7
cercare la fonte della loro forza al di là di tali alternative, nel passato e
nel futuro; e che però, senza essere per questo dei sognatori, abbiano
potuto aspettarsi la vittoria della loro causa con tanta fiducia e
tranquillità come noi?”
1
La visione di Bonhoeffer è al tempo stesso terribile e liberante. Egli sente
di vivere in un tempo in cui ogni scelta politica ed ogni decisione di vita
possibile risulta “insopportabile”, risulta alla fine contraria alla vita
stessa; eppure proprio in questo tempo gli uomini della Resistenza
riescono ad aggrapparsi all’unica alternativa che sta al di là delle
alternative possibili, alla responsabilità della fede.
La fede appare così a Bonhoeffer come l’unica via per restare saldi nella
“grande mascherata del male”
2
, dopo il fallimento di tutti i modelli etici.
- Innanzitutto c’è il fallimento dell’uomo “ragionevole”. Di fronte al
male che si è concretizzato in un sistema politico, chi cerca una
soluzione utilizzando la via della ragione si scontra inevitabilmente
con l’assenza di tale ragione. La logica è stata ridotta a burocrazia, e
la stupidità si è impossessata di un numero impressionante di
persone.
- C’è poi il fallimento del fanatico: egli tenta un approccio frontale,
forte di quello che ritiene un principio puro, ma perde la battaglia
contro chi è più intelligente e lo intrappola nelle cose inessenziali.
- L’uomo della “coscienza” soccombe di fronte all’enormità dei
conflitti in cui è chiamato a decidere e agli “innumerevoli
1
DIETRICH BONHOEFFER, Resistenza e Resa. Lettere e scritti dal carcere, Edizioni
Paoline, Cinisello Balsamo, 1989
2
, p. 60.
2
Ibidem, p. 60.
8
travestimenti rispettabili e seducenti nei quali il male gli si fa
incontro”
3
.
- Il fallimento colpisce anche l’uomo del “dovere”, perché alla fine egli
non riesce ad opporsi al male, anzi, gli obbedisce.
- C’è poi il fallimento dell’uomo della “libertà”, che cerca nel
compromesso una via di uscita. È terribile qui l’analisi di Bonhoeffer:
“Per impedire il peggio darà il suo assenso al male, e non sarà più in
grado di capire che proprio il peggio, che vuole evitare, potrebbe
essere il meglio. È da qui che la tragedia trae la propria origine”
4
.
- Infine, fallisce chi sceglie di chiudersi nel suo privato, sfuggendo a
qualsiasi azione pubblica, perché potrà soltanto mentire a se stesso
per evitare di contaminarsi.
Resta dunque solo la fede. La fede richiama alla vita responsabile davanti
a Dio e, nel caso specifico, offre nutrimento e coraggio alla Resistenza.
La grandezza di Bonhoeffer, probabilmente, emerge dalla lucidità
spietata della sua analisi. Sembra proprio che la fede abbia effettivamente
mantenuto in lui la capacità di usare ancora la ragione e di non cedere al
laccio della necessità irrazionale che caratterizza la maggior parte dei
protagonisti del periodo forse più oscuro della storia dell’umanità.
Ma nella storia del pensiero umano anche la fede e la lucidità dell’analisi,
alla fine, sono costrette a mettersi in discussione. C’è qualcosa che
Bonhoeffer non conosce, c’è un privilegio ulteriore, oltre quello della
fede, che gli è stato concesso: sarà un prigioniero politico, un oppositore,
3
Ibidem, p. 61.
4
Ibidem, p. 61.
9
e come tale sarà impiccato. La sua morte sarà la morte del nemico,
accompagnata da un processo, seppur sommario, e da un regolare
confronto, almeno secondo il tribunale del lager.
Il 9 Aprile 1945, nel lager di Flossembürg, veniva impiccato un uomo.
Altrove, nello stesso momento, vi erano uomini e donne che venivano
ridotti a non-uomini e a non-donne e sterminati come tali.
1.1.2 Etty
Tra questi uomini e donne trova posto anche una giovane e brillante
donna olandese di 27 anni, Etty Hillesum. Venerdì 10 luglio 1942, pochi
mesi prima delle pagine di Bonhoeffer, Etty appunta nel suo diario:
“Un giorno pesante, molto pesante. Un «destino di massa» che si deve
imparare a sopportare insieme con gli altri, eliminando tutti gli
infantilismi personali. Chiunque si voglia salvare deve pur sapere che se
non ci va lui, qualcun altro dovrà andare al suo posto. Come se
importasse molto se si tratti proprio di me, o piuttosto di un altro, o di
un altro ancora. È diventato ormai un «destino di massa» e si dev’essere
ben chiari su questo punto. Un giorno molto pesante. Ma ogni volta so
ritrovare me stessa in una preghiera – e pregare mi sarà sempre
possibile, anche nello spazio più ristretto. E, come se fosse un fagottino,
io mi lego sempre più strettamente sulla schiena, e porto sempre più
come una cosa mia quel pezzetto di destino che sono in grado di
sopportare: con questo fagottino io già cammino per le strade.
