La conoscenza che si può così formare è una conoscenza della struttura della
matematica e di come le persone pensano, ragionano e usano le loro capacità
intellettuali in quel campo specifico.
La matematica non deve essere intesa solo come strumento ma come un metodo
per indagare la realtà, un linguaggio per esprimerne una descrizione. Il termine
“Matematica” ha una radice etimologica in “mathema” (conoscenza) di portata
culturale molto vasta; la matematica va identificata con lo sviluppo delle conoscenze e
con l’organizzazione razionale dell’interpretazione e rappresentazione della realtà.
La psicologia è alla continua ricerca di principî generali che possano regolare
l'apprendimento, il pensiero e lo sviluppo, allo scopo di cercare spiegazioni sul
comportamento delle persone in situazioni specifiche.
Gran parte di ciò che in psicologia è chiamato “metodo sperimentale” riflette i
tentativi degli psicologi di portare alla luce dati sul modo in cui le persone apprendono
e pensano.
Non si sa molto, però, su come tali informazioni siano ricollocabili nel loro contesto
naturale (l'esecuzione di compiti della vita reale), per far sì che ci aiutino a capire il più
possibile il modo in cui vengono appresi determinati argomenti, come la matematica.
Oggi, accanto agli esperimenti di laboratorio che fanno uso di compiti molto semplici
per isolare alcune abilità pure dal mondo esterno, gli psicologi stanno studiando il
comportamento delle persone di fronte ai compiti complessi che eseguono a scuola,
sul lavoro e nel gioco.
Alcuni di questi compiti sono a carattere matematico; di conseguenza, è possibile
far riferimento alla psicologia di una materia specifica cioè della matematica. Si tratta
di una psicologia che è appena agli inizi; la si potrebbe considerare come derivante da
una psicologia, che aiuta a far luce sul pensiero e sull'apprendimento matematico, e da
una matematica che può produrre quesiti per la psicologia.
L’insegnamento della matematica
Possiamo definire E.L. Thorndike (1922/1924) “il padre fondatore” della psicologia
dell'insegnamento della matematica. Come psicologo, Thorndike era radicato in una
tradizione di sperimentazione in laboratorio; era però anche fortemente impegnato nel
tradurre i risultati così ottenuti in consigli per l'insegnamento in classe.
Nel 1922 apparve un libro, intitolato “La psicologia dell'aritmetica” in cui Thorndike,
che lavorava al Teacher's College della Columbia University, si chiedeva: “Associazioni
tra stimoli e risposte, la legge dell'effetto: come si possono applicare questi principî,
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sviluppati per lo più attraverso l'osservazione di comportamenti semplicissimi negli
animali, a qualche cosa di così complesso come l'apprendimento scolastico?”. Dal
momento che l'associazionismo riteneva che tutte le conoscenze, anche le più
complesse, fossero costituite da semplici collegamenti, la risposta sembrava chiara:
l’apprendimento consisteva nella creazione e nel rafforzamento delle associazioni
necessarie. Lo scopo dell'istruzione elementare, sosteneva Thorndike (1922), quando
sarà definito pienamente si rivelerà essere quello di provocare nella natura umana
alcuni cambiamenti, rappresentati da una serie quasi infinita di collegamenti o legami;
in base ad essi, l'alunno pensa o sente o agisce in certi modi, in risposta alle situazioni
organizzate dalla scuola, ed è portato a pensare, a sentire e ad agire in modo simile di
fronte a situazioni simili, quando queste si presentano nella vita, anche al di fuori della
scuola.
Il libro di Thorndike era un tentativo di spiegare come il contenuto dell'aritmetica
potesse essere tradotto in legami stimolo-risposta formulati psicologicamente. Le sue
ricerche hanno permesso un grande passo avanti verso l'applicazione della teoria
psicologica all'insegnamento ed il suo contributo alla psicologia della matematica sta
nell’aver focalizzato l'attenzione sul contenuto dell'apprendimento (tutto questo
nell'àmbito di una materia specifica). Alla sua teoria dell’apprendimento non sono
mancate le critiche; ad esempio William Brownell (1935) sollevò diverse obiezioni al
metodo dell’esercizio ripetitivo. Secondo Thorndike, invece, programmare
organicamente esercizi meccanici ripetitivi avrebbe permesso di acquisire più
facilmente velocità e precisione nel calcolo aritmetico (è esperienza comune a tutti gli
insegnanti che quando uno studente non impara a memoria fatti numerici e algoritmi
specifici fin dalle prime volte che questi gli vengono presentati, rischia di non
recuperarli mai).
L’esercizio come supplemento all’insegnamento e con lo scopo di sviluppare una
modalità di risposta automatica, quindi veloce, è sicuramente importante per risolvere
problemi matematici (ad esempio: ripetere le tabelline fino a farle diventare un
automatismo aiuta ad eliminare ostacoli durante la risoluzione dei problemi). Occorre,
però, anche capire i concetti base della matematica, sia quelli che costituiscono le
regole ed i procedimenti algoritmici della semplice aritmetica, sia quelli non inerenti al
calcolo. Per quanto riguarda questi ultimi una parola chiave è “struttura”, cioè il modo
in cui il corpo delle conoscenze matematiche è organizzato e collegato al suo interno.
