Introduzione
5
Nel caso delle risorse della pesca, si può arrivare a una diminuzione, spesso
drammatica, dei rendimenti commerciali, in relazione allo sforzo profuso per
ottenerli, con un conseguente decremento numerico di parte della popolazione,
compresi gli esemplari immaturi.
Uno stock è sovrasfruttato (situazione di “overfishing”) quando in seguito ad un
brusco aumento dei rendimenti di pesca prodotto da un aumento dello sforzo o da un
progresso tecnologico avviene un rapido crollo delle catture.
Sono molti i casi di overfishing che si sono verificati in diverse parti del mondo.
Basti pensare al caso dell’acciuga peruviana, Engraulis ringens, la cui pesca si
sviluppò negli anni ’60. Lo sfruttamento indiscriminato portò al collasso dello stock
tra il 1972 e il 1973. Ciò provocò un drammatico impatto sull’economia del Perù,
dove l’esportazione di farina di pesce ricavata dall’acciuga costituiva la seconda più
importante fonte di valuta estera.
Altro esempio storico di overfishing è quello dell’ippoglosso, Hippoglossus
hippoglossus, pesce pleuronettiforme di grandi dimensioni. Lo sbarcato di questa
specie, nella costa del Pacifico Settentrionale, si ridusse ad un terzo dal 1915 al 1927,
a causa dell’eccessivo sfruttamento.
In Italia è emblematico il caso delle vongole veraci di Goro. In quest’area deltizia del
Po, fino ad alcuni decenni fa lo stock di vongola verace, Tapes (Ruditapes)
decussatus, risultava uno dei più produttivi dell’Adriatico. Il suo sfruttamento iniziò
nel 1969 e nell’arco di pochi anni determinò una drastica riduzione della consistenza
dello stock. Lo sfruttamento portò alla riduzione degli esemplari adulti, causando un
eccessivo ringiovanimento della popolazione, per cui essa non poteva sostenere una
intensa attività di pesca.
Anche nel caso del nasello, Merluccius merluccius, le catture sono costituite per
quasi il 90% da stadi giovanili, ovvero esemplari che non hanno ancora raggiunto la
taglia di maturità sessuale. In questo modo le rese in biomassa ed economiche non
vengono ottimizzate.
Una popolazione ittica sfruttata dalla pesca è soggetta quindi, oltre alla mortalità
naturale, anche ad una forma aggiuntiva di mortalità, prodotta dall’attività di pesca
(Pauly, 1984). In alcuni casi si verifica un’eccessiva pressione di pesca sui
riproduttori, che riduce enormemente le capacità rigenerative dello stock (Caddy,
1993). Un altro tipo di sovrasfruttamento è quello dell’ecosistema, che comporta un
cambiamento nella struttura del popolamento ittico tale da produrre un declino delle
specie più abbondanti a cui non fa seguito un aumento di un’altra specie o di un altro
gruppo di specie (Pauly, 1984).
1.2 La biologia della pesca
Allo scopo di affrontare questi problemi si è sviluppata la biologia della pesca, una
disciplina scientifica mirata allo studio delle popolazioni ittiche e all’elaborazione di
adeguate misure gestionali per uno sfruttamento razionale delle risorse.
Introduzione
6
L’origine di questa disciplina coincide con i lavori di Peterson ed Heincke che
portarono nel 1902 all’istituzione del Consiglio Internazionale per l’Esplorazione del
Mare (ICES), tuttora operante, per la gestione della pesca nel Mare del Nord.
È comunque soltanto a partire dagli anni ’50 che questa scienza è soggetta ad un
notevole sviluppo grazie all’opera di Beverton e Holt. I due studiosi si avvalsero di
serie storiche di dati di pesca, raccolti dall’ICES, a partire dal periodo che precedeva
l’inizio della seconda guerra mondiale. In questo modo arrivarono alla conclusione
che l’interruzione dell’attività di pesca durante il periodo bellico aveva portato ad un
notevole aumento dell’abbondanza delle risorse demersali nel Mare del Nord, seguito
da un declino di tali risorse alla ripresa dell’attività di pesca.
Beverton e Holt svilupparono nel 1957 un modello matematico, noto come
“equazione di rendimento per recluta”, principio su cui si è basata gran parte della
gestione della pesca nei decenni successivi (Beverton e Holt, 1957).