Dovrei impugnare questa sottile penna stilografica come se fosse un
martello e le mie parole dovrebbero essere come tante martellate, per
raccontare il nostro destino e un pezzo di storia com’è ora e non è mai
stata in passato – non in questa forma totalitaria, organizzata per grandi
10
masse, estesa all’Europa intera. Dovrà pur sopravvivere qualcuno che lo
possa fare. Anch’io vorrei essere in futuro una piccola cronista”
5
Il brano è impressionante per la densità di temi accennati: la dimensione
dell’evento (un “destino di masse”), la necessità di occupare un posto
nella lista degli sterminati
6
(“se non ci va lui qualcun altro deve riempire
un posto”), l’unicità della storia che sta vivendo (“com’è ora e non è mai
stata in passato”), il dovere che spetterà al testimone (“per raccontare il
nostro destino”)
7
.
E ancora una volta compare la via della fede come unica possibilità di
libertà.
La parola “fede”, che in Bonhoeffer richiamava ancora alla
responsabilità, in Etty è una sorta di gioia di vivere nonostante tutto, è
quella libertà interiore, conquistata giorno dopo giorno in un veloce
5
ETTY HILLESUM, Diario 1941-1943, Adelphi, Milano, 2002
7
, p. 162.
6
Il salvarsi al posto di un altro, d’altro canto, sarà, secondo Levi, il motivo della
vergogna del superstite. Etty, non ancora deportata, percepisce già nella sua sensibilità,
la possibilità di questa vergogna: “Non è che io voglia partire ad ogni costo, per una
sorta di masochismo, o che desideri essere strappata via dal fondamento stesso della mia
esistenza – ma dubito che mi sentirei bene se mi fosse risparmiato ciò che tanti invece
devono subire. (…) E mi sembra una curiosa sopravvalutazione di se stessi, quella di
ritenersi troppo preziosi per condividere con gli altri un «destino di massa»” (ETTY
HILLESUM, op. cit., p. 168).
7
Nel diario dei giorni seguenti si trovano anche materiali interessanti per la
ricostruzione storica dello sterminio degli ebrei. Ad esempio Etty riferisce più volte di
voci su “gas velenosi”, il che dimostra come i segreti della cosiddetta “soluzione finale”
non fossero poi così segreti.
11
quanto intenso cammino spirituale di cui il “Diario” è testimone, che non
le potrà mai essere tolta:
“È un nucleo di forza che continuo a portarmi dentro, ma anche questo
non va inteso in senso troppo materialistico. La questione non è se il
corpo poco esercitato possa resistere, questo è relativamente secondario:
la forza autentica, primaria, consiste in ciò, che se anche si soccombe
miseramente, fino all’ultimo si sente che la vita è bella e ricca di
significato, che si è realizzato tutto quanto in noi stessi e che la vita era
buona. Non riesco tanto ad esprimermi, finisco sempre per usare le
stesse parole”
8
.
e ancora:
“e sia che ora io mi trovi qui, a questa scrivania terribilmente cara e
familiare, o fra un mese in una nuda camera del ghetto o fors’anche in
un campo di lavoro sorvegliato dalle SS, nelle braccia di Dio credo che
mi sentirò sempre. Forse mi potranno ridurre a pezzi fisicamente, ma di
più non potranno fare. E forse cadrò in preda alla disperazione e soffrirò
privazioni che non mi sono mai potuta immaginare, neppure nelle mie
più vane fantasie. Ma anche questa è poca cosa, se paragonata a
un’infinita vastità, e fede in Dio, e capacità di vivere interiormente. Può
anche darsi che io sottovaluti tutto quanto”
9
.
Non è la cieca fiducia in un Dio che può salvare, non è la certezza
dell’Onnipotenza di Dio, è la sensazione di una solidità interiore che
niente potrà massacrare. Addirittura, dice Etty, “se Dio non mi aiuterà
più, allora sarò io ad aiutare Dio”
10
.
8
Ibidem, p. 150.
9
Ibidem, p. 167.
10
Ibidem, p. 163.
