4
concentrarsi su altro, le seconde imponendogli di chiamare l’amica o di incontrarsi
con l’amico al bar per essere immediatamente aggiornati.
Definire in modo completo il pettegolezzo può risultare un compito arduo, poiché
il termine viene usato, spesso anche impropriamente, per indicare diversi atti
comunicativi. Data quindi la sua frequente generalizzazione, può essere utile
assumere il pettegolezzo come genere comunicativo e considerare i fenomeni affini
come sue varianti.
Nel presente lavoro anzitutto mi soffermo sulla concezione del pettegolezzo come
discorso malizioso su un’altra persona o su fatti che la riguardano intimamente. Dalla
stessa definizione se ne possono subito dedurre alcuni elementi-chiave: la persona
di cui si (s)parla solitamente non è presente, chi (s)parla sta attento a non farsi
scoprire e chi ascolta garantisce a quest’ultimo la “massima” segretezza. La natura
stessa del pettegolezzo, quindi, scatena una serie di meccanismi strani,
contraddittori, eppure così spontanei.
La letteratura su questo fenomeno è molto vasta: studi che abbracciano
diverse discipline del sapere hanno prodotto le proprie teorie, hanno collaborato tra
loro, si sono contraddette, ma hanno evidenziato innumerevoli aspetti del
pettegolezzo. Cercherò di riportare e di sintetizzare i contributi più importanti e le
scoperte più interessanti ed innovative, non trascurando come si sono evolute le
ricerche dai primi studi fino ad oggi.
Tra i campi d’indagine più interessanti del pettegolezzo troviamo l’analisi della
sua struttura: come in tutte le forme comunicative, esistono degli elementi che
preannunciano l’avvio di una conversazione-pettegolezzo o che ne segnalano lo
svolgimento (tono di voce, formule linguistiche, mimica, ecc.). Questi elementi
attribuiscono agli individui coinvolti in queste conversazioni dei ruoli e delle
caratteristiche ben precisi e solo individuarli ci permette di identificare quando, anche
nel nostro quotidiano, ci troviamo di fronte ad un pettegolezzo.
Tra le diverse forme di pettegolezzo, comuni e, a mio parere, degne di
attenzione, sono le dicerie e le leggende metropolitane, tuttora oggetto di forte
interesse dei ricercatori: com’è possibile che nel XXI secolo, nonostante i
sorprendenti traguardi raggiunti dall’evoluzione sia scientifica che tecnologica, si
diffondano ancora queste “storielle” non vere, e spesso anche inverosimili? Ma
soprattutto, quali sono le dinamiche che inducono indistintamente tutte le classi
sociali e intellettuali a crederci?
5
Gli scritti recenti sul pettegolezzo esordiscono quasi tutti affermando che, mentre
prima era sempre stato condannato, oggi “i soliti americani sostengono che […]
faccia bene alla salute”
2
. Ma neanche affermazioni di questo tipo sono sempre
valide. Si possono verificare infatti dei casi in cui le “malelingue” scatenano delle
tempeste psicologiche o addirittura sociali che producono conseguenze disastrose,
come ad esempio nelle organizzazioni. A questo proposito esistono delle azioni anti-
pettegolezzo che mirano ad individuare gli elementi dannosi ed a preservare
l’equilibrio dell’individuo e del suo gruppo d’appartenenza.
Il mio intento tuttavia non è quello di prendere una posizione sul pettegolezzo,
bensì di osservarlo e di tentare di capirlo, mettendo alla luce tutti i suoi aspetti più
interessanti e più utili.
A questo scopo intraprenderò un “viaggio sociologico” esplorativo nel mondo del
pettegolezzo e delle sue sorelle, le dicerie e le leggende metropolitane, cercando di
individuarne le logiche. L’intera ricerca si propone inoltre come una specie di
“manuale d’uso” che offre al lettore degli strumenti per identificare il fenomeno nelle
sue manifestazioni quotidiane, analizzarlo e classificarlo in base ai suoi potenziali
effetti, ed infine gestirlo.
2
Nardi, 2001.