La struttura di un campo di conoscenza è più o meno oggettivamente verificabile;
matematici esperti potrebbero probabilmente giungere ad un qualche tipo di accordo
sulla struttura e sui contenuti fondamentali di un certo campo.
Ovviamente un tentativo di insegnare strutture matematiche, dove per struttura si
intenda la definizione succitata, deve tener conto delle capacità intellettuali di un
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allievo; ciò porta a considerare le caratteristiche dei processi del pensiero umano, che
consentono di apprendere strutture matematiche e di pensare in forma matematica.
Esistono diverse definizioni di struttura psicologica, due delle quali sono sviluppate in
modo esplicito nelle teorie della Gestalt (Köhler, 1947) e di Piaget (1949/1970).
La teoria Gestaltista si concentra sulla struttura del campo psicologico, cioè sulla
tendenza della percezione e del pensiero ad organizzarsi in totalità funzionali (che
dominano gli elementi obiettivi dell'esperienza e ne determinano le relazioni
reciproche). La teoria del campo è stata elaborata, inizialmente, da W. Köhler (1947),
che ha preso spunto dalle scienze fisiche secondo cui alcuni insiemi fisici sono ottenibili
sommandone le varie parti tra loro ma altri risultano inspiegabili utilizzando un
semplice schema additivo (ad esempio: se si applica una scarica elettrica ad un punto
di una sfera, questa si propaga secondo una struttura che dipende dalla forma della
sfera e non secondo l’aumento o il decremento della quantità della carica stessa).
Secondo Köhler accade lo stesso per l’aggregato delle unità percettive e per il loro
correlato fisiologico. Inoltre l’ordine percepito nello spazio ambientale è sempre
strutturalmente identico a quello funzionale, che caratterizza la distribuzione dinamica
dei processi cerebrali sottostanti all’atto percettivo; cioè il nostro cervello funziona
come un sistema totale e dinamico e non si limita a reagire a stimolazioni indipendenti
solo successivamente legate da meccanismi associativi.
Per quanto riguarda Piaget, il suo interesse è rivolto, in questo caso, alle strutture
logiche della mente umana che determinano la comprensione, da parte della gente, di
fatti e procedimenti matematici. Egli considera che le caratteristiche fondamentali del
pensiero umano si possano capire facendo riferimento alle proposizioni ed alle relazioni
logiche che si esprimono attraverso il comportamento delle persone; inoltre certe
strutture basilari del pensiero, definibili in modo logico e matematico, sarebbero innate
negli esseri umani (cioè: tutti gli esseri umani sviluppano determinate strutture
cognitive nella misura in cui mantengono un normale interazione con l’ambiente, sia
sociale sia fisico).
Lo sviluppo graduale di tali strutture si suppone dipenda da interazioni di tipo attivo
tra il discente e l'ambiente.
Ma perché insegnare le strutture della matematica? Considerando le conseguenze
psicologiche educative derivanti dalla comprensione di una struttura di questo tipo, si
può dire che se l'insegnamento potesse aiutare gli allievi a raggiungere una
comprensione fondamentale della struttura della matematica (presentando loro le
relazioni che stanno alla base delle operazioni matematiche e spiegando i concetti che
legano un'operazione all'altra) questi allievi saprebbero estendere l'applicazione di
quanto hanno appreso, di trasferire le loro conoscenze specifiche a nuovi compiti e
situazioni.
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Quindi, si deve sostituire l'esercizio meccanico e ripetitivo con un apprendimento
significativo, il cui criterio potrebbe essere un insegnamento in grado sia di mettere in
evidenza le strutture alla base dei concetti matematici sia di poter rispondere alle reali
capacità intellettuali dell'allievo.
E’ importante anche stabilire quali siano le capacità cognitive degli studenti nei
riguardi dell'apprendimento in matematica e come queste interagiscano con le
strutture matematiche presentate in campo didattico, cioè è necessaria una teoria del
funzionamento intellettuale che permetta di valutare l’efficacia con cui particolari
presentazioni didattiche possono determinare una comprensione corretta.
Una domanda interessante, in questo senso, è: perché è così difficile insegnare, in
modo produttivo, ai ragazzi come risolvere problemi matematici?
Skemp (1971, p.13): i problemi di insegnamento ed apprendimento sono di tipo
psicologico, prima di tutto occorre capire come si impara la matematica.
L’apprendimento della matematica
In questi ultimi anni si è accentuato, particolarmente nel campo dell'apprendimento
in matematica, l'approccio che sottolinea il ruolo costruttivo di concetti, principî,
procedimenti e strategie da parte degli allievi (è necessario impegnare attivamente il
soggetto nell'acquisizione delle varie conoscenze e competenze).
