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Infine mi sono soffermata sulla differenza etnica come origine di dinamiche
essenziali ed opposte di esclusione ed integrazione, sull’esclusione come
conseguenza del pregiudizio, sull’integrazione come effetto dell’acquisizione
individuale di tolleranza, ascolto, empatia e cura.
La ricerca si conclude con uno studio di caso che coinvolge otto studentesse
irakene stabilitesi a Foggia da circa due anni. Tramite queste testimonianze, sono
riuscita a mettere a fuoco alcune reti relazionali che aiutano a comprendere il
rapporto degli “stranieri” sia con la società che li ospita, sia con quella che hanno
temporaneamente abbandonato, nonché i punti di criticità e il grado di
integrazione che si può raggiungere nel tempo.
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1
MULTICULTURA
INTERCULTURA, TRANSCULTURA
7
1.1 Il concetto di cultura
Prima di addentrarsi nello studio del rapporto tra culture è opportuno
soffermarsi sul concetto di cultura; una delle nozioni chiave delle scienze umane
contemporanee.
Il termine cultura ha un’origine assai concreta. L’etimologia rimanda al
verbo “colere”, che letteralmente significa “coltivare, lavorare, avere cura di…”; il
termine, cioè, indica un lavoro che richiede uno sforzo e per il quale è necessario
utilizzare gli strumenti adeguati. È’ un lavoro che permette di intervenire sulla
realtà e che richiede l’investimento di risorse fisiche e psichiche.
Già con Cicerone (104-43 a.C.) e Orazio Flacco (65-8 a.C.), però, il termine
è stato usato in senso metaforico per indicare la coltivazione dell’animo (Crespi
2003:5)
1
. Gradualmente, cioè , è emersa una concezione umanistico-intellettuale
di cultura, che si affianca a una concezione antropologica più ampia: cultura come
insieme condiviso di significati, costumi, tradizioni, valori, norme, beni materiali,
eccetera
2
.
La cultura , cioè come stile di vita di una data società. Ad esempio: modo di
vestire, vita familiare, cerimonie religiose, modelli di lavoro, organizzazione del
1
« La parola cultura deriva dal latino colere,’coltivare, lavorare la terra’. Nel medioevo il termine
si riferiva al progressivo miglioramento dei raccolti – da cui il termine agricoltura per l’arte della
coltivazione. Ma nel XVIII e XIX secolo, il termine veniva applicato anche all’educazione delle
persone, cosicché una persona raffinata e istruita era considerata ‘colta’ » (Smelser 1995:37).
2
«I valori sono ideali astratti, mentre le norme sono determinati principi o regole che gli individui
sono tenuti ad osservare. Le norme rappresentano ciò che nella vita sociale ‘si deve ’ o ‘non si
deve ’ fare» (Giddens 1991:33).
8
tempo libero, pratiche commerciali, tecniche di produzione, influsso delle
tecnologie sulla vita sociale
3
.
La nozione di cultura, pur essendo distinta da quella di società, è ad essa
collegata: la cultura definisce le pratiche di vita sociali e i modi di produrre propri
di una particolare società; la società, invece, gli scambi e le interazioni tra esseri
umani che si sviluppano all’interno di una determinata cultura.
«La ‘cultura’ riguarda il modo di vita dei membri di una data società, le loro
abitudini e costumi, nonché i beni materiali che essi producono. La ‘società’ si
riferisce al sistema di interrelazioni che unisce gli individui che condividono una
medesima cultura. Nessuna cultura potrebbe esistere senza una società. Ma,
analogamente, nessuna società potrebbe esistere senza una cultura». (Giddens
1991:33)
Senza cultura non potremmo disporre di un linguaggio con cui esprimerci ed
entrare in relazione, mancherebbe l’autocoscienza e la capacità di pensare
razionalmente sarebbe estremamente limitata.
Le differenze culturali tra le etnie dipendono in larga misura dai diversi tipi
di società in cui gli individui nascono, crescono e vengono educati. La cultura è
un comportamento appreso. Se è vero che gli esseri umani rispondono a certi
stimoli in modo automatico (si pensi al battito delle palpebre in risposta ad un
brusco movimento ai margini del campo visivo), è vero anche che certi
3
«La definizione che le scienze sociali danno della cultura ha perso le connotazioni aristocratiche
del termine e si riferisce alle convinzioni, ai valori e ai simboli espressivi (come l’arte e la
letteratura) che qualsiasi gruppo o società condivide, e costituisce un modo di organizzare
l’esperienza e una guida al comportamento per i membri di quel gruppo» (Smelser 1995:37).
9
comportamenti sono appresi (Smelser 1995). La cultura è un patrimonio condiviso
ed è trasmessa di generazione in generazione affinché l’individuo possa integrarsi
nella società di cui fa parte (Smelser 1995:38).