6
2. Definizioni
Il pettegolezzo è definito dal vocabolario come “discorso inopportuno e
indiscreto o, più spesso, malevolo su altre persone o su argomenti e fatti che le
riguardano da vicino; maldicenza”. Il pettegolo è colui “che fa chiacchiere e commenti
maliziosi sugli altri, per leggerezza o fatuità”
3
. Ma come vedremo più a avanti, queste
definizioni non sono per niente esaurenti.
Si ignora l’etimologia esatta del termine italiano, tuttavia è stata individuata e
collocata nel Cinquecento nelle zone dell’Italia settentrionale. Alcuni la attribuiscono
al termine pithecus, scimmia, altri all’antico verbo veneto “petegolàr” che significava
emettere piccoli peti
4
. Probabilmente è in questo campo semantico che si inserisce
l’espressione metaforica legata all’incontinenza verbale, riprendendo anche con il
finale “olezzo” il rumore organico e sgradevole
5
.
A questo proposito riporto un tratto del Barbiere di Siviglia che in un’aria (in
questo caso si tratta solo di un gioco di parole obbligato) descrive metaforicamente il
pettegolezzo maligno:
La calunnia è un venticello,
un’auretta assai gentile
che insensibile, sottile,
leggermente, dolcemente,
incomincia a sussurrar.
Piano piano, terra terra,
sottovoce sibilando,
va scorrendo, va ronzando;
nelle orecchie della gente
s’introduce destramente,
e le teste ed i cervelli
fa stordire e fa gonfiar.
Dalla bocca fuori uscendo
lo schiamazzo va crescendo,
prende forza
a poco a poco,
3
Zingarelli, 1994, p.1325.
4
In dialetto veneto, infatti, raccontare i fatti propri si dice “contàr tuti i peti”, come in bolognese “contàr tut i su pet”.
5
Ciuni e Mora, 2005.
7
vola già di loco in loco;
sembra il tuono, la tempesta
che nel sen della foresta
va fischiando, brontolando
e ti fa d’orror gelar.
Alla fin trabocca e scoppia,
si propaga, si raddoppia
e produce un’esplosione
come un colpo di cannone,
un tremuoto, un temporale,
un tumulto generale,
che fa l’aria rimbombar.
E il meschino calunniato,
avvilito, calpestato,
sotto il pubblico flagello
per gran sorte a crepar
6
.
Nel medioevo, tutto ciò che era ventoso veniva considerato come segno di
energia e di potenza. Probabilmente, alla nascita del termine si era già coscienti della
micidialità della forza comunicativa del pettegolezzo, tanto da riferirsi a immagini
medievali.
Nelle stesse regioni d’Italia i termini sono molteplici e diversi: “a Milano si
ciaciara, a Venezia si fanno ciacole, ma il pettegolezzo vero e proprio si chiama
sproteo. A Palermo si curtigghia, cioè si sta in cortile a parlare a vanvera, e a Napoli
una donna pettegola è vaiassa”
7
.
Il dizionario latino
8
fornisce, come prima traduzione di pettegolezzo, ineptiae (al
plurale: “chi indica sconvenienze”, “sciocchezze”, “inezie”, “assurdità”, “scherzi”). Ma
anche inānis rumor (o incertus rumor, che usava Cesare
9
), con la connotazione di
“rumore vuoto”, “inconsistente”, “senza valore”, “inutile”, “fallace”, “simulato”. Infine,
far pettegolezzo viene reso con temĕre efflūtīre, dove il verbo efflūtīre significa
“buttar fuori a casaccio”, “dire a vanvera”, “spifferare”, “divulgare”, e l’avverbio temĕre
può essere tradotto con “alla cieca”, “alla leggera”, “senza riflessione”.
6
Sterbini, 1969, pp.34-35.
7
Ciuni e Mora, 2005, p.22.
8
Castiglioni e Mariotti, 1990, p.1683.
9
Ciuni e Mora, 2005.