12
Nel genere letterario della preghiera, troviamo il dialogo forse più bello
tra Etty e il suo Dio, dialogo tra una donna sensibile e lucida e la sua
coscienza. In questo dialogo compare un tema che percorrerà tutta la
riflessione teologica dopo lo sterminio: l’impotenza di Dio.
“Una cosa diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi
aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo
aiutiamo noi stessi. (…) Sì, mio Dio, sembra che tu non possa far molto
per modificare le circostanze attuali ma anch’esse fanno parte di questa
vita. Io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a
dichiarare responsabili noi. E quasi a ogni battito del mio cuore, cresce
la mia certezza: tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendere
fino all’ultimo la tua casa in noi.”
11
A fine luglio 1943 Etty viene trasferita al campo di smistamento
(Durchgangslager) di Westerbok, per portare la sua forza ai prigionieri.
Il 7 Settembre 1943, Etty e la sua famiglia sono caricati su un treno di
deportati. Destinazione: Auschwitz.
11
Ibidem, p. 169.
13
1.2 IL PENSIERO DOPO LO STERMINIO
1.2.1 Auschwitz
Dietrich Bonhoeffer ed Etty Hillesum risultano testimoni di una modalità
del dire Dio e del credere in un contesto storico particolare come quello
della seconda guerra mondiale, della barbarie nazista e dello sterminio
degli ebrei. E tuttavia le loro voci, per quanto risultino ancora oggi attuali
e coinvolgenti per il lettore attento e sensibile, sono ancora le voci di
testimoni dalle porte dell’inferno, non dall’inferno stesso.
Non ci sono parole di Bonhoeffer scritte dai campi di sterminio,
semplicemente perché Flössemburg non era un campo di sterminio ed era
stato pensato per nemici politici, non per ebrei.
E non ci sono neanche parole di Etty scritte dal lager di Auschwitz, così
come non ci sono parole scritte da internati nei campi di sterminio che
non siano testimonianze di superstiti, semplicemente perché coloro che
realmente percorsero la china della distruzione fino in fondo non possono
più parlare.
Etty è l’esempio di tutte quelle voci che, una volta caricate sul treno per
l’Oriente, tacciono, e non ci è dato di sapere se e quanto cambiarono il
loro tono ed i loro contenuti. Non ci è dato di conoscere che ne fu della
lucidità e dell’amore per la vita di Etty.
Soltanto coloro che avranno l’onore di essere sopravvissuti, i “salvati”,
come li chiamerà Primo Levi includendosi nella categoria, sveleranno
alle menti ed alle coscienze del tranquillo Occidente del dopoguerra che
cosa successe realmente nel cuore della vecchia Europa.
14
Nei centri di sterminio la crudeltà raggiunse un limite che toglie il respiro
e questo limite aveva un nome: il Muselmänn, colui che nel campo era
ormai ridotto ad una larva, senza più vita intellettuale o affettiva, a metà
strada tra la vita e la morte. I “musulmani”, i “sommersi”, gli “uomini in
dissolvimento”
12
, come li definisce Levi, coloro dei quali era sensato
chiedersi “se questo è un uomo”, furono l’esito estremo dell’orrore dello
sterminio, e ad essi Levi consegna l’onere di rappresentare il male stesso
del nostro tempo, e in fondo, di tutta la storia. Grazie ai “musulmani”, a
coloro che non possono più dire niente perché sono passati nella camera
a gas, poi nel forno crematorio e infine dispersi nel vento, Auschwitz è
stato prescelto ad identificare un pezzo di storia e un fascio di domande
drammatiche spesso senza risposta. Parlare di evento-Auschwitz non
significa dimenticare gli altri centri di sterminio
13
e neanche i massacri
dell’Europa Orientale, compiuti da parte di gruppi speciali (gli
Einsatzgruppen) coadiuvati spesso da delinquenti locali. Ma
“Auschwitz” indica semplicemente la cifra simbolica di una
decostruzione del pensiero stesso, della filosofia e della teologia, del dire
Dio e, in ultima analisi, anche del dire l’uomo.
Il nome del centro di sterminio più noto è pertanto oggi il nome di uno
spartiacque epocale che ha segnato il pensiero dell’uomo contemporaneo,
12
PRIMO LEVI, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 1989, p. 80.
13
Oltre al Lager di Auschwitz-Birkenau, gli altri centri di sterminio furono: Belzec,
Chelmno, Treblinka, Maydanek e Sobibor.
15
ne ha distrutto certezze, portandolo al di là di ogni etica e di ogni
teodicea
14
.