Il concetto fondamentale alla base di questi studi è quello di stock. Secondo Sparre et
al. (1989) uno stock è un gruppo di organismi della stessa specie, soggetti alle stesse
modalità di sfruttamento, aventi gli stessi parametri popolazionali quali mortalità,
caratteristiche fisiologiche ecc., distribuito in una particolare area geografica e
soggetto a scarsi scambi con i gruppi adiacenti.
Una corretta gestione delle risorse deve permettere che la strategia di pesca adottata
garantisca il più alto rendimento e che questo rimanga costante anno dopo anno.
L’obiettivo a cui dovrebbe tendere una corretta gestione è quello del massimo
rendimento sostenibile (MSY) (Ricker, 1975).
1.3 Misure gestionali
Allo scopo di garantire uno sfruttamento razionale delle risorse ittiche, sono state
messe a punto, in questi anni, diverse misure gestionali.
Ci sono misure basate sulla definizione di quote massime prelevabili da un
determinato stock (TAC, “total allowable catches”, quote totali ammissibili). Questo
tipo di misura, ampiamente applicato per gli stock ittici del Mare del Nord, è stato
recentemente adottato anche in Mediterraneo, per la gestione del tonno.
Altre misure di gestione, basate sulla regolamentazione degli attrezzi da pesca,
mirano a limitare il loro impatto sulla frazione giovanile degli stock o sulle specie
protette. Fra queste ci sono le regolamentazioni tecniche sulle caratteristiche degli
attrezzi (dimensioni delle maglie, lunghezza delle reti, ecc.) o le misure che
stabiliscono la taglia minima commercializzabile delle specie ittiche. Per quanto
riguarda il Mediterraneo, merita di essere citato il Regolamento comunitario 1626 del
1994 che stabilisce in 40 mm la dimensione minima delle maglie delle reti da pesca e
introduce la taglia minima di sbarco per le specie ittiche più importanti.
Anche la riduzione della capacità di pesca, misura basata sulla riduzione del numero
e/o della potenza delle imbarcazioni, rappresenta uno strumento mirato a
regolamentare lo sforzo di pesca.
Introduzione
7
Altre misure gestionali sono basate sulla riduzione dei tempi di pesca, attuata
attraverso un fermo temporaneo dell’attività di pesca, in modo da tutelare il
reclutamento.
Infine ci sono misure gestionali basate sulla riduzione della mortalità o
sull’incremento della biomassa. Un esempio di queste misure è il divieto di pesca a
strascico entro le tre miglia dalla costa o la batimetrica dei 50 m.
1.4 Dall’approccio monospecifico a quello multispecifico
Purtroppo, l’applicazione delle misure gestionali non sempre ha sortito gli effetti
prefissati. Ad esempio, il sistema delle quote applicato per la pesca del merluzzo
(Gadus morhua) nel Mar del Nord non ha portato ad una ricostituzione dello stock,
anzi i livelli di questa popolazione sembrano essere ancora in declino. Il collasso di
molti stock ha dimostrato la vulnerabilità delle risorse ittiche ed il fallimento dei
metodi gestionali applicati.
La fauna ittica, quella del Mediterraneo in particolare, è caratterizzata da un’elevata
diversità biologica e da complesse interazioni tra specie, ed è inserita in ecosistemi
molto complessi. Questo aspetto è facilmente riscontrabile, anche nel caso della
pesca, dalla multispecificità delle catture. Tuttavia, le classiche misure di gestione,
trattano ogni specie come se vivesse isolata dalle altre e non tengono in
considerazione le interazioni che esistono con le altre specie, né con l’intero
ecosistema nel suo complesso.
Si è arrivati pertanto all’elaborazione di nuovi modelli gestionali, che partono da un
approccio multispecifico, cercando di considerare il più possibile le complesse
interazioni biotiche. Questa nuova direzione è stata tra l’altro supportata dalle linee
guida che sono giunte da diverse convenzioni a livello internazionale.
A seguito della Convenzione di Barcellona (1982), i paesi firmatari, fra cui l’Italia,
dovrebbero prendere tutte le misure più appropriate atte a proteggere quelle aree
marine importanti per la salvaguardia delle risorse e dei siti naturali del Mediterraneo.