8
In italiano i vari sinonimi, come chiacchiera, ciarla, cicalata, ciancia, hanno
un’origine onomatopeica, le cui forme base sono chi-chi e cia-cia. Il termine stesso
pettegolezzo ha delle affinità con la nomenclatura di alcuni uccelli come ad esempio
la Pettegola
10
. Anche voce, diceria e “rumore” rimandano a suoni quasi sterili, poco
gradevoli o addirittura indifferenti. Per quanto riguarda poi il termine leggenda
metropolitana, approfondirò la sua definizione, più complessa, nel paragrafo 5.2.
Insomma, che si tratti di aria o suoni, tutto il campo semantico richiama
qualcosa di vuoto e inconsistente, di volatile, leggero e indefinito.
Ma vediamo come il pettegolezzo viene interpretato nelle altre lingue.
Il termine francese ragot (pettegolezzo di più basso livello, calunnia), che
indicava originariamente il grugnito emesso da un cinghiale, fa riferimento alla fonte
e all’effetto di una comunicazione: una persona non attendibile racconta qualcosa
che mette in cattiva luce qualcun’altro. Oggi, invece, lo stesso termine corrisponde al
contenuto e all’oggetto: si tratta di storie al limite della calunnia, messe in circolo a
proposito di qualcuno e che non fanno onore a chi le diffonde, anzi, lo abbassano al
livello di bestia.
Sempre in francese, potin (chiacchiera) rimanda alla voce, al rumore. Anche
questo, insieme a rumeur, racconta fatti e misfatti e prende di mira persone sia
importanti che insignificanti, ma, al contrario del pettegolezzo, non è cattivo, viene
consumato per il gusto di parlare e viene facilmente sostituito da uno nuovo.
Le commérage (da commère, commater in latino, comadre in spagnolo) indica
la fonte: chi parla è una madrina, una comare, quindi una fonte priva di credibilità
11
.
Anche in inglese gossip (pettegolezzo) ha le stesse origini. L’antica espressione
“god-sib” indicava un parente, un amico di famiglia scelto come madrina o padrino
alla nascita di un bambino e che ne diveniva il confidente. Più precisamente, la
parola è composta da God, “Dio”, e sib, che è la radice di sibling, “legato da
parentela”. Letteralmente, quindi, “imparentato attraverso Dio”
12
.
Francese, spagnolo e inglese si focalizzano sulla fonte del pettegolezzo,
evocando donnette che, magari filando sulle porte di casa, (s)parlano del vicinato.
10
La Pettegola, appartenente al genere Tringa totanus, è un uccello poco territoriale, tende a formare vaste colonie durante
il periodo della riproduzione, ma quando un predatore attacca un nido tutti gli adulti si radunano per cacciarlo. E famoso è
proprio il suo verso: quando è spaventata la Pettegola aumenta la frequenza dei richiami emettendo dei suoni simili ad uno
stridio prolungato. Probabilmente in questo suono viene identificato l’effetto, con connotazione senz’altro negativa, dei
pettegoli.
11
L’immagine evocata è quella del ciarlare delle comari riunite a parlare con la donna che ha appena partorito.
12
Ciuni e Mora, 2005.
9
Persino in russo “babushka skazala” (“nonnina diceva”) è usato per dire “corre voce
che…”.
La tradizione, per lo meno europea, attribuisce l’arte del pettegolezzo alla figura
femminile. Ma più avanti cercheremo di capire il perché.
2.1. Il pettegolezzo come genere comunicativo
In ogni società umana esistono processi comunicativi caratterizzati da un grado
di omogeneità, per ciò che riguarda la regolarità, la ricorrenza, la situazionalità e la
temporalità, e tale omogeneità deriva anche dal fatto che le persone riconoscono e
accettano le forme comunicative di cui si servono per realizzare e determinare azioni.
Partendo da quest’idea, l’etnografia della comunicazione ha introdotto la nozione di
“genere comunicativo”.
I generi comunicativi costituiscono un modello di selezione e integrazione di
elementi comunicativi che ha la funzione di guidare e ordinare le azioni in un evento
comunicativo
13
. Adattando l’integrazione di questi elementi all’esperienza
comunicativa, i partecipanti possono dedurre quali generi guideranno il loro
comportamento comunicativo. Di conseguenza, i generi comunicativi sono veri e
propri oggetti culturali che vincolano i soggetti a forme, modalità e regole che sono
specifiche di quel dato genere.