1.2.2 La fine dell’identità
Dopo Auschwitz si è pensato e scritto molto, quasi a rimarcare l’enorme
potenza rivoluzionaria che l’evento ha avuto nella storia del pensiero e
della fede occidentale. Sono passati tuttavia venti anni prima che l’orrore
svelato progressivamente penetrasse nelle pieghe del pensiero filosofico
e teologico fino a scardinarne il fondamento (Grund) del suo procedere
per identità, quel processo che tendeva incessantemente a ridurre
l’oggetto alle categorie del soggetto
15
.
L’anno fondamentale per l’affacciarsi nella storia della cultura del
cosiddetto “pensiero dopo Auschwitz” è il 1966. Nel tempo in cui la
teologia protestante produceva il movimento della “morte di Dio” (basti
citare per tutti Paul M. van Buren che tre anni prima aveva pubblicato Il
significato secolare dell’Evangelo, in cui proponeva il modello di una
teologia centrata sull’uomo) escono Negative Dialektik
16
di Theodor W.
Adorno e After Auschwitz. Radical Theology and Modern Judaism di
Richard Rubenstein.
14
Una raccolta delle maggiori domande filosofiche del dopo-Auschwitz ci è offerta da
SILVIA BENSO nel volume Pensare dopo Auschwitz. Etica filosofica e teodicea ebraica,
Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1992.
15
Abbiamo compiuto una breve esplorazione sui motivi di tale ritardo più avanti, al
paragrafo 2.1.
16
tr. it. di C.A. Donolo, Dialettica negativa, Einaudi, Torino, 1982.
16
Era stato Nietzsche ad evidenziare come il procedere del pensiero
occidentale fosse stato essenzialmente un procedere per identificazioni:
l’apollinea soluzione al contrasto tra soggetto e oggetto si era risolta – già
al tempo della ragione socratica – a favore di una riduzione dell’oggetto
(vale a dire il «diverso») alle categorie del soggetto (l’«identico»). E sarà
Levinas a riconoscere che «la filosofia occidentale è stata per lo più
un’ontologia: una riduzione dell’Altro al Medesimo, in forza
dell’interposizione di un termine medio e neutro che ne garantisce
l’intelligenza dell’essere»
17
.
Nello scenario della storia della filosofia (soprattutto se seguita con lo
sguardo eurocentrico che pretende spesso di essere ancora sguardo
oggettivo quasi come se esistesse un’oggettività storica e non fosse
invece un costrutto ermeneutico del soggetto), il percorso del pensiero
dell’identificazione è stato vincente rispetto ad altre modalità di utilizzo
della ragione e di approccio al reale pur presenti nella tradizione
occidentale e massicciamente in quella orientale (liquidate troppo spesso
in passato come irrazionali).
Ed ugualmente, nella storia della teologia cristiana – e qui corre l’obbligo
di sottolineare “occidentale”, onnicomprensiva del pensare credente
cattolico e protestante – l’interpretazione prevalente del cuore del
messaggio evangelico (vale a dire la croce di Cristo che salva l’uomo) è
stata nella direzione della “riconciliazione” paolina intesa come «reductio
ad unum», quasi ad escludere tutte le diversità, alfine anche quella di Dio
stesso. Il richiamo di Barth alla fede nel “Totalmente Altro” (Ganz
17
EMMANUEL LEVINAS, Totalité et infini. Essai sur l’exteriorité, Nijhoff, La Haye,
1971; tr. it. di A. Dell’Asta, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano, 1980, p. 41.
17
Andere) altro non è che una restituzione a Dio della sua irriducibilità agli
schemi categorizzanti della ragione dialettica.
Il pensiero dell’identificazione, che trova la sua celebrazione massima
nella Aufhebung hegeliana, è, secondo Adorno, intollerante verso tutto
ciò che è esterno, altro.
È quando tale pensiero si trasforma in praxis che appaiono sulla scena i
totalitarismi, i quali, per loro stessa definizione, pretendono di
comprendere e controllare il tutto, identificando questo nell’unanimità
delle masse ed epurando il popolo di tutti quegli elementi che
mantengono una autonomia di pensiero, i cosiddetti “oppositori”
18
.
Nella vicenda storica del totalitarismo nazista, in particolare, “l’altro cui
il pensiero identificante toglie ogni diritto di cittadinanza è l’ebreo”
19
.