Successivamente, con la Conferenza di Rio de Janeiro del 1992 è nato il concetto di
sviluppo sostenibile. In questo senso, la tutela dell’ambiente deve costituire parte
integrante delle politiche economiche; durante questo summit è stata approvata anche
una convenzione internazionale sulla conservazione della biodiversità. I principi della
Conferenza di Rio de Janeiro hanno trovato una prima applicazione al mondo della
pesca attraverso la pubblicazione, nel 1995, del “Codice di Condotta per una Pesca
Responsabile”, da parte della FAO (FAO, 1995). Questo documento ha lo scopo di
stabilire i principi per la conservazione, la gestione e lo sviluppo sostenibile della
pesca. Si tratta di linee guida per assicurare uno sfruttamento sostenibile delle risorse
acquatiche.
Il codice è stato redatto da 170 paesi; non è obbligatorio ma, sottoscrivendolo, i
governi si impegnano ad operare secondo i principi e gli standard del codice. Sono 12
gli articoli che forniscono indicazioni di comportamento sull’attività di cattura,
lavorazione e commercio dei prodotti ittici, sulla ricerca scientifica.
Introduzione
8
Di particolare interesse è il “principio precauzionale” che suggerisce di non sfruttare
in modo eccessivo le risorse, in mancanza di sufficienti ed adeguate conoscenze
scientifiche e di non ritardare l’adozione di provvedimenti utili alla conservazione
delle specie e dell’ambiente.
Dalle linee guida del codice di condotta della FAO emerge che non è efficace basare
le politiche di gestione della pesca esclusivamente su un approccio monospecifico.
Alti livelli di variabilità nella produttività, nell’abbondanza, nella composizione in
specie ed in taglia, non sono prevedibili da modelli monospecifici; tali problemi
possono essere ovviati attraverso un approccio multispecifico (Caddy e Sharp, 1986;
Brugge e Holden, 1991).
1.5 Approccio ecosistemico per la gestione delle risorse
Classicamente, la gestione delle risorse biologiche marine si è concentrata sulla
valutazione e conservazione degli stock di specie oggetto di pesca, tralasciando gli
effetti che tale attività determina sull’ecosistema marino.
Negli ultimi anni si è fatta strada la percezione del fallimento dei metodi classici di
valutazione e gestione delle risorse demersali, basati su un approccio monospecifico,
e che tali politiche di gestione dovrebbero essere incentrate sull’ecosistema nel suo
complesso (Brugge e Holden, 1991).
Queste considerazioni hanno condotto al cosìddetto approccio ecosistemico alla
gestione della pesca (EAF, “ecosystem approach to fisheries”) definito dalla FAO
come l’estensione e l’integrazione dei metodi convenzionali di gestione delle risorse
biologiche marine, sottolineando la stretta interdipendenza tra il benessere
dell’umanità, la conservazione dell’ambiente e la necessità di mantenere la
produttività degli ecosistemi per le generazioni presenti e future (Ward et al., 2002;
Garcia et al., 2003).
Il termine “approccio ecosistemico alla pesca” è stato adottato dalla FAO durante la
Conferenza di Reykjavik nel Settembre 2002 sulla gestione della pesca basata
sull’ecosistema. La gestione dell’ecosistema è basata sull’area, piuttosto che su un
unico settore; è un approccio olistico. Il suo scopo è quello di mantenere gli
ecosistemi in una condizione sostenibile. Secondo Lackey (1999), la gestione
dell’ecosistema è l’applicazione di informazioni ecologiche, economiche, sociali e di
vincoli per realizzare i benefici sociali desiderati, entro una definita area geografica e
per uno specifico periodo. Questo tipo di politica include decisioni gestionali basate
su una vasta consapevolezza delle conseguenze, per l’ecosistema, della pesca o di
altre attività antropiche (FAO-ACMRR, 1979).
Un approccio ecosistemico alla pesca deve bilanciare diversi obiettivi sociali, tenendo
conto delle conoscenze ed incertezze sulle componenti biotiche, abiotiche e umane
dell’ecosistema e le loro interazioni (Garcia et al., 2003).
L’attenzione sull’approccio all’ecosistema marino, piuttosto che sulle singole specie
o stock, ha determinato la necessità di misurare ed analizzare l’impatto delle attività
di pesca sull’ecosistema, contribuendo allo sviluppo di questo settore di ricerca.
Introduzione
9
1.6 Habitat sensibili ed essenziali (SH, EFH)
Esperimenti di chiusura di aree con peculiari caratteristiche ecosistemiche, di
particolare rilevanza per gli stock ittici, sono stati condotti nell’Oceano Atlantico e
nel Mar del Nord. Queste misure sono state finalizzate al recupero di stock ittici che
si trovavano in situazione di sovrasfruttamento.