Il vantaggio che offre il concetto di genere alla descrizione dei processi
comunicativi sta nel fatto che anche i processi comunicativi individuali rappresentano
delle interpretazioni e delle realizzazioni di tipi di generi discorsivi. Questi tipi devono
essere considerati come forme o linee di orientamento che possono essere usate sia
da chi le produce che da chi le riceve. I generi comunicativi, in poche parole, sono
usati dai partecipanti come modelli di orientamento, socialmente riconosciuti e
istituzionalizzati all’interno di una comunità.
Una tipologia del genere può essere identificata in base alle sue componenti
strutturali come, ad esempio, il livello di obbligatorietà (formale o informale), la
struttura relazionale richiesta (collaborativa, solidale, egualitaria,...), la modalità
discorsiva (narrativa, argomentativa,...).
13
Bateson e Ruesch, 1951.
10
Il concetto di genere si può riferire anche al processo di tipizzazione della
comprensione del quotidiano, anche se resta comunque difficile fissare delle
tipologie autonome, poiché sono gli attori stessi che controllano le categorie ed i
generi comunicativi.
La categoria “pettegolezzo” nella vita quotidiana è proprio un esempio di questa
tipologia. Come ogni genere, anche il pettegolezzo presenta dei sottogeneri, delle
varianti, tra le quali analizzeremo più avanti in particolare la diceria e la leggenda
metropolitana.
11
3. Una storia… di studi
La difficoltà di analizzare un fenomeno quotidiano come il pettegolezzo risiede
non solo nel fatto che si tratti di una pratica ovvia, ma che non vi sia una metodologia
specifica alla quale ricorrere per ottenere delle spiegazioni soddisfacenti. Tantomeno
esiste una sola disciplina che possa abbracciare tutto il fenomeno.
Diceria e pettegolezzo sono alla base dell’epistemologia
14
: testimoniano infatti
come le persone intendono dare un senso al loro mondo e come intendono
accordare fiducia al carattere morale e al significato degli eventi. Per queste ragioni
sono state al centro di varie discipline come la psicologia, la sociologia,
l’antropologia, l’etnologia, il diritto e il giornalismo.
Date l’ampiezza e la complessità del fenomeno, non risulta meno difficoltoso il
tentativo di sintetizzarne le ricerche e gli studi effettuati fino ad oggi: occorrerebbe
operare un percorso teorico suddividendolo per aree analizzando separatamente
pettegolezzo tra gruppi informali, gossip mediatico, dicerie, leggende metropolitane,
ecc.
Cercherò qui di tracciare una storia delle ricerche e delle scoperte più
significative che abbracci il più possibile tutto il fenomeno e le sue varianti. Per avere
una panoramica ancora più completa citerò anche alcuni autori e teorie che non
approfondirò particolarmente nel corso del mio studio, ma che ritengo importanti nel
campo delle ricerche sul pettegolezzo
15
.
Le prime ricerche furono soprattutto oggetto di interesse degli antropologi.
Radin (1927) descrisse il modo in cui gli uomini primitivi erano tra i pettegoli più
incorreggibili e ostinati: competitori per gli stessi onori, possessori dei riti sacri della
tribù, autorizzati narratori di leggende. Ricorse alla tesi secondo la quale la società
tribale ha una teoria della libertà di espressione che attribuisce a ogni individuo il
diritto alla calunnia, alla diffamazione, all’invidia, alla gelosia e grazie a questo può
dare sfogo a diverse emozioni.
Sin dalla metà degli anni Trenta anche molti etnologi iniziarono a preoccuparsi
di studiare il fenomeno del pettegolezzo dal punto di vista della sua riproduzione fra
le persone. Osservando che è confinato a eventi concreti e a questioni personali, si
14
Fine, 1985.
15
Tralascio in questo percorso gli enti che si occupano di ricerche statistiche.
12
tentò di descrivere i fattori individuali che caratterizzano le circostanze della sua
realizzazione. La descrizione del pettegolezzo in questi studi si concentrava
prettamente sulle circostanze del suo emergere e dei suoi effetti, in particolare sui
luoghi, sui partecipanti, sulla vittima, sul soggetto e sui timori
16
.
