell’umanità” (Thompson, 1995, p. 121).
Infatti, il ruolo dei media è stato fondamentale per farci assimilare nuovi status menti, che
non appartenevano sicuramente alle generazioni dei nostri avi: “i media, in questo modo,
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diventano dei potenti mezzi di sradicamento e potenti mezzi di metabolizzazione dell’esterno
e dell’interno, del pubblico e del privato, di ciò che è altro da sé e che attraverso il filtro del
medium, entra nel sé” (Valeriani, 2004, p. 81).
Grazie a questa caratteristica, di farci apparire il “lontano”, “vicino”, i mass media hanno
permesso ad una grossa fetta di popolazione mondiale di conoscere le diverse culture e di
poterle fronteggiare come mai prima d’ora era potuto accadere, con tutta una serie di
strumenti di comprensione e conoscenza, che appartengono ad un nuovo tipo di modernità.
Una modernità “deterritorializzata” oltre che desocializzata, intendendo con questo
termine, “l’assunzione nel proprio ambito di un abitare che non comprende più solo il proprio
luogo, ma sconfina all’esterno inglobando territori sconosciuti in senso fisico, ma soprattutto
psichico, mentale, immaginativo” (idem).
Non ci sentiamo più come ai tempi del romanzo Il giro del mondo in 80 giorni (Verne,
1873), non proviamo più quella sensazione d’irrealtà favolistica nel concepire un viaggio
intorno al globo a bordo di una mongolfiera. Desideri farlo? Allora si può fare! “Ormai niente
è impossibile!” (Alessandro, intervista numero 1).
Oggigiorno ci sembra verosimile e realistico il poter abbracciare, mentalmente e
fisicamente, con un unico gesto, l’intera sfera terrestre.
Il mondo ha assunto fattezze maggiormente maneggiabili e alla portata di (più o meno)
tutti.
Diciamo “più o meno tutti” poiché, nonostante il viaggiare sia ormai alla portata di tutte le
tasche, i veri privilegiati, sono coloro che hanno la possibilità di spostarsi senza impedimenti,
burocratici, economici, di mancanza di tempo, vivendo perciò in una sfera maggiormente
globale.
Un tempo gli “stanziati”, coloro che avevano modo di comprarsi un pezzo di terra, erano i
più privilegiati, oggi coloro i quali riescono a svincolarsi dal proprio localismo e a vivere
come cittadini cosmopoliti o apolidi, sono i nuovi privilegiati: “Adesso non è ricco chi ha
denaro ma chi ha tempo” (Mirko, intervista numero 37).
Ecco perché, i media, dal giornale, alla televisione, dalla radio ad Internet, diventano
mezzo indispensabile per ampliare i nostri orizzonti proiettandoci su un piano maggiormente
globale ed internazionale. Media che svolgono un ruolo di superamento delle frontiere, di
assunzione e assuefazione a nuove realtà ed, allo stesso tempo, che ci mantengono in contatto
con la nostra identità locale:
Se oggi si è in presenza di una cultura che può essere definita “onnivora” lo si deve - e forse anche
principalmente - anche al ruolo svolto da questa specifica esperienza (il viaggio, N.d.A.) che, se ha
alimentato forme di relativismo esasperato, ha anche obbligato l’uomo a comprendere forme di
vita diverse dalle sue, alimentando con ciò una maggior comprensione di se stesso (Gianturco,
2005, p. 23).
Come infatti sostiene Vera nella sua intervista: “rispetto alla cultura che mi ospita cerco di
avere un approccio “onnivoro”, nel senso che mangio tutto: cibo, persone, canzoni, racconti
(per inciso: io ingrasso sempre quando viaggio perché mangio veramente tutto ciò che mi
capita di nuovo!)” (Vera, intervista numero 50). Un approccio onnivoro, ingordo, mai sazio di
esperienze. Ci siamo abituati a non accontentarci mai e a rincorrere sempre i nostri desideri e
piaceri. Dimostrazione questa della natura dionisiaca della modernità. Valeria Giordano
afferma che “la tragedia greca mette in scena, attraverso l’esaltazione del dionisiaco, la rottura
delle convenzioni sociali e famigliari e l’apertura verso le infinite possibilità che il mondo
produce, le infinite metamorfosi che la vita stessa attiva” (2005, p. 80). Il mito di Dionisio
perfettamente incarna “quella mistica dell’erranza che il dio ha rivelato come costitutiva della
ricerca di riconoscimento” (idem).
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Il velocizzarsi del nostro vivere quotidiano, ad esempio, ha determinato una certa modalità
di viaggiare ed ecco che vediamo che il viaggio stesso, in quanto specchio fedele di questo
stato di cose, è diventato concitato, frenetico, continuo, irrefrenabile: “la velocità, in effetti,
sotto le sue diverse modulazioni, è stata la caratteristica del dramma moderno” (Maffesoli,
2000, p. 8).