Si possono distinguere due grandi tipologie di habitat, la cui tutela può avere effetti
benefici per la gestione degli stock ittici: gli habitat essenziali (“Essential Fish
Habitat”, EFH) e gli habitat sensibili (“Sensitive Habitat”, SH).
Gli habitat essenziali sono costituiti da quelle zone necessarie agli organismi marini
per la riproduzione, l’alimentazione e il raggiungimento della maturità sessuale
(Ardizzone, 2006). In questo caso, più che di habitat, è più opportuno parlare di parti
di ciascun habitat, dove le specie trascorrono diversi stadi del loro ciclo vitale.
Possiamo definire habitat essenziali (EFH) come la più fragile e critica parte di
ciascun habitat, in relazione ai bisogni ecologici e biologici di ciascuna specie
sfruttata, che deve essere protetta per mantenere la sostenibilità dello stock
(Ardizzone, 2006). La conoscenza del ciclo biologico di ciascuna specie di interesse
commerciale è un importante punto di partenza per una corretta gestione.
Un approccio per implementare la protezione di questi habitat potrebbe essere la
chiusura delle aree (“No Take Area”).
Gli habitat sensibili sono habitat diffusi, importanti per le specie commerciali e non,
riconosciuti a livello internazionale per il loro ruolo ecologico (Ardizzone, 2006).
Questi habitat sono fragili e sensibili all’impatto antropico. Esempi di habitat
sensibili sono le praterie di Posidonia oceanica, il coralligeno, gli ambienti salmastri
e lagunari, i fondi caratterizzati dalla presenza del crinoide Leptometra phalangium.
Una corretta politica di gestione dovrebbe introdurre dei criteri generali per
l’identificazione degli habitat essenziali e sensibili, iniziando con l’individuazione di
una lista di priorità delle specie considerate (Ardizzone, 2006).
1.7 La pesca in Italia
La pesca in Italia si concentra prevalentemente sulla piattaforma e sulla scarpata
continentale. Le risorse che si trovano oltre i 600 m di profondità risultano di difficile
accesso. Poiché in Italia la piattaforma continentale risulta poco estesa, ad eccezione
della zona adriatica, l’attività di molte imbarcazioni si concentra su un’area ridotta
causando uno sforzo eccessivo.
Lo strascico riveste un ruolo fondamentale fra i vari tipi di pesca presenti in Italia.
Sono circa 30 le specie più importanti dal punto di vista commerciale e della
biomassa. Tra queste, di particolare interesse sono: il nasello (M. merluccius), la
triglia di fango (Mullus barbatus), il potassolo (Micromesistius poutassou), lo
scampo (Nephrops norvegicus), il gambero rosso (Aristaeomorpha foliacea), il
Introduzione
10
gambero viola (Aristeus antennatus), il gambero rosa (Parapenaeus longirostris), il
polpo di scoglio (Octopus vulgaris), ed il moscardino (Eledone cirrhosa).
Per quanto riguarda le misure gestionali adottate in Italia, la riduzione della capacità
di pesca viene attuata mantenendo invariato il numero delle licenze (Legge 41/82).
Nonostante la riduzione del numero di imbarcazioni verificatasi in questi ultimi anni,
la capacità di pesca non ha mostrato una sostanziale diminuzione, a causa
dell’aumento della potenza motrice.
Per diminuire la pressione della pesca sulle forme giovanili è stato adottato il fermo
biologico (DM 21/7/1988). Questa misura rappresenta una sospensione dell’attività di
pesca che tutela le fasi giovanili di specie ittiche che, in quel particolare periodo,
sono catturabili dagli attrezzi di pesca. Data la multispecificità delle catture, tipica
della pesca a strascico, il fermo biologico produce effetti limitati in quanto solo poche
specie ne risultano favorite a scapito di altre. Infatti le varie specie hanno stagioni
riproduttive diverse, dimensioni massime differenti. Il fermo biologico non ha
prodotto gli effetti attesi, non c’è stato un aumento di biomassa stabile nel tempo. Per
questo motivo, nell’individuare misure gestionali in grado di far diminuire la
mortalità da pesca esercitata sulle forme giovanili, si è giunti all’instaurazione delle
Zone di Tutela Biologica (ZTB), in modo da tutelare l’habitat nel suo insieme.