Altra caratteristica fondamentale della cultura è la selettività, infatti ogni
società seleziona le caratteristiche che andranno a comporre la propria cultura.
Ciò avviene ad esempio con il linguaggio: l’uomo ha a disposizione una gamma
molto vasta di suoni vocali ma non li utilizza tutti, tra questi sceglie quali
andranno a costituire il linguaggio della propria società. Conseguenza della
selezione è la diversità tra le varie culture e tra i significati assegnati da ogni
cultura ad uno stesso evento.
Esistono tuttavia degli universali culturali, dei tratti comuni del
comportamento umano a prescindere dalla società a cui l’individuo appartiene.
Di questo insieme di caratteri fanno parte, ad esempio, la presenza di un
linguaggio grammaticalmente complesso
4
, l’esistenza in ogni cultura di una forma
di sistema famigliare, l’istituzione del matrimonio e di riti religiosi, ed una
qualche forma di proibizione dell’incesto.
Gli universali culturali possono avere però diverse interpretazioni a seconda
delle società in cui questi si concretizzano. Ad esempio, per ciò che riguarda la
definizione di incesto, in quasi tutte le culture viene considerato incesto il
rapporto sessuale tra i membri della famiglia ristretta , ma in molti popoli il suo
significato si estende anche ai rapporti tra cugini ed in altre popolazioni arriva a
comprendere tutte le persone che portano lo stesso cognome.
4
« Nessuno mette in dubbio che il linguaggio sia uno degli attributi culturali umani più distintivi,
condiviso da tutte le culture (per quanto nel mondo si parlino migliaia di lingue diverse)» (Giddens
1991:41).
10
Le abitudini, per essere considerate elementi di una cultura, devono essere
condivise da un gruppo, non ha importanza la frequenza con il quale un
comportamento viene attuato, bensì il fatto che il comportamento sia considerato
appropriato da molti.
In sintesi la cultura, intesa in senso ampio, non riguarda solo le nozioni
apprese tramite esperienze e studi elitari, ma anche il modo di vita.
Gli studi di Èmile Durkheim hanno contribuito in maniera significativa a
una corretta definizione del concetto di cultura. Chiedendosi come la società
possa mantenere un livello minimo di coesione, Durkheim ha osservato che ogni
società si stabilisce e permane solo se si costituisce come comunità simbolica;
solo quando, cioè, il sapere diventa parte condivisa del tessuto sociale. Società e
saperi si attraversano dialetticamente per consentire ad una cultura di emergere e
di stabilizzarsi nel tempo (Durkeim 1996).
Se poi consideriamo Parsons, anche per questo filosofo la cultura è costituita da
sistemi simbolici che, interiorizzati dagli individui, orientano l’azione. Parsons
distingue quattro principali dimensioni idealtipiche della cultura:
1) Coerenza/incoerenza: le proposizioni culturali costituiscono un
insieme in cui possono essere individuati dei principi ordinatori e non un
agglomerato di elementi tra loro sconnessi. Il grado interno di coerenza
è tuttavia variabile. Maggiore è la complessità culturale, tanto più è
difficile mantenere conformità e coerenza.
2) Pubblico/privato: la cultura è pubblica nel senso che le
proposizioni da cui è costituita sono codificate entro linguaggi
collettivi all'interno di gruppi sociali accessibili da tutti.
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3) Oggettività/soggettività: la cultura è un fatto oggettivo, nel senso
che va al di là degli individui per occupare uno spazio e una
rilevanza sociale autonoma. Esiste, però, anche l’aspetto soggettivo
della cultura, costituito dalle interpretazioni che di questa danno gli
individui.
4) Esplicito/implicito: la cultura può essere manifesta, esplicita, più
o meno teoricamente elaborata, o può essere tacita, non tematizzata.
In questo caso gli individui la condividono senza saperla
necessariamente giustificare, fanno uso cioè del senso comune
(Parsons 1987).
Le teorie di Durkheim e di Parsons, così come altri studi, partivano
dall’idea che i territori fossero spazi circoscritti all’interno dei quali si collocavano
le culture. Con l’avvento della globalizzazione, però, la cultura è stata studiata in
una prospettiva diversa. L’antropologo svedese Ulf Hannerz (1998) afferma che
«in quanto sistemi collettivi di significato le culture appartengono innanzitutto
alle relazioni sociali e ai network di queste relazioni. Appartengono ai luoghi
solo indirettamente e senza una necessità logica» (Hannerz 1998 :32).
Le culture, cioè, sono da considerarsi come delle entità altamente dinamiche
ed in continua evoluzione. Nel momento in cui si descrivono differenze culturali,
si effettuano delle fotografie, sicuramente vere, valide ed importanti, ma che
permettono solo una visione parziale e statica di una realtà complessa.