Nel caso specifico dei nuovi media, come ad esempio Internet, il cambiamento nel nostro
modo di ragionare e vivere lo spostamento è assolutamente innovativo e dilagante: “Internet e
la Rete collegano il post moderno con le sue radici arcaiche. Ovvero avviene un cambio
nell’epistemologia da logocentrico (la ragione che muove l’uomo) a lococentrico (il luogo
diventa centro) e di conseguenza il lontano diventa vicino” (Maffesoli, 2006). Rendere
prossemico il lontano. Forse solo così è possibile comprendere il sorprendente ritorno dei
valori arcaici sulla ribalta della scena sociale.
E non solo per i cambiamenti sopra citati.
Il fatto che la Rete ci permetta di viaggiare, seppur seduti alla nostra scrivania, talvolta,
trasforma un’esperienza teoricamente virtuale in un avvenimento reale. Il movimento, reale o
immaginario che sia, è fondamentale per una società fortemente nomadica nello spirito:
“avviene un’espansione dei nuovi mezzi d’informazione e nasce un nuovo spazio globale che
precedentemente non esisteva. Formazione ed espansione contraddittoria di una produzione
culturale globalizzata, ma tendenzialmente occidentale (trainata dall’America)” (Farro, 2005).
Michael Maffesoli, parla di “astuzia dell’immaginario”, per definire come lo sviluppo
tecnologico venga sfruttato “per superare le frontiere, trasgredire la morale comune,
percorrere il mondo intero” (Maffesoli, 2000, p. 45), senza dover necessariamente muoverci
dalla nostra sedia.
Quindi tv, radio, reti elettroniche, ma soprattutto Internet, come media utili all’apertura
verso l’esterno ma, allo stesso tempo minaccia di bieca staticità e stanzialità.
Come direbbe John Thompson un agire a distanza, senza dover a tutti i costi, sentire la
necessità di esserci fisicamente in quel luogo (1995, p. 144).
Il viaggio, nonostante possa sembrare un concetto di facile comprensione, nasconde molti
sottotesti e sottosignificati. Dice molto di noi, della nostra società e cultura, delle nostre
abitudini e dell’evoluzione del pianeta.
Il viaggio è:
...un “fatto sociale totale”: sia per il suo carattere globalizzante che permette di totalizzare la
condizione di ipseità, sia per il grado di condizionamento cui sottomette il viaggiatore, i soggetti
con cui egli entra in relazione e il contesto in cui quest’ultima si sviluppa” (Gianturco, 1999, pag.
VIII).
Ma un fatto sociale incredibilmente complesso, poiché, come ogni fatto sociale totale muta
rapidamente, tanto da rendere difficoltoso ogni tentativo di schematizzazione ed
etichettamento., così come pure è complesso trarne uno studio definitivo.
Inoltre, da un punto di vista puramente sociologico “non ha ancora assunto a pieno titolo
una formalizzazione in termini teorici” (Gianturco, 1999, p. VIII) con la conseguente
ulteriore difficoltà a reperire testi scientifici, o studi fatti sull’argomento:
Un viaggio, un safari, un’esplorazione, è un entità diversa da ogni altro viaggio. Ha personalità,
temperamento, individualità, unicità. Un viaggio è una persona a sé; non ce ne sono due simili. E
sono inutili progetti, garanzie, controlli, coercizioni. Dopo anni di lotta scopriamo che non siamo
noi a fare il viaggio; è il viaggio che «fa» noi. Guide, orari, prenotazioni, inevitabili e rigidi, vanno
diritti a naufragare contro la personalità del viaggio. Solo quando abbia riconosciuto tutto questo,
il vagabondo « in vitro » può abbandonarsi ed accettare la realtà. Soltanto allora cadono le
frustrazioni. In questo, un viaggio è come un matrimonio. La maniera sicura di sbagliare è credere
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di tenerlo sotto controllo. Ora mi sento meglio, perché l’ho detto, anche se lo capiranno solo quelli
che lo hanno provato (Steinbeck, 1972, p. 16).
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PRIMO CAPITOLO
LE MOTIVAZIONI DEL VIAGGIARE
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1.1 Perché abbiamo bisogno di viaggiare
Whiter shall I turn,
by road or pathway, or through trackless field,
up hill or down, or shall some floating thing,
upon the river point me out my course?
In quale direzione andrò/ per la strada o lungo un sentiero, o per un campo senza piste segnate,/ in
salita o in discesa,/ oppure qualcosa che galleggia sul fiume mi indicherà il cammino?
(Wordsworth, 1850, p. 75)
Ci si muove, ci si muove sempre e in maniera incoerente e caotica ai giorni nostri. Un
muoversi leggero e fluido, un muoversi quotidiano, impreciso e preciso allo stesso tempo.
