4
rendono la questione ambientale uno dei temi sociali più dibattuti e controversi degli
ultimi quindici anni e se fino a poco tempo fa sembrava fosse solo una sensibilità di
nicchia, oggi trova una sua dimensione di quotidianità e nuovi insospettabili soggetti a
promuoverla.
Questo lavoro si pone l’obiettivo di ripercorrere le tappe che dalla nascita di
nuovi sentimenti per il sociale hanno portato alla fusione dei concetti di pubblicità e di
ambiente. La comunicazione ambientale, risultato di questo processo, diventa qualcosa
di più che la somma delle due parti e sebbene si debba far fronte ad una mancanza di
informazioni dettagliate sulle sue tecniche, di casi concreti se ne possono osservare
molteplici.
Si parte così dalla grande famiglia delle tematiche di interesse sociale che
mostra una notevole varietà di argomenti e di forme espressive, inquadrando il
fenomeno storicamente e seguendolo fino agli esempi più recenti. Una volta
individuati i generi, il linguaggio ed i soggetti promotori, il passo verso la
comunicazione ambientale è piuttosto breve. Il secondo capitolo è dunque ad essa
dedicato con la descrizione dei punti di contatto con la pubblicità e delle
caratteristiche che la rendono qualcosa di diverso; si osserva come nella popolazione
l’attribuzione di fiducia, credibilità e competenza nell’informare su certi temi oscillino
significativamente in base alla fonte che trasmette l’informazione e come la percezione
di un rischio ambientale sia soggetta ad una forte componente di rielaborazione
personale. Nuovi protagonisti si affacciano nel settore e nuove forme comunicative
prendono vita: cresce l’impegno delle imprese per il verde, nascono il bilancio
ambientale e la dichiarazione ambientale di prodotto.
5
Se comunicazione ambientale è un concetto complesso, forse vago, analizzare
dei casi concreti è il modo migliore per comprenderne a fondo il significato. Le
campagne esaminate negli ultimi due capitoli non sono realizzate da agenzie di
comunicazione, ma da associazioni che si impegnano quotidianamente per la
salvaguardia del patrimonio naturale mondiale e le cui lotte trovano ogni giorno un
consenso sociale più diffuso. L’obiettivo finale non è quello di metterle a confronto né
di dedurre quale delle strade percorse sia più efficace per la trasmissione dei loro
messaggi, ma soltanto di concludere un lungo viaggio scegliendo due fra i tanti modi
di comunicare l’ambiente.
6
CAPITOLO ,
LA PUBBLICITA’ SOCIALE
1.1 Introduzione
Con un ritmo, un interesse, una quantità di investimenti sempre crescenti a
partire dagli anni Settanta e che sta esponenzialmente aumentando nell’ultimo periodo,
la pubblicità è impiegata in contesti e con intenti diversi da quelli della promozione
finalizzata alla vendita. Le tecniche e i metodi pubblicitari sono sempre più utilizzati
per realizzare campagne promosse da soggetti e riguardanti oggetti, diversi da quelli
usuali. La propaganda politica che prevede l’utilizzo di tecniche persuasorie
tradizionali in un’area differente da quella di mercato è in questo senso, una delle
applicazioni più conosciute, ma è concettualmente molto distante da ciò che viene
definita “pubblicità sociale”. Il riferimento è piuttosto inerente a campagne incentrate
sulla tutela dell’ambiente, sul rispetto della sfera privata altrui, sull’educazione
razziale, sull’adozione di uno stile di vita sano, sulla prevenzione di malattie, insomma
su tutto un insieme di valori civili, solidaristici, umanitari che grazie alla loro
innegabile utilità collettiva, acquisiscono importanza, risonanza e valore universali.
Fare esempi di pubblicità sociale è in effetti molto semplice, assai meno è definirla in
maniera completa e univoca.
Ad una disamina superficiale la pubblicità sociale potrebbe essere definita
come un tipo di comunicazione che “riguarda tematiche pubbliche e realizzata
nell’interesse pubblico”