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Spesso si commette l'errore di identificare i confini politici (ad es. quelli di
uno stato nazionale) con l'identità culturale: la cultura non si lascia contenere
all'interno di uno spazio definito.
Un ulteriore possibile errore scaturisce dal credere di poter conservare (o
perdere) la propria cultura. La cultura, come l'identità, non si può né acquisire da
un momento all'altro, né tantomeno perdere: si tratta di un processo di continua
trasformazione.
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1.2 L’occidentalizzazione del mondo
Lo studio delle relazioni interculturali è naturalmente connesso al fenomeno
della globalizzazione; una nuova struttura relazionale, che interconnette persone e
mercati, caldeggiata dal mondo occidentale per dare risposte ai bisogni del
commercio internazionale.
Il Centro di Politica Estera di Trieste (1999) definisce la globalizzazione
come «il processo (o insieme di processi) consistente in una trasformazione
nell’organizzazione spaziale delle relazioni e delle transazioni sociali che
produce flussi e reti transcontinentali o interregionali d’attività, interazioni e
potere» (Held e Al.1999:7). La globalizzazione, cioè, riguarda tutte le
interconnessioni tra le diverse zone del mondo, siano esse sociali, politiche o
economiche nonché le mutazioni che ne scaturiscono.
Con il termine globalizzazione si indica dunque, un fenomeno di crescita
progressiva delle relazioni e degli scambi di vario genere a livello mondiale ed in
diversi ambiti, che si è manifestato a partire dalla fine del XX secolo. Tale termine
non si riferisce solo a mutamenti economici ma si contestualizza all’interno di
mutamenti sociali, tecnologici e politici.
L’assunzione di una prospettiva eurocentrica nei rapporti tra culture, ha fatto
sì che alcuni studiosi parlassero di imperialismo culturale: i valori occidentali
sarebbero assunti come universali, ed esportati con la forza, con la pressione
economica e con la propaganda.
14
Huntington (2006), direttore dell’Istituto di Studi Strategici della Harvard
University , ha preconizzato uno scontro tra civiltà lungo le linee di contatto tra le
grandi religioni.
La sua tesi è che la modernizzazione del mondo (di cui la globalizzazione
dovrebbe essere il terminale) non implichi la sua occidentalizzazione. Anzi,
dall’Islam al Giappone a molte regioni africane, i processi d’urbanizzazione,
scolarizzazione e adeguamento scientifico-tecnologico avvengono insieme alla
rivendicazione della propria identità etnica, culturale e religiosa. Il che implica
numerosi conflitti concentrati proprio sulle linee di confine tra le diverse civiltà.
Huntington smonta molti altri luoghi comuni. Dimostra ad esempio, riferendosi al
peso crescente dell’oligopolio delle corporations, che si dovrebbe parlare non
tanto di “fine” quanto di crisi dello stato-nazione. Dimostra poi come la fine della
Guerra Fredda non abbia solo fatto cadere il Comunismo reale, ma abbia anche
aperto la crisi degli Stati Uniti, scongelando tutte le forze antiamericane ibernate
dall’impero sovietico (Huntington 2006).
Quello di Serge Latouche (1992) è un pensiero radicale, in cui si plasma la
fine dell’Occidente proprio nel momento di massima occidentalizzazione del
mondo. L’occidentalizzazione del mondo è il modo uniforme con cui l’Occidente
dissolve le altre culture e diventa la forma del pianeta Terra, in cui però estingue
anche se stesso, perdendo significato e ritrovandolo solo in ciò che significati non
ha: la Tecnica. Secondo questo autore gli unici criteri di valore sono a questo
punto la quantità e la quantificabilità. Di conseguenza l’Occidente è portato ad
15
assumere qualsiasi altro concetto non riducibile a puro calcolo economicistico,
come inutile dispendio di tempo. L’Occidente ha cercato di impiantare nel resto
del mondo un modello culturale promettendo uno sviluppo generalizzabile ed
estendibile ad ogni popolo; tuttavia la missione di cui si è autoinvestito è fallita e
continuamente rimandata in tempi e luoghi utopici.
C’è una via d’uscita? Come sottrarsi alla dogmatica fasulla dello sviluppo?
Il post-Occidente di cui è pieno il Sud del pianeta, quell’universalismo di periferie
in cui la dedizione ha spinto a reti di solidarietà nuove, a linguaggi produttori di
legami sociali, ad economie informali di piccoli mestieri, commerci, artigianato di
supporto che salvano se stessi e il proprio clan, alle credenze più svariate che
danno un senso pur nella frantumazione. Stanno ai bordi della modernità, ma
proprio per questo sono il margine, il ciglio da cui si può vedere una società
diversa in gestazione. Quella che gli occidentali vedevano come sopravvivenze di
altri mondi, residuati tradizionali, sono invece le insegne di una concreta
alternativa all’Occidente vittorioso e morente (Latouche 1992).