Nessuno di noi sa bene il perché ed il per come, ma tutti ci spostiamo come piccole formiche
impazzite. Quando osserviamo una colonia di nere formiche grassottelle, che si dimenano a
destra e a manca trasportando cose, cercando cose e entrando ed uscendo dalla loro tana, fatta
con precisione millimetrica, sorridiamo della loro iper attività. Ma in fondo noi non siamo
molto diversi nel nostro muoverci.
Iniziamo a viaggiare fin da bambini, inizialmente con genitori o in colonie organizzate, per
poi imporre il nostro diritto d’indipendenza verso il periodo dell’adolescenza - tappa che
adesso si anticipa sempre più - iniziando a viaggiare con amici o da soli: “Mi chiamo
Francesco, ho 16 anni e frequento il liceo classico. Ho iniziato a viaggiare a 13 anni. Il primo
viaggio l’ho fatto a Dublino, vacanza studio e il primo pensiero è stato piacevole, istruttivo,
da un certo punto di vista…” (Francesco, intervista numero 13).
Il viaggio, da bene superfluo, ormai da tutti, viene considerato un bene primario, a cui non
possiamo rinunciare. Anche per questo motivo il viaggio si carica di aspettative e parte del
godimento sta già nell’immaginare la meta e nel programmare il percorso.
Talvolta sorge il dilemma del perché abbiamo bisogno di viaggiare, perché ci spostiamo,
cosa cerchiamo, ma spesso questa, come alcune delle domande esistenziali che, di quando in
quando amiamo porci, rimane, nonostante le diverse congetture, una domanda senza risposta
certa.
Je réponde ordinairement, à ceux qui me demandent raison de mes voyages, que je sais bien ce
que je fuis, mais non pas ce que je cherche
A chi mi domanda ragione dei miei viaggi, solitamente rispondo che so bene quel che fuggo, ma
non quel che cerco (De Montaigne, 1572-1592, p. 139).
Il desiderio di viaggiare è presente in ognuno di noi, inaspettatamente anche nei più pigri e
sedentari. Come dice Maffesoli: “(...) qualunque nome vogliamo dargli, l’erranza, il
nomadismo sono inscritti nella struttura stessa della natura umana, tanto quella individuale
quanto quella sociale” (1997, p. 51). Un desiderio ancestrale, forse legato al bisogno
dell’essere primitivo di muoversi per sopravvivere, per cercare le sostanze nutritive che gli
permettano il sostentamento, o al fine di proteggere se stesso e la sua prole ed, inconsciamente
evolvere la specie.
Nonostante ciò, il fine ultimo del nomadismo primitivo, è sempre stato quello di
sedentarizzarsi, ovvero di trovare il luogo più adatto dove stabilire le proprie radici. Ecco
perché presente “ (...) alla base di ogni «stato nascente»” (p. 52). Perciò il viaggio “diviene
esperienza «liminale», un momento «tra» gli ordini sociali vigenti e strutturati (...)” (Leed,
1992, p. 28) che come tale talvolta riemerge nella “memoria collettiva, (...) che serve da
anamnesi di ciò che fu l’atto fondatore (...) ridando dinamismo e nuova vita” alla società in
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questione (Maffesoli, 1997, p. 52). Ma dai tempi dei primitivi le motivazioni ed i modi di
spostarsi e viaggiare, com’è logico, sono cambiate parecchio.
Sin dal 1848 il modernismo portò dei cambiamenti forti alle società, tramite
“l’urbanizzazione, l’industrializzazione, la meccanizzazione, le massicce ristrutturazioni degli
ambienti edificati e i movimenti politici urbani” (Harvey, 1991, p. 40). Ma fu il boom
economico post bellico, a cambiare prepotentemente lo stile di vita delle masse con i risultati
che possiamo constatare tuttora:
le masse popolari urbane e di una parte delle campagne accedono a nuovi standard di vita: entrano
progressivamente nell’universo del benessere, del loisir, dei consumi, che fino ad allora
appartenevano alle classi borghesi. Le trasformazioni quantitative (aumento del potere di acquisto,
crescente sostituzione del lavoro della macchina allo sforzo umano, aumento del tempo libero)
operano una lenta metamorfosi qualitativa (Morin, 1962, p. 85).
Accrescendosi il lavoro meccanico, il lavoratore si trova da una parte svilito da un lavoro
che non ha più nulla dell’artigianale, ma dall’altro alleggerito fisicamente facendo così
perdere al soggetto “lavoro” la centralità che aveva acquisito per il cittadino. Avviene così un
inevitabile passaggio d’importanza dal contesto lavorativo/ pubblico, al concetto del loisir /
privato.