Perché mai proprio l’ebreo rappresenta la cifra della diversità nemica,
ostile ad ogni identificazione? Perché lo sterminio si è addirittura
18
Primo Levi e Hannah Arendt concordano però sull’ammettere l’esistenza storica di un
“quasi” nell’ossessione del controllo totale. Il “quasi” è ciò che sfugge alla presunzione
della tirannide e toglie linfa al totalitarismo, che è senza “quasi” per definizione,
aprendo la speranza “che sul nostro pianeta resti un posto ove sia possibile l’umana
convivenza” (HANNAH ARENDT, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme,
Feltrinelli, Milano, 2002
4
, p. 240). Scrive Levi: “Questo «quasi» è importante: non è
mai esistito uno Stato che fosse realmente «totalitario» sotto questo aspetto. Una
qualche forma di retroazione, un correttivo dell’arbitrio totale, non è mai mancato,
neppure nel Terzo Reich né nell’Unione Sovietica di Stalin: nell’uno e nell’altra hanno
fatto da freno, in maggiore o minor misura, l’opinione pubblica, la magistratura, la
stampa estera, le chiese, il sentimento di umanità e giustizia che dieci o vent’anni di
tirannide non bastano a sradicare” (PRIMO LEVI, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino,
1991, p. 33).
19
SILVIA BENSO, Pensare dopo Auschwitz, cit., p. 17.
18
accanito quando il fronte russo era vicino e la Germania nazista era
destinata irreversibilmente alla sconfitta?
Secondo Silvia Benso, le radici dell’antisemitismo si possono rintracciare
nell’antigiudaismo cristiano, là dove Israele rappresenta il popolo ormai
superato e la cui esistenza storica, dunque, con la sua pretesa di
specificità e particolarità, contrasta fortemente con la visione della
Chiesa quale portatrice del senso della storia.
20
A prescindere da questa interpretazione che potrebbe risultare riduttiva
nella misura in cui lasciasse intendere una proporzionalità diretta tra
fenomeni antigiudaici intraecclesiali e manifestazioni antisemite a
carattere distruttivo ed annientante che possono avere altresì radici
sociali, economiche, politiche, vero è che il mondo ebraico (“i giudei”)
sono stati considerati per secoli e da molta parte del mondo cristiano
come nemici di Cristo e come tali combattuti se non sterminati (ed il
fenomeno dei pogrom ne è la tristissima testimonianza storica). Quando
non sono stati sterminati, gli ebrei hanno assistito comunque al tentativo
– talvolta tragicamente perverso – di conversione al cristianesimo,
riprova pratica del desiderio di “reductio ad unum” come difesa da una
alterità presente nello stesso contesto di vita. Soltanto dopo la tragedia di
Auschwitz si è incominciato un reale rapporto dialogico tra cristiani ed
ebrei. Afferma al proposito lo scrittore ebreo Pinchas Lapide:
“Che sia stato necessario un omicidio apocalittico di massa per spingere
i cristiani a rapportarsi in modo cristiano con i fratelli di Cristo, questo è
20
Ibidem, pp. 18-19.
19
un pensiero che può farci capire la sofferenza dell’intero genere
umano”.
21
In questo contesto dialogico, maturato nelle coscienze più sensibili del
secolo scorso, la cultura occidentale può riuscire ad accogliere la
possibilità del diverso
22
, dell’autrui di levinassiana memoria, come
interlocutore gravido di ricchezza. Ma - paradossalmente - l’accoglienza
della differenza come categoria di pensiero è frutto di una tragedia
immane in cui il pensiero dell’identificazione, nella sua totalitaria hibrys
fagocitante del reale, ha portato al mostruoso massacro di uomini ebrei (e
zingari, polacchi, omosessuali, ecc…
23
) privati del loro stesso essere
uomini e della loro stessa “morte” ed ha firmato il suo fallimento come
modalità di esprimere il pensare ed il credere.
21
JÜRGEN MOLTMANN, PINCHAS LAPIDE, Israele e Chiesa: camminare insieme?,
Queriniana, Brescia, 1982, p. 52.
22
I recenti avvenimenti storici, segnati dalla nuova visione politica americana, la
cosiddetta “dottrina Bush”, segnata fortemente da una volontà (will), superiore ad ogni
legalità (authority), e caratterizzata dal progetto di un controllo totale del mondo da
parte degli Stati Uniti, ripropongono tuttavia drammaticamente la possibilità di un
nuovo totalitarismo, in cui il diverso (in particolare l’arabo) assume le sembianza
apocalittiche del Male contro cui il Bene (cioè la cultura americana riunita sotto il
simbolo mitizzato della libertà) deve combattere e vincere.
23
Non si vuole qui dimenticare la tragedia dei non-ebrei massacrati per motivi politici o
di razza, ma focalizziamo l’obiettivo sul popolo ebraico perché questo ci dà modo di
intraprendere il discorso sul credere Dio dopo Auschwitz e di introdurre un pensatore
come Fackenheim.