1
o ancora di “un sistema comunicativo messo in atto da
1
M. I. Mandell, Advertising, Englewood Cliffs, New York, Prectice-Hall, 1984, p.608.
7
persone o da enti senza fini di lucro”
2
che si propone di stimolare, modificare o
scoraggiare un determinato comportamento collettivo. Questi punti di vista
appartengono ormai al passato e l’ovvietà di tali definizioni è riduttiva e ingannevole
riguardo al fenomeno. Infatti sono ormai molti i percorsi intrapresi e le sfaccettature
assunte dalla pubblicità sociale, percorsi che la portano a farsi sì voce dello Stato, ma
anche delle associazioni e dei privati, ad abbinarsi al marchio di un’azienda sensibile a
valori “socialmente utili” o ad un prodotto che risponde ad obblighi morali o sociali. Si
pensi alle campagne nelle quali aziende commerciali associano il proprio marchio a
tematiche di grande rilevanza, come ad esempio la tutela dell’ambiente o la lotta alle
discriminazioni sociali. A questo fine tali soggetti producono messaggi e annunci in
cui la loro immagine si affianca alla proposta di atteggiamenti od orientamenti culturali
che posseggono valore universale e perseguono il bene collettivo piuttosto che un
tornaconto personale dell’azienda, la quale a sua volta si mostra esclusivamente in
veste di firmataria del messaggio; tuttavia è innegabile che tali annunci abbiano una
ricaduta significativa in termini d’immagine sul soggetto promotore e che quindi siano
utili anche per scopi commerciali. Parallelamente a questo sarebbe erroneo includere
nella categoria della pubblicità sociale gli annunci che reclamizzano prodotti e che in
generale hanno una connotazione esplicitamente commerciale. In questo caso è utile
fare l’esempio di oggetti le cui caratteristiche vengono esaltate attraverso la
sottolineatura dell’aderenza a criteri e valori come quelli cui si faceva prima
riferimento (tovaglioli in carta riciclata, spray ecologici, vernici senza solventi, ecc.);
2
G. Fabris, La comunicazione pubblicitaria, Milano, Etas Kompass, 1968. p. 41.
8
in essi l’osservazione e l’attenzione dell’azienda verso determinate norme morali è
utilizzata come supporto al perseguimento del fine di lucro.
Questi esempi evidenziano come nel concetto di pubblicità sociale si mostri più
incerto di quanto sembrerebbe, il confine tra benessere collettivo e individuale e tra
interesse e morale.
In questo poliedrico quadro generale dare un’unica definizione che risulti
esauriente per ogni fattispecie è di fatto improbabile, ma gli elementi che più di ogni
altro caratterizzano il fenomeno a mio avviso sono:
ξ la proposta ad un largo pubblico (senza distinzione di target) di modelli di
comportamento al fine di modificare atteggiamenti e trasmettere informazioni;
ξ il rivolgersi all’individuo non come (o non esclusivamente come)
consumatore ma come cittadino portatore cioè di valori morali e non
patrimoniali;
ξ il far leva su valori attorno ai quali è ipotizzabile ci sia un largo consenso
(mancanza di posizioni controverse).
Questo è il risultato di una metamorfosi che è tuttora in atto. Ma da dove arriva la
pubblicità sociale?
9
1.2 Quando Nasce e Perché. Il postulato della “qualità della vita”
Lo sconvolgimento dovuto alla crisi energetica mette in discussione, a partire
dai primi anni 70, il modello di crescita economica e di sviluppo al momento
dominante in tutti i Paesi occidentali. Il concetto di avanzamento tecnologico e di
benessere divengono centro di discussione e di contestazione e l’ideologia stessa di
progresso appare sensibilmente offuscata. Diventa infatti decisa convinzione
dell’opinione pubblica, la percezione che allo sviluppo inteso esclusivamente come
progresso tecnologico e crescita economica, non direttamente corrisponde un
benessere materiale e spirituale dell’individuo e dell’intera collettività. Il centro del
dibattito tra le forze culturali e politiche del mondo occidentale, diventa allora il
quesito in ordine ai valori sui quali il progresso della nostra epoca debba poggiare.
In effetti, il concetto di benessere era stato legato fino a quel momento all’offerta di
livelli materiali di vita sempre più alti che di fatto corrispondevano a un pacchetto
standard di beni di consumo disponibile in mercato o assicurato per via politica
3
. Ora
si scopriva che la crescita mercantile, sopra certi limiti, si ripercuoteva sulla natura,
sulla società, sui valori etici e che tali effetti non potevano essere ignorati in quanto
inevitabile portato dello sviluppo stesso. In definitiva emergeva che la mera crescita
economica non era da sola sufficiente a garantire il benessere sociale ma poteva
costituirne una base importante, qualora non si fosse caduti nell’inganno della logica
quantitativa della crescita stessa.
Sono questi gli anni che vedono emergere il concetto di “qualità della vita”
quale espressione di un nuovo modo di vedere il benessere incentrato su armonia e
3
G. Gadotti, Pubblicità sociale. Lineamenti, esperienze e nuovi sviluppi, Milano, Franco Angeli, 2001,
p. 45.