Adesso, rispetto al passato, c’è molto più tempo a disposizione, diversi mezzi di trasporto,
più rapidi e confortevoli, maggiore disponibilità di denaro e un maggior numero di
informazioni, grazie ai nuovi media che ci tempestano continuamente di notizie riguardanti
ogni luogo del pianeta.
“Nulla è più lasciato al caso” dice Roberto Lavarini (2005, p. I) nel senso che, prima di
partire, abbiamo talmente tanti mezzi per informarci e per “conoscere” le mete, ancor prima di
arrivarci e vederle di persona, tanto da rischiare di svilire l’esperienza della fruizione diretta.
La costante esposizioni alle immagini di luoghi più o meno famosi che ci apprestiamo a
visitare, rischia di non farci così emozionare nel momento in cui ci troveremo di fronte
fisicamente, annullando così completamente l’effetto dello choc, parte fondamentale
dell’esperienza del viaggio.
Lo choc, così come definito da Valeria Giordano “è l’attimo che annulla la potenza del
passato e la speranza del futuro (…). È un attimo di felicità e di sorpresa (...)” (2005, p. 13).
La ricerca del “nuovo”, dello choc, è una caratteristica fondamentale della modernità, in
quanto ora più che mai, l’essere umano sente la necessità di farsi sorprendere e di farsi
sconvolgere e di vivere di momenti frammentari, di rottura rispetto al lineare svolgersi della
vita quotidiana.
Immagino, con una punta di gelosia, i tempi degli esploratori, durante i quali, arrivare in
un luogo nuovo voleva dire trovarsi davanti ad uno spettacolo unico, mai visto ne descritto
prima e, con occhi di bambino, vivere un senso di sconvolgimento interiore inesplicabile ed
impareggiabile.
Either you had no purpose
Or the purpose is beyond the end you figured
And is altered in fulfilment. There are other places
Which also are the world’s end, some at the sea jaws,
Or over a dark lake, in a desert or a city
O lo scopo è al di là della fine che immaginavate
E raggiungendolo si cambia. Ci sono degli altri luoghi
Che anch’essi sono alla fine del mondo, alcuni alle fauci del mare,
O sopra un lago scuro, in un deserto o in una città
(Eliot, 1935-1942, pp. 70-71)
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Nel libro di viaggio “Il Milione”, dove vengono narrate le gesta del commerciante
veneziano Marco Polo, possiamo solo lontanamente percepire il senso di straniamento e
sorpresa provato da colui che viene, a ragion veduta, definito il primo vero viaggiatore
occidentale, nel senso moderno del termine. I suoi racconti sono zeppi di scenari incredibili:
personaggi dalle particolari fisionomie, e avvenimenti che poco si discostano dai racconti di
fantasia di Jules Verne. Racconti così stupefacenti e appassionanti hanno permesso al testo di
raggiungere un’incredibile notorietà, per quei tempi. Nonostante ciò, il libro veniva
considerato poco più che un romanzo di fantasia da leggere per diletto, piuttosto che per mera
conoscenza. Solo verso il XIV secolo, con l’avvento di navigatori e cosmografi, s’inizio a
prendere più sul serio l’opera, utilizzandola addirittura per correggere mappe e mappamondi.
Diede letteralmente inizio all’epoca delle grandi scoperte geografiche. Mercanti e navigatori
di tutto il mondo, tra cui gli stessi Cristoforo Colombo e Magellano, spinti dai racconti di
Marco Polo, si sentirono attratti da paesi lontani intraprendendo quei viaggi che portarono alla
scoperta di nuovi continenti e di nuove terre lontane.
Ora tutto ciò non può più succedere, per sfortuna, secondo me, o per fortuna, come
direbbero i meno avvezzi e desiderosi di novità e di imprevisti. Il senso di “già visto” ci
accompagna e ci accompagnerà, ormai per sempre, poiché tutti gli angoli del pianeta sono già
stati visitati e inscatolati sotto forma di immagini almeno una volta. Il sovraccarico di
materiale fotografico della Terra, vista da ogni angolazione possibile ed immaginabile, ha
reso visibile qualsiasi luogo del pianeta, anche i più inesplorati e distanti dal genere umano.
Margaret Mead fu la prima antropologa culturale ad aver utilizzato, in maniera
assolutamente innovativa, la fotografia al fine di carpire, in una sola immagine, tutti i segreti
di un territorio e della popolazione che lo abita: “L’introduzione di un intenso uso della
fotografia permise di documentare questi cambiamenti nella nostra capacità di vedere e di
capire nel contrasto tra le fotografie e i film fatti il primo e l’ultimo giorno” (Mead, 1977, p.