1.8 Zone di Tutela Biologica
Il Decreto Ministeriale del 16 giugno 1998 ha istituito nei mari italiani 4 Zone di
Tutela Biologica, aree di particolare rilevanza per le risorse ittiche, soprattutto per la
presenza di elevate concentrazioni di reclute di specie commerciali. Tra queste vi è la
ZTB “Argentario” un’area di circa 50 km
2
localizzata ad ovest dell’Isola del Giglio,
su fondali tra 160 e 220 m. Successivamente, con il D.M. 19/06/2003 è stato
incrementato il numero delle zone di tutela biologica a 11 e sono stati istituiti i
Comitati di gestione con il compito di regolamentare l’attività di pesca professionale
e sportiva e di effettuare i relativi monitoraggi e controlli.
L’introduzione delle ZTB ha costituito un ulteriore passo volto alla tutela delle
risorse alieutiche. Infatti queste aree sono soggette ad una regolamentazione delle
attività di pesca, negli attrezzi, nei tempi e nelle modalità, al fine di proteggere ed
incrementare le risorse ittiche.
Queste zone sono entrate in funzione a partire da gennaio 2005, con l’interdizione
della pesca a strascico. Una ZTB può produrre i seguenti effetti: creare un rifugio per
gli stadi vitali più sensibili, proteggere una parte dei riproduttori, permettere il
recupero della struttura di taglia delle specie sfruttate, recuperare gli stock impoveriti,
aumentare le catture della pesca in aree adiacenti, proteggere le aree di nursery di
specie commerciali, aumentare il reclutamento verso aree esterne (Kingsford e
Battershill, 1998).
Le aree adiacenti aperte alla pesca potrebbero beneficiare dell’incremento della
produzione dei popolamenti ittici verificatasi all’interno della ZTB, attraverso
Introduzione
11
fenomeni di “spill-over” (Russ e Alcala, 1996), vale a dire la migrazione di individui
dalla zona di tutela alle aree adiacenti.
Alcuni autori hanno rilevato il pericolo che, in mancanza di una adeguata politica di
riduzione dello sforzo e capacità di pesca, l’istituzione di ZTB possa determinare un
semplice spostamento della distribuzione dell’attività di pesca in aree
precedentemente poco sfruttate, contribuendo, in certi casi, a peggiorare, piuttosto
che migliorare, la qualità dell’ambiente marino (Kaiser et al., 2002).
1.9 Obiettivi della tesi
Nell’ambito di queste problematiche è stato svolto il seguente progetto. Il lavoro di
tesi si è inserito nell’ambito del progetto “Linee guida e misure tecnico-gestionali per
l’attivazione di Zone di Tutela Biologica da integrare nella politica comune,
nazionale, regionale per una pesca sostenibile nel Mediterraneo”, finanziato dal
Ministero per le Politiche Agricole e Forestali.
L’obiettivo principale di questa tesi è la caratterizzazione ambientale della Zona di
Tutela Biologica “Argentario”, allo scopo di fornire un quadro di riferimento
dell’area, sia per quanto riguarda gli aspetti biotici che quelli abiotici.
Il lavoro di tesi si è inserito in questa ricerca multidisciplinare ed ha permesso di
acquisire informazioni sui molteplici aspetti dell’ambiente indagato. In particolar
modo, lo studio si è concentrato sugli aspetti biotici, dando particolare risalto alla
valutazione delle risorse ittiche.
Gran parte delle informazioni sono state acquisite attraverso la realizzazione di una
campagna sperimentale; la revisione del materiale bibliografico esistente ha permesso
di integrare i dati raccolti.
Materiali e metodi
12
2. Materiali e metodi
La Zona di Tutela Biologica n° 1, denominata ZTB “Argentario” è situata nel Mar
Tirreno Settentrionale, ad ovest dell’Isola del Giglio (Fig. 2.1). Interessa una
superficie di 50 km
2
ed ha una forma quadrangolare, i cui vertici hanno le seguenti
coordinate: 42° 20’ N – 10° 50’ E; 42° 23’ N – 10° 50’ E; 42° 20’ N – 10° 44’ E; 42°
23’ N – 10° 44’ E. L’intervallo batimetrico è compreso tra 160 e 220 m.
Fig. 2.1 - Localizzazione della ZTB n° 1 “Argentario”.