10
felicità, sull’ esigenza di una buona vita personale partecipe e comunitaria, “coinvolta
nei processi decisori collettivi ma legata allo stesso tempo ad un esame
intersoggettivo”
4
. Questo nuovo sentire è espressione e risultato di un cambiamento di
orientamenti valoriali maturato in ampie fasce della popolazione nelle società
occidentali che verrà affiancato da altri postulati quali l’uguaglianza, la giustizia
sociale, la libertà d’azione tanto nel privato come nel pubblico.
Delle molteplici interpretazioni date al concetto di qualità della vita due sono le
prevalenti declinazioni che sono state offerte dalla letteratura e dall’opinione più
avvertita. Uno di stampo edonistico strettamente legato alla valorizzazione di se stessi
e della propria esperienza esistenziale; l’altro di matrice collettivista più propenso ad
una visione complessiva e sistemica del benessere. Le due correnti sebbene
propongano prospettive a volte strettamente coese tra loro presentano caratteri
facilmente distinguibili. Da una parte c’è una ricerca della qualità della vita che si
esprime in un ripiegamento su se stessi e che intrattiene rapporti col resto dei
consociati principalmente in chiave narcisistica
5
; il senso della responsabilità collettiva
è quasi totalmente sottostimato. Dall’altra il perseguimento del benessere implica una
rivisitazione e un equilibrio maggiore nei rapporti di collettività e in quelli con
l’ambiente. In questa accezione i principi di autostima e autorealizzazione non sono
affatto sopiti ma fanno capo all’individuo percepito in stretta relazione con l’ambiente
sociale in cui vive. Ed è proprio l’individuo-cittadino a diventare il più interessante
attore di questo scenario in quanto principale artefice della spinta alla riqualificazione
del benessere sociale con la doppia veste di praticante di nuovi comportamenti sociali e
4
A. Ardigò, Azione politica e domanda di felicità, in Aa. Vv., Studi in onore di Paolo Fortunati,
Bologna, Clueb, 1980, p.19.
5
G. Gadotti, Pubblicità sociale, p.49.
11
di interlocutore con apparati pubblici e aziende. Si fa strada la coscienza che solamente
da un’assunzione collettiva di nuove regole di convivenza può derivare un benessere
maggiore; dalla consapevolezza cioè della imprescindibile interdipendenza tra
aspettative private di benessere e comportamento degli attori sociali.
Le conseguenze generate dal nuovo modo di concepire il quotidiano sono
devastanti e non risparmiano neanche la pubblicità, che in chiave commerciale
svolgeva un ruolo fondamentale rispetto alle vecchie concezioni e strategie di
benessere individuale e in chiave sociale, avrebbe potuto rafforzare le scelte e le
motivazioni che perseguivano il nuovo modello orientato alla collettività. In effetti è
proprio quello che succede: la pubblicità per la prima volta veste i panni di
comunicatore sociale spendendosi nel tentativo di sensibilizzare i cittadini in ordine a
problemi sociali la cui soluzione richiede la cooperazione attiva e il consenso di tutti e
si candida a diventare uno dei media più idonei e autorevoli a svolgere questa funzione
educativa. Essa si fa dunque portavoce di “un’etica del comportamento” che viene
proposta all’attenzione della collettività non come imposizione normativa o
autoritativa, ma coi noti mezzi dell’arte persuasoria.
12
1.3 I Suoi Generi
La funzione retorica svolta dall’aggettivo “sociale” non è naturalmente quella
di attribuire a questo tipo di pubblicità un rapporto esclusivo con la dimensione
sociale, né quella di voler negare il ruolo e la responsabilità sociale di tutta la
comunicazione pubblicitaria in generale, serve invece a connotare la categoria dei
messaggi in questione inquadrandola nel polo ideale e materiale in cui ruotano
interessi, costumi e orientamenti che riguardano tutti i consociati.
La difficoltà trovata nel cercare una definizione adatta del fenomeno è il
riflesso di ciò che accade tentando di determinarne forme e generi. A questo scopo si
ricorre spesso all’uso delle litoti ovvero di definizioni caratterizzate essenzialmente
dall’essere negazioni e dall’indicare categorie che tendono ad escludere piuttosto che a
comprendere. In proposito le tre litoti più diffuse parlano di no commercial, no profit e
no product advertising
6
che servono in qualche modo a delimitare uno spazio, seppur
piuttosto ampio, in cui il fenomeno si muove. All’interno di questo campo è possibile
individuare una tipologia notevolmente articolata e complessa di messaggi sui quali
specie la letteratura anglosassone si è diffusamente esercitata con risultati più o meno
condivisibili. Ad esempio si potrebbero definire come no commercial advertising gli
annunci di enti di governo nazionale o locale, di organizzazioni religiose o benefiche,
di gruppi politici, di associazioni di cittadini e di società private in genere finalizzati a
proporre o appoggiare misure di utilità pubblica, sollecitare donazioni, sostenere i
candidati di un partito. Questi messaggi elencati sono suscettibili di ulteriori
classificazioni in base a peculiarità facilmente riconoscibili. La più importante