24). La stessa Mead nel libro che raccoglie tutte le lettere inviate ad amici e parenti mentre
svolgeva i suoi studi etnografici, parla di come “l’introduzione di un intenso uso della
fotografia permise di documentare i cambiamenti nella nostra capacità di vedere e di capire
nel contrasto tra le fotografie e i film fatti il primo e l’ultimo giorno” (idem).
Ma da allora è stata etichettata ogni regione del globo e questo fatto ha svilito, almeno in
parte, l’effetto inaspettato che la visita di un posto mai visto, dovrebbe produrre sui visitatori.
O perlomeno, svilisce il senso stesso della visita del tale luogo. Pensiamo al monumento in
assoluto più fotografato: la Torre Eiffel. Tutti, chi per esperienza diretta e chi non, hanno visto
migliaia di volte la stessa immagine della torre che si staglia fiera sul cielo parigino.
Nonostante ciò, i visitatori della ville dei Lumiere si ostinano ancora a fotografarla. Cambiano
i volti di chi vi è in primo piano nella fotografia, ma la torre è sempre lì, immutata, sorniona e
un po’ beffarda sullo sfondo. Roland Barthes parla appunto di come l’intento di produrre una
fotografia – choc ne svilisca il fine stesso. Spiega infatti (Barthes, 1974, pp. 102–103) come il
desiderio da parte del fotografo di farci percepire una certa sensazione tramite il mezzo della
fotografia, sia il limite stesso allo scopo prefissato: “È che di fronte ad esse ci troviamo ogni
volta defraudati della nostra facoltà di giudizio”. Le immagini sono già state programmate,
prodotte, assimilate e digerite. Il desiderio di volerne cogliere l’effetto choc istantaneo si
svilisce a causa della sua perdita di spontaneità. Così facendo viene dissipato il potere
stravolgente dell’impatto con l’evento ed, inoltre l’emozione provata alla vista della fotografia
stessa. Fotografare, durante un viaggio rischia quindi di diventare una sorta di archiviazione
sistematica fine a se stessa:
ultimamente sono un viaggiatore con la macchina fotografica, cosa che ti differenzia tantissimo da
un normale viaggiatore perché da una parte mette una separazione tra te e le altre persone che ti
capita di incontrare, sotto un altro aspetto ti avvicina agli altri perché ti permette di vedere cose
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che l’occhio nudo non sempre può vedere. Tante volte è sicuramente un blocco… non so se la
bilancia di questi due punti di approccio sia di più facile relazione o più difficile. Tante volte ho
conosciuto gente proprio perché avevo la macchina fotografica, altre volte invece blocca la gente
(Dario S., intervista numero 7).
Anche gli altri sensi, oltre alla vista rischiano seriamente di essere sminuiti a causa
dell’eccessiva fruizione dei luoghi tramite i media che enfatizzano eccessivamente l’utilizzo
della vista e dell’udito: “se i giramondo di oggi vogliono riprovare le emozioni dei viaggiatori
dei tempi passati, dovranno coltivare i tanto negletti sensi del gusto e dell’odorato. Il cinema e
i giradischi hanno in realtà eliminato questi due sensi, e il tatto non sembra avere un ruolo
molto importante” (Mead, 1977, p. 34).
Un tempo partire voleva veramente dire fare un “salto nel buio” verso l’ignoto, vivere
un’esperienza tramite tutti i cinque sensi, lasciandosi dietro tutte le certezze, al fine di
riscrivere completamente il proprio destino, partendo da una diversa percezione delle cose.
L’America, da questo punto di vista, è stato uno degli Eldorado più bramati. A partire dalla
scoperta ad opera di Cristoforo Colombo, l’America è divenuta l’emblema della terra
incontaminata, dove l’individuo poteva reinventarsi e cercare fortuna. All’epoca della
conquista del West, i cercatori d’oro, si avventurarono tra mille pericoli pur non sapendo cosa
avrebbero trovato, alla ricerca - talvolta vana - delle mitiche pepite d’oro.
Sono uomini orgogliosi, che sopra i loro cappelli hanno solo il cielo, che non si piegano davanti a
nessuno perché stanno inventando l’uguaglianza (...). Alcuni camminano vittoriosi con una borsa
d’oro sulle spalle e altri procedono sconfitti con l’unico fardello delle disillusioni e dei debiti, ma
tutti si sentono padroni del loro destino, della terra che calpestano, del futuro, della propria
inoppugnabile libertà (Allende, 1999, p. 231).
Le ragioni dello scatenarsi della febbre dell’oro, potrebbero essere facilmente messe a
paragone con le attuali migrazioni dei popoli provenienti dai paesi del terzo mondo, verso i
paesi industrializzati: “chi parte povero può sperare di poter tornare un giorno nel paese natale
e viverci per sempre nell’agiatezza (...) o, di far fortuna e di radicarsi nel Nuovo Mondo”
(Lavarini, 2005, p. 4).