La tesi portata avanti dal sociologo tedesco Ulrich Beck (1999) è che le
società avanzate producano ormai più rischi che ricchezza. Rischi ecologici
innanzi tutto, spesso dovuti ad effetti collaterali, imprevisti o latenti delle nuove
tecnologie. Ma anche rischi sociali, intesi come crescente insicurezza e
smarrimento per fasce sempre più larghe di popolazione; fatto salvo un nucleo
ristretto di fortunati “giocatori globali”, capaci di muoversi con successo nel
grande spazio creato dalla mondializzazione. Beck chiama questa nuova fase
seconda modernità, per distinguerla dal periodo che va dalla fine della guerra agli
16
anni Settanta, caratterizzato da un solido patto tra capitalismo, democrazia e Stato
sociale. Nella seconda modernità, tutti i contenuti e le premesse di quel patto si
destrutturano. In particolare, viene meno l’efficace collante del lavoro salariato di
massa, attorno a cui ruotavano ordinatamente cicli di vita, equilibri familiari,
rapporti di genere, gerarchie politiche e sociali.
La globalizzazione è una delle cause principali di questa rottura. Ma lo
studioso tedesco riconosce che ve ne sono altre, a cominciare dallo stesso
successo, su molti fronti, della prima modernità. Un esempio è l’affermazione del
Welfare State, che ha paradossalmente indebolito l’energia utopica di questa
istituzione, mettendone in luce i limiti e le zone d’ombra, o ancora il processo di
individualizzazione, figlio dei principi democratico-liberali, che spinge le persone
a rivendicare autonomia in ogni ambito di attività, spesso a discapito dei legami di
solidarietà.
Beck è critico impietoso del progetto neo-liberista fautore di un mercato
senza regole; guarda con scetticismo alle speranze di un “miracolo economico
ecologico” e propone una Terza Via: innanzi tutto il lavoro di impegno civile
(assistenziale, ricreativo, di mobilitazione civica) come complemento del lavoro
salariato, opportunamente ridistribuito attraverso riduzioni d’orario; in secondo
luogo un reddito di cittadinanza che attenui l’intensità della nuova insicurezza
collettiva. Infine, la rifondazione della politica, che deve ridiventare arte della
libera associazione capace di creare nuovi collanti integrativi, possibilmente di
raggio transnazionale (Beck 1999).
Luciano Gallino (2000) offre un illuminante schema, inquadrando i giudizi
di valore sulla globalizzazione in quattro correnti:
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• coloro che la giudicano un meccanismo perfetto ( generalmente le
banche internazionali, le istituzioni economiche e le multinazionali);
• chi pensa che si tratti di un processo affatto nuovo, un
neocolonialismo che abbiamo già visto realizzato e che si è avvalso
di una retorica simile a quella odierna ;
• chi ritiene che sia la fine della civiltà, il dissolversi delle culture e
della biodiversità;
• chi, come l’autore stesso, si accorge che a fianco di processi rischiosi
ve ne sono di accettabili (Gallino 2000).
Quest’ultimo mi sembra il giudizio più corretto e onnicomprensivo, in grado
di fornire un quadro d’analisi neutrale all’interno del quale poter svolgere uno
studio dettagliato sulla comunicazione interculturale. La comunicazione come
possibilità di sviluppo di una comunità interculturale.
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1.3 La differenza culturale
Nelle società contemporanee si intensificano fenomeni di particolarismo
culturale che si manifestano con rivendicazioni a difesa dell’identità nazionale,
etnica o di specifiche categorie sociali.
Il bisogno di difendere la propria identità culturale può essere ricondotto a
due cause. Innanzitutto venendo ad indebolirsi, a causa della globalizzazione, il
senso di appartenenza nazionale e comunitario, gli attori sociali sentono il bisogno
di riaffermare le proprie origini comunitarie, etniche o nazionali. In secondo
luogo, essendo ormai universalizzato il principio dell’eguaglianza, si è
consapevoli del diritto di veder riconosciuta la propria diversità (Crespi 2003:198-
199).
Tra le diverse culture oltre alle norme culturali ed ai valori variano in modo
evidente anche le pratiche ed i comportamenti. Le abitudini alimentari, i
comportamenti sessuali, l’organizzazione famigliare sono alcune componenti
fondamentali che demarcano la variabilità tra una cultura e l’altra.
Se è vero che alcune società tendono ad essere culturalmente omogenee
(tutt’oggi esistono società monoculturali, o con un alto grado di omogeneità
culturale come quella giapponese), la maggior parte delle società moderne, però,
è costituita da un alto grado di differenza culturale interna, che permette di
definirle società multiculturali. La globalizzazione, ma anche eventi come i flussi
migratori, le guerre, il colonialismo, hanno fatto sì che si venissero a costituire
società culturalmente composite costituite da diversi gruppi etnici.