6
M. I. Mandell, Advertising, pp. 4, 8.
13
categoria che ne può scaturire è quella che viene solitamente definita public service
advertising ovvero la pubblicità di pubblica utilità o di servizio pubblico e che di fatto
coincide con la pubblicità sociale
7
. Si tratta infatti di una comunicazione persuasoria
che presenta come caratteristica saliente quella di fornire, nell’interesse collettivo,
un’informazione imparziale su tematiche di interesse collettivo. I messaggi di public
service, non diffondono infatti ideali o punti di vista di raggruppamenti politici; si
potrebbe anzi dire che i contenuti più tipici della pubblicità di pubblico servizio
appaiono principalmente non controversi. Questo avviene non soltanto perché non
espressione di organi di partito ma anche per il fatto che sui temi trattati l’opinione
pubblica è quasi unanimemente concorde (basti pensare alla sicurezza stradale,
all’educazione ambientale, alla prevenzione di malattie veneree, ecc).
Nella grande famiglia della pubblicità non commerciale, oltre alla public
service advertising, troviamo un’altra categoria di annuncio molto diffusa, quella che
la letteratura anglosassone definisce Advocacy
8
. Sono così definiti i comunicati che
vertono essenzialmente su temi controversi, proponendo e sposando un punto di vista
sull’argomento trattato; punto di vista che non si preoccupa di essere neutrale, ma si
presenta come voce polemica di una parte piuttosto che di un’altra e con il dichiarato
intento di sottolineare il gruppo o l’associazione cui intende opporsi. Stiamo parlando
ad esempio di una campagna contro l’uso massiccio di telefoni cellulari, o contro la
vendita di capi di abbigliamento realizzati in pelle o pelo di animale o ancora contro la
vendita di armi a scopo di difesa personale.
7
S.W. Dunn, A.M. Barban, Advertising. Its Role in Modern Marketing, Chicago, The Driden Press,
1986, pp. 739, 742.
8
S.W. Dunn, A.M. Barban, Advertising, p. 739.
14
Come è chiaro la distinzione presentata tra public service advertising e
advocacy si fonda essenzialmente sul “carattere imparziale e non controverso del tema
di discussione presentato dalla prima contro l’opinabile e partigiano tipo di opinione
promosse dalla seconda”
9
. In realtà operare una distinzione precisa tra le due tipologie
di pubblicità sociale non è compito semplice e non sarebbe in molti casi corretto dato
che la discriminante è in fondo, il grado di condivisione di certe opinioni riscontrato
nella collettività di destinazione del messaggio. Così qualora all’interno dell’opinione
pubblica tenda ad indebolirsi di molto la posizione di coloro che ritengono il possesso
di armi l’unico strumento di sicurezza per il cittadino, ecco che tale questione si
configura sempre più come corollario di un valore sociale (impedire la vendita di armi
a scopo di difesa personale) che è generalmente accettato e non difendibile quindi con
un’advocacy ma con un public service advertising.
Un tipo particolare di pubblicità non commerciale che per certi versi è
rapportabile all’advocacy ma è di fatto talmente centrale e rilevante da un punto di
vista culturale da dover essere trattata separatamente, è la pubblicità politica o di
partito. In questa fattispecie, il messaggio trova la sua dimensione distintiva proprio
nell’esprimere e nel sostenere una posizione estremamente parziale rispetto al tema
oggetto di discussione. L’oggetto di tale posizione non è, come negli esempi
precedentemente esaminati, una singola questione, ma un intero programma,
un’ideologia che si contrappone alle altre. E’ utile precisare che la pubblicità politica,
concretizzandosi nella promozione di un simbolo elettorale o di un candidato di uno
schieramento richiama una molteplicità di questioni, così generali e di largo orizzonte,
9
G. Gadotti, Pubblicità sociale, p. 28.
15
da risultare difficilmente argomentabili. E’ così divenuta consuetudine, seppur
paradossale, quella di adattare a questo tipo di pubblicità non commerciale, i modelli e
gli schemi di riferimento della pubblicità commerciale, ovvero comunicazione centrata
sulla fidelizzazione di un simbolo e sul richiamo tramite slogan.