Ma non sempre chi parte è chiaramente conscio di ciò che dovrà affrontare. Nonostante
sappia chiaramente cosa stia lasciando, e nonostante le percentuali di fallimento e di vita
misera siano molto alte, sul piatto della bilancia di persone disperate, una vita incerta per una
certa, ma infelice, vale molto di più. Ed ecco che queste persone partono, abbandonando
famiglie e terreni, che anche per questo motivo rischiano di diventare desertificati o aridi, in
cerca di fortuna. Da questo punto di vista, prendendo nuovamente ad esempio il caso
americano, possiamo dire che, tutto sommato, gli emigranti italiani, decidendo di lasciare la
terra natia, avevano infine trovata questa celeberrima fortuna. Tra il 1880 ed il 1925, anni
della prima emigrazione italiana, il Nuovo Mondo aveva bisogno di molte mani forti, per
essere edificato e per creare i presupposti per la nascita della popolazione americana definita
per antonomasia melting pot, ovvero crogiuolo di razze e popoli. Il senso di choc, per persone
che probabilmente non avevano nemmeno neanche visto il mare prima di allora e che
conoscevano solo la realtà della vita nei campi, deve essere stato forte:
Succedeva sempre che a un certo punto uno alzava la testa... e la vedeva. É una cosa difficile da
capire. Voglio dire... Ci stavamo in più di mille, su quella nave, tra ricconi in viaggio, e emigranti,
e gente strana, e noi... Eppure c’era sempre uno, uno solo, uno che per primo... la vedeva. Magari
era lì che stava mangiando, o passeggiando, semplicemente, sul ponte... alzava la testa un attimo,
buttava un occhio verso il mare... e la vedeva. Allora si inchiodava lì dov’era, gli partiva il cuore a
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mille, e, sempre, tutte le maledette volte, giuro, sempre, si girava verso di noi, verso la nave, verso
tutti, e gridava: l’America. (Baricco, 1994, p. 11).
Per quanto particolarmente significativa di una certa tipologia di viaggiatori, la categoria
degli emigranti non concerne completamente questa tesi, facendo essi parte di quelle persone
obbligate a spostarsi non volontariamente, ma per cause di forza maggiore e di sopravvivenza.
Il viaggio, infatti, si può, già alla base, distinguere in volontario ed involontario. L’OMT
(organizzazione mondiale del turismo) classifica chiaramente i viaggiatori in due grandi
categorie:
coloro che sono esclusi nelle statistiche turistiche come lavoratori frontalieri, nomadi, passeggeri
in transito, rifugiati, forze armate, diplomatici e immigrati, e coloro che , invece vengono inclusi
(...) gli escursionisti, ovvero coloro che non pernottano e che quindi viaggiano meno di 24 ore, e
turisti in senso proprio (Lavarini, 2005, p. 5).
Con la definizione “turisti in senso proprio” s’intendono, sempre secondo la
categorizzazione fatta dall’OMT, tre categorie distinte di viaggiatori rispetto alle motivazioni
che spingono a viaggiare: per svago, per lavoro, o per altri motivi vari. In questo
etichettamento a fini euristici, noto una sorta di paradosso interno: il termine “turista” viene
utilizzato in maniera troppo generalizzante, come se non vi fosse alcuna differenza tra chi si
sposta per un lasso di tempo ben determinato, con una chiara meta, ed un certo atteggiamento,
rispetto a chi parte con intenti diversi, più profondi del semplice rilassarsi e svagarsi dalla
routine quotidiana.
Probabilmente alla base di una tale generalizzazione vi è una motivazione di ordine pratico
ed organizzativo. Esattamente come ogni individuo ha una sua unica e personale biografia,
così anche il modo di viaggiare è assolutamente personale. A meno che non si parta per un
viaggio organizzato, cosidetto di massa, ogni viaggio è a sé stante e assolutamente irripetibile.
Motivo per cui, il partire crea così tanti scompensi di ordine emotivo. Ognuno di noi, in cuor
suo, è cosciente di stare per iniziare un’esperienza unica ed eccezionale, che, in un modo o in
un altro avrà conseguenze sul nostro vivere ed essere in futuro. Ecco che, perciò, per i tecnici
del mercato del turismo, è utile e pratico fissare delle etichette ben precise sulla testa di ogni
persona, al fine di poter avere una chiara chiave di lettura del mercato e riuscire, quindi, a
plasmarlo ed a sfruttarlo. Queste categorie variano continuamente, dipendentemente dai gusti
in continuo cambiamento dei viaggiatori. L’unica certezza è che ognuno di noi fa parte di
almeno una, se non addirittura più di una, di queste categorie.