Tra gli studi etnologici più importanti ricordiamo quelli di Parsons
17
(1936),
Colson (1953), Roberts (1964) ed Evans-Pritchard (1970). In particolare, Colson e
Roberts, a seguito di alcuni studi effettuati sugli indiani del Nord America,
osservarono che il pettegolezzo in quelle civiltà aveva una funzione di controllo
sociale, che permetteva loro di mantenere e tramandare norme e cultura, non
possedendo alcuna forma di linguaggio scritto.
West (1945) dimostrò il ruolo pervasivo del pettegolezzo nella vita di comunità e
fornì esempi di scambi e di imbrogli di notizie, di come la gente racconta, sospetta,
deride e condanna i piccoli peccati degli altri e come il controllo religioso della morale
agisce attraverso il pettegolezzo e la paura.
In un famoso articolo del 1963, Gossip and scandal pubblicato in Current
Anthropology, Gluckman propose la sua tesi sulla validità di certe norme per cui il
pettegolezzo è un mezzo di controllo sociale ed ha una funzione prevalentemente
stabilizzatrice. Questa visione dominò per lungo tempo il dibattito antropologico sul
tema. Egli intuì che non si tratta assolutamente di una chiacchiera vuota e
insignificante come normalmente si crede, ma che al contrario ricopre importanti
funzioni per preservare e difendere un gruppo sociale, rafforzando un codice di
regole attraverso la disapprovazione degli errori, e ribadendo la validità delle norme e
dei valori del gruppo. Il disprezzo sociale è insignificante e trascurato: chi spettegola
obbliga sia se stesso che l’oggetto del pettegolezzo all’appartenenza al gruppo
sociale e quindi lo rafforza come unità sociale.
Paine (1968) prese le distanze da questo approccio strettamente funzionale e
sviluppò un’ipotesi alternativa. Partendo dall’osservazione che il pettegolezzo è
anzitutto un modello di comunicazione informativa che riguarda essenzialmente lo
scambio di informazioni, lo stesso pettegolezzo rappresenta un’istituzione che crea e
distribuisce informazioni in base agli interessi individuali. Questa visione strategica e
manipolatrice dei pettegolezzi, cosí come delle dicerie, fu confermata da altri
studiosi, come Faris (1966), Szwed (1966) e Hannerz (1967).
16
Marcarino, 1997.
17
Che però è un sociologo.
13
Cox (1970), nei i suoi studi sugli indiani Hopi, dimostrò addirittura che in
quell’ambiente il pettegolezzo veniva praticato principalmente per screditare la forza
politica rivale.
Sempre in un’ottica funzionalista, Rosnow (1974, 1977) affermò che la
diffusione di notizie false e fare pettegolezzi implica sempre uno scambio di altre
risorse. Rose (1951) aveva già dimostrato, durante uno studio sulla circolazione delle
voci in “borsa”, il valore dello scambio di informazioni e la ripercussione sul sistema
economico finanziario. Altri, come Medini e Rosenberg (1976) e Suls (1977),
sostenevano invece che il valore di scambio maggiore delle voci sia da ricercarsi
nella “valutazione sociale”, in quanto il pettegolezzo offre agli individui la possibilità di
confrontarsi evitando l’imbarazzo di chiedere direttamente informazioni.
Bergmann (1993), studiando l’azione del pettegolezzo, constatò che anche in
gruppi ristretti, in comunità più o meno stabili e omogenee, questa pratica ricopre la
funzione regolatrice e di controllo sulle relazioni sociali. Ipotizzò inoltre un modello
d’azione che comprende tre figure: l’autore, l’oggetto e il destinatario. La posizione
intermediaria dell’autore del pettegolezzo era già stata analizzata da Schutz (1946) e
suddivisa in tre categorie: l’esperto, l’uomo della strada e il cittadino ben informato.