E’ bene precisare che il tipo di categorizzazione finora illustrato seppur
presentandosi come uno dei più autorevoli, è di fatto sposato solo da una parte della
critica, ci sono infatti molti autori che si sono spesi nel dare una classificazione
diversa del fenomeno.
C’è chi come Zanacchi, sostiene che la definizione stessa di pubblicità sociale
sia inadatta. Evidenzia le difficoltà incontrate nell’utilizzo del termine pubblicità dal
momento che gli obiettivi sono del tutto diversi
10
. La tipologia che propone, distingue
all’interno della macrocategoria della pubblicità no profit quattro sottocategorie a
seconda delle finalità perseguite:
ξ Pubblicità pubblica: utilizzata dai soggetti pubblici a favore di finalità
pubbliche;
ξ Pubblicità politica: caratterizzata dalla sua parzialità, è utilizzata da movimenti
o partiti politici e si rivolge al cittadino in quanto elettore;
ξ Pubblicità religiosa: promossa da soggetti legati o appartenenti ad una sfera
religiosa precisa, si prefiggono lo scopo di diffondere il loro credo e di
conseguire obiettivi di carattere religioso;
10
A. Zanacchi, La Pubblicità. Potere di mercato. Responsabilità sociali, Milano, Editori di
Comunicazione-Lupetti, 1999.
16
ξ Pubblicità sociale: si caratterizza nel promuovere o rafforzare una determinata
condotta o un costume socialmente condiviso
11
;
Accanto ad esse colloca l’Advocacy che, a suo parere, potrebbe essere
considerata una supercategoria comprendente tutte le forme di pubblicità non
commerciale che hanno per oggetto temi controversi; in pratica l’intera area della
pubblicità no profit esclusa la pubblicità sociale. Anche Fabris
12
opera una distinzione
in base alla prevalenza o meno nella comunicazione dell’ interesse commerciale e
colloca nell’ambito no profit la pubblicità sociale insieme a quella pubblica e
all’Advocacy.
Un approccio specifico è quello adottato ad esempio da Mancini e Rolando i
quali inseriscono la pubblicità sociale all’interno della macrocategoria della pubblicità
pubblica, intesa come comunicazione riguardante questioni di interesse generale.
Rolando divide il mondo della comunicazione in due emisferi, quello di mercato e
quello della comunicazione pubblica. Il primo comprende:
ξ La comunicazione d’impresa
ξ Il sistema dei media
ξ La comunicazione di interesse socio-economico
Il secondo ingloba:
ξ La comunicazione politica
ξ La comunicazione istituzionale
ξ La comunicazione sociale o di solidarietà sociale
13
11
A. Zanacchi, La Pubblicità, pp. 250-277.
12
G. Fabris, La pubblicità. Teoria e prassi, Milano, Franco Angeli, 2002.
13
S. Rolando, La comunicazione pubblica in Italia, Milano, Editrice Bibliografica, 1995, p. 26.
17
E’ interessante osservare come Gadotti preferisca parlare di pubblicità di pubblica
utilità e non semplicemente di pubblicità sociale. L’autrice sostiene infatti che la
definizione sia o troppo vaga, se si riferisce all’intera sfera comunicativa del pubblico,
o troppo specifica se si riferisce ai soli soggetti istituzionali. La pubblicità sociale che è
a pieno titolo appartenente alla sfera della pubblica utilità, è dall’autrice suddividibile
in tre categorie:
ξ Appelli al pubblico
ξ Comunicazione di sensibilizzazione
ξ Comunicazione di educazione
14
Gli appelli al pubblico sono caratterizzati dall’intento di ottenere la partecipazione e il
contributo del destinatario della comunicazione; si tratta tipicamente delle attività di
fund raising ovvero di raccolta fondi
15
. Secondo Gadotti, il primo beneficiario del
contributo prestato, è il comunicatore, il promotore stesso dell’appello. Solo in un
secondo momento tale contributo raggiunge il suo reale destinatario, il beneficiario
ultimo.
14
G. Gadotti, Pubblicità sociale, p. 215.
15
Il Codice dell’Autodisciplina Pubblicitaria Italiana, all’articolo 46, li definisce “i messaggi che
sollecitano direttamente e indirettamente, il volontario apporto di contribuzioni in denaro, beni o
prestazioni di qualsiasi natura, nell’ambito di iniziative finalizzate a sensibilizzare il pubblico per il
raggiungimento di obiettivi, anche specifici, per l’interesse generale e sociale”.