1.2 Il viaggio non è scopo ma mezzo
Le motivazioni che spingono alle migrazioni moderne sono veramente varie ed eventuali e,
come sostiene Leed “sono in genere un fatto privato” (1991, p. 350). Nascono sovente da
fattori socio-cultarali ed economici. Infatti, non dobbiamo sottovalutare l’impatto che il
contesto sociale esercita su ogni individuo, nonostante egli sia dotato di libero arbitrio e gusti
personali. La famiglia, gli amici, l’ambito in cui cresce, è probabilmente il fattore
fondamentale della scelta sul perché, come, quando e dove viaggiare: “Le motivazioni
possono essere suddivise in due tipi: quelle che spingono l’individuo a partire e quelle che lo
attirano verso una certa meta”(Lavarini, 2005, p. 16).
Sono detti push factors i fattori di spinta generati dal contesto sociale, che agiscono sulla
sfera psicologica, invece i pull factors, fattori di attrazione, sono quelli che aiutano solo nella
decisione della meta per chi è già intenzionato a partire.
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I push factors più comuni sono legati al desiderio di rompere con la routine, con la
necessità di cambiare contesto e di rilassarsi, con il desiderio di evasione e di esplorazione,
con il bisogno costante di mettere in dubbio il proprio sé, e al fine di aumentare il proprio
prestigio o status sociale.
Invece tra i pull factors più importanti, troviamo motivazioni di ordine culturale, come la
scoperta di una città d’arte, o la curiosità per ciò che non si è mai visto. Innegabile è che una
delle motivazioni più forti per partire sia il desiderio di cambiamento, stufi come siamo di
rivederci compiere giorno dopo giorno le stesse azioni, sospinti ormai da un’apatica inerzia.
Indubbiamente il desiderio di allontanarci da quei “noi stessi” che tanto bene conosciamo è
fondamentale, tanto quanto è importante distaccarsi dalla propria quotidianità, per crearne una
nuova:
Adoro questo mescolarmi a una folla, questo diventare un viaggiatore qualsiasi, libero dal proprio
ruolo, dall’immagine che uno ha di sè e che è a volte una gabbia stretta quanto quella del corpo;
sicuro di non imbattermi in qualcuno con cui dover fare conversazione, libero di mandare al
diavolo il primo che ci provava. (Terzani, 1996, p. 308)
Nel caso specifico del famoso giornalista Tiziano Terzani, ricrearsi una nuova quotidianità,
una nuova identità, consiste nello scegliere di essere uno qualunque, un “uomo della folla”,
invece del personaggio mediatico. C’è chi parte per sentirsi finalmente “qualcuno” e chi parte
per essere “nessuno”.
Molti studi hanno tentato di classificare le diverse ragioni che ci spingono a partire, dando
chiavi di lettura anche molto differenti. Lavarini (2005, p. 21) indica due filoni principali di
studi sul tema “viaggio”: il primo di tendenza marxista, che individua il bisogno di evadere
dell’individuo con cause esterne a lui. Queste motivazioni sono soprattutto di ordine
economico, collegate all’alienazione ed ad altri condizionamenti della società. Gli stessi mass
media, secondo questa teoria, sarebbero i mezzi attraverso cui le strategie economiche portano
il consumatore a fare determinate scelte piuttosto che altre. Questa visione è abbastanza
pessimista, in quanto vede il viaggiatore come un individuo passivo. Gli stessi intervistati non
sentono, in realtà, di essere influenzati dai prodotti culturali nella scelta dei loro viaggi: “Non
ho assolutamente bisogno di nulla per essere spinta a viaggiare” (Giulia, intervista numero
18), “I media non mi hanno mai influenzato” (Dario, intervista numero 7).
Il secondo filone di studiosi adduce il desiderio di viaggiare ad un bisogno innato e a-
storico. Quindi, per questi ultimi studiosi, il viaggiare è il prodotto di un processo interno,
collegato ai bisogni universali dell’individuo:
Ci sono due motivi fondamentali per mettersi in viaggio. Il primo è dare la priorità alle funzioni
fisiologiche: dormire, mangiare, andare in bagno, lavarsi, cavarsela con caldo e freddo (...) il
secondo è ridare alla nostra storia un destino, per quanto breve, per quanto limitato. Destino è
intanto la destinazione del vostro viaggio (La Cecla, 2002, p. 26).
Entrambe le correnti di pensiero sono veritiere in quanto, a prescindere dai bisogni innati
dell’individui, il denaro è uno strumento vincolante della società capitalista contemporanea.
Non è possibile viaggiare senza denaro. Nonostante molti sostengano il contrario, in realtà
tutti quelli che si spostano devono avere seppur un minimo budget. Il fattore economico va
valutato, sia da un punto di vista specifico di liquidi al fine di fruire di beni e servizi, sia da un
punto di vista più vasto legato alla classe sociale di appartenenza. Le persone tendono a
seguire gli standard della propria classe sociale e, di conseguenza, a scegliere tipologie di
viaggio e mete relative alle proprie tasche e ai dettami della propria classe.