Lauren B. Resnick (1989) ha rivisitato il concetto di “costruzione della conoscenza”,
evidenziando alcune caratteristiche che è stato possibile descrivere con più precisione
sulla base di indagini promosse in psicologia cognitiva.
Un apprendimento efficace dipende, tra l’altro, dalla motivazione, dall'autocontrollo,
dalle elaborazioni e dalle rappresentazioni costruite da parte di ogni alunno. Questo
non vuol dire che tutta la conoscenza vada riscoperta autonomamente: è il processo di
costruzione del nuovo sulla base del vecchio, cioè di quello che già si sa e si sa fare,
che deve essere attivato.
Le strategie di costruzione o di incorporazione stabile e significativa delle nuove
conoscenze sono condizionate da quanto, sia di conoscenze dichiarative sia di
conoscenze procedurali (Gagné, 1985), già si possiede (Ausubel, 1968).
L'apprendimento risulta, in questo modo, dipendente dalla conoscenza previa e ciò
condiziona in modo determinante ogni intervento didattico (Glaser, 1988).
D'altro canto si ha sempre più il sospetto che l'organizzazione di un processo di
apprendimento valido ed efficace non possa passare per un percorso che va
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dall'acquisizione di elementi staccati di un contenuto al loro collegamento in una unità
complessiva.
Ausubel, nel 1968, ha proposto di passare da una conoscenza più globale e
indifferenziata ad una differenziazione organizzata progressivamente.
L'esercizio che viene attivato per fare propria tale conoscenza si esplica e si raffina in
una situazione precisa, le cui variabili hanno una grande influenza nel modellarla. Per
questo si parla di conoscenza situata o contestualizzata (Resnick, 1989, p.3).
Quindi, generalmente, chi più sa in un certo campo più tende a sapere; chi più ha
sviluppato capacità di acquisire nuove conoscenze in un settore, più rapidamente
procede sulla via del sapere e del saper fare; chi ha già acquisito una certa autonomia
nel regolare le componenti cognitive, affettive e metacognitive della propria condotta
in un certo contesto, sarà maggiormente in grado di esercitarsi e maturare in questa
direzione (è importate sottolineare “generalmente”: infatti a pari livello di conoscenza
alcuni soggetti si dimostrano più propensi ad utilizzarla di altri).
Conoscenze, strategie e capacità di autoregolazione del proprio pensiero e del
proprio apprendimento, raggiunte in un determinato àmbito del sapere e del saper
fare, tendono ad assumere una certa coerenza.
Inoltre, si manifesta anche la crescita di un proprio stile di apprendimento, come
risultato di processi di adattamento progressivi.
Uno stile di apprendimento, infatti, viene spesso concettualizzato come un insieme
di strategie utilizzate facilmente e spontaneamente, coerente con gli orientamenti ed i
modelli mentali posseduti, nonché con le attese, le intenzioni e gli atteggiamenti
collegati (Pellerey, 1990).
La visione costruttivista del processo di acquisizione delle conoscenze e di sviluppo
delle competenze ha spostato l'attenzione dei ricercatori verso lo studio dei processi di
pensiero (connessi con una data disciplina di insegnamento) e delle strade attraverso
cui tali processi si sviluppano.
Per quanto riguarda l'apprendimento in matematica, occorre indivi-
duare i criteri di demarcazione di ciò che si può definire “matematico”.
Ovviamente saranno determinanti i diversi approcci filosofici, da un lato, e le
differenti teorie e metodologie di ricerca adottate, dall'altro.
Ad ogni modo, qualunque sia la posizione teorica assunta circa il pensiero
matematico, vi è generale consenso nell'affermare che questo possa essere in gran
parte caratterizzato come “processo di soluzione di problemi”.
Apprendere la matematica, quindi, implica non solo acquisire in modo significativo e
stabile un certo insieme di conoscenze ma anche sviluppare, almeno fino ad un certo
punto, specifiche competenze nel risolvere problemi, nonché un pensiero
significativamente critico. E’ questo un orientamento sempre presente nella storia del
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pensiero matematico, fin dai tempi dei dialoghi platonici. Determinanti in questo senso
furono le pubblicazioni nel 1945 di tre studi classici sul pensiero matematico: il volume
di J. Hadamard (1945) sulla psicologia dell'invenzione in campo matematico; lo studio
di M. Wertheimer (1945) sul “pensiero produttivo”, fondamentalmente dedicato al
pensiero matematico; e il libro scritto da G. Polya (1945): “Come si risolvono i
problemi”. La maggior parte delle attuali ricerche (di impostazione cognitiva) sui
processi solutori dei problemi matematici si rifà, più o meno direttamente, a queste
opere.
2. PROBLEM SOLVING
Risolvere problemi (problem solving), che cosa significa? Secondo G. Polya (1945)
...risolvere problemi significa trovare una strada per uscire da una difficoltà, una strada
per aggirare un ostacolo, per raggiungere uno scopo che non sia