La complessità dello studio di questo fenomeno dall’entità infinita e dagli
innumerevoli aspetti spinse Fine (1985) ad elaborarne una visione globale e a
definirne gli approcci distinguendoli in: funzionale, strategico e situazionale. Sperber
(1985) vi aggiunse l’approccio epidemiologico
18
. A dire il vero l’approccio
epidemiologico era già stato introdotto da Tarde (1985, 1998) e sviluppato da diversi
biologi, come Sforza e Feldman (1981), Dawkins (1976, 1982), Lumsden e Wilson
(1981) e Boyd e Richerson (1985). In questo caso, l’apporto di Sperber smontò la
teoria di questi ultimi, secondo cui il processo base della trasmissione culturale è la
replica: insieme a Wilson, sostenne che ciò che si riesce a ottenere attraverso la
comunicazione umana è soltanto un semplice grado di somiglianza tra i pensieri del
comunicatore e quelli del suo ascoltatore. Un processo di comunicazione è
fondamentalmente un processo di trasformazione, che varia tra i due gradi estremi:
la duplicazione e la distruzione. Solo le rappresentazioni che vengono ripetutamente
comunicate e molto poco trasformate divengono alla fine parte della cultura, anche
se subiscono comunque l’influenza di molti altri fattori, tra cui quelli psicologici e
18
A questi approcci farò riferimento nel capitolo successivo.
14
ambientali. I primi includono la facilità con cui una rappresentazione può essere
memorizzata, l’esistenza di fondo rispetto alla quale è pertinente, una motivazione
per comunicarne il contenuto. I secondi, invece, includono la ricorrenza di situazioni
in cui la rappresentazione ha luogo, la disponibilità di depositi esterni di memoria (in
particolare gli scritti) e l’esistenza di istituzioni impegnate nella sua trasmissione.
Ma quando il pettegolezzo prende piede e coinvolge anche i mezzi di
comunicazione di massa, le sue dimensioni generano un fenomeno che necessita
l’approfondimento di altri studi più specifici.
Park (1925) fu tra i primi sociologi a studiare i mezzi di comunicazione di
massa. Egli osservò che una delle funzioni della comunicazione è quella di integrare
i gruppi nello spazio e nel tempo e che nella società moderna i mass media sono
strumenti di integrazione sociale: aiutano i “nuovi arrivati” ad entrare nella società,
ma sono anche dei mezzi che permettono ai gruppi di riflettere su loro stessi. Il
giornale, in particolare, svolge una funzione di diffusione dell’informazione, di
formazione di opinioni pubbliche e di controllo sociale. Quest’ultima funzione si
riferisce soprattutto ai giornali locali. In questa stessa direzione il pettegolezzo è un
tipo di comunicazione molto particolare che soddisfa la curiosità verso il prossimo e
controlla la società. Ora, applicando al pettegolezzo i canali della comunicazione di
massa, ne risulta un mix esplosivo: abbattendo i confini di spazio e tempo, il
pettegolezzo rischia di controllare una grande parte dell’umanità
19
.
Diversi, seppure simili in molti aspetti, risultano gli studi relativi alle dicerie e alle
leggende metropolitane. In questo caso il pettegolezzo è da considerare un vero e
proprio fenomeno sociale, che non coinvolge più solo i membri di un gruppo ristretto
di persone, ma che si propaga sia livello geografico che temporale secondo
dinamiche ancora oggi poco chiare. Tuttavia molti sociologi hanno cercato di fornire
spiegazioni più o meno soddisfacenti.
I primi tra i più importanti studi sui “rumori” si collocano principalmente negli
Stati Uniti alla fine della seconda guerra mondiale.
19
Innumerevoli altri teorici, soprattutto recenti, trattano del cosiddetto gossip mediatico: basti pensare al provato e sempre
crescente interesse per la vita privata dei vip nei notiziari, alla continua domanda e offerta dei reality show in televisione, alle
dinamiche di intrusione di internet e a tutti i fenomeni scatenati da questo tipo di comunicazione. Ma mi limito ad accennare
solo Park, sia perché è il più rappresentativo, sia perché non intendo approfondire ulteriormente quest’aspetto nel mio
studio, che diventerebbe altrimenti troppo dispersivo.