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Altri autori, invece, come ad esempio cita Giovanna Gianturco si concentrano sul discorso
emotivo precedente la partenza, che sembra dipendere “dagli istinti o dai sentimenti che il
viaggio stesso mette in gioco, andando dai meno ai più volontari” (2000, p. 9).
Spesso il viaggio diventa simbolo del radicato desiderio dell’uomo di voler imporre e
dimostrare la maturità raggiunta, l’autonomia da una precedente condizione autoritaria o per
dimostrare la propria libertà. Quindi, la libertà dell’individuo diventa topos del viaggio
moderno. Interessante ciò che spiega in questo senso Guaita Ovidio (1999, p. 7), ovvero il
fatto che, durante il Medio Evo, in Inghilterra, nonostante questo secolo sia sempre stato
considerato come gretto e retrogrado, lo schiavo avesse la possibilità di liberarsi dalle catene
della schiavitù, compiendo un viaggio completamente solo, della durata di un anno. Nel caso
in cui lo schiavo avesse voluto svincolarsi dal suo padrone, sarebbe dovuto partire e
dimostrare di essere in grado di sopravvivere basandosi solo sulle sue forze. Nel caso in cui ce
l’avesse fatta, sarebbe diventato uomo libero a tutti gli effetti. Ecco che, quindi, il viaggio si
fa autoaffermazione dell’individuo e del nuovo status acquisito:
A noi così poco capaci di prendere in mano il nostro destino, il viaggio viene in aiuto offrendoci
un prestesto, un luogo da raggiungere che rimette la nostra vita per una piccola parte dentro una
narrazione: un inizio, le disavventure e le traversie, un momento di crisi, un nuovo inizio, un
percorso con scoperte, alcune prove da affrontare, dei compagni di strada, dei tesori trovati o
perduti, delle dame o dei cavalieri incrociati, e un esito, l’arrivo che spesso coincide con il ritorno
a casa. Ogni ritorno è un ritorno dell’eroe o dell’eroina, e ci pare di meritarci di nuovo la
quotidianità, il ritmo conosciuto, la sicurezza della caffettiera e dei colleghi d’ufficio, del
giornalaio e del supermercato (La Cecla, 2002, p. 26).
Stessa cosa si può dire degli spesso citati crociati. A parte la miriade di film che tendono a
mitizzare queste figure, in realtà i cavalieri medieovali erano personaggi scomodi in quanto
non trovavano una precisa collocazione sociale nel momento clue di cristallizzazione del
feudalesimo. Ed ecco che, invece di vivere allo sbando, molti decidevano di partire verso la
Terra Santa, al fine di rivalutare se stessi e, quindi, al ritorno godere di una nuova dignità.
Oltre a comprovare oltretutto “una innegabile sete d’ altrove”(Maffesoli, 1997, p. 60). Ciò
dimostra quanto in realtà, “contrariamente a quanto si dice, il Medio Evo sia stato un
momento di intensa circolazione e nomadismo che tocca tutti gli strati sociali” (idem) e che
grazie a questa spinta vero l’esterno ha promosso quel contatto fra civiltà che ha segnato in
maniera prolifica gli anni e le culture a venire.
Il viaggio è un’ottima chiave di lettura per percepire “lo spirito del tempo” che, se per il
Medio Evo era legato ad un momento instabile “che supera ciò che le classi sociali avevano
di costrittivo e di rigido” (idem.), per la società attuale diventa invece espressione delle mille
e più sfaccettature e necessità caratteristiche della modernità liquida contemporanea.
Allo stesso modo, attualmente il viaggio, essendo diventato un bene di consumo
primario, non è più un bene superfluo di cui pochi possono godere. Tutti ormai possono
viaggiare. È il come, il dove e il quando che diventa fattore discriminante. A prescindere dalle
motivazioni, un viaggio in Europa, piuttosto che in territori selvaggi o nel misterioso Oriente,
si riveste di simbologie e valenze che vanno ben al di là delle motivazioni nella scelta della
meta. La meta ha in tutto e per tutto delle simbologie forti, dipendenti dalla cultura di
appartenenza e, inconsciamente, il viaggiatore, al momento della scelta, si lascia
condizionare. Il viaggio diventa così status symbol che incarna ciò che siamo o ciò che
vorremmo essere.
Ad esempio, I Grand Tours, nati verso il XVI e XVII secolo, lunghi percorsi intrapresi da
giovani aristocratici inglesi o nord-europei, al fine di “completare e ridefinire la propria
educazione” (Leed, 1991, p. 216) e per conoscere le civiltà e l’arte dell’età classica, erano
viaggi elitari che nascevano come riti di passaggio dall’età adolescenziale all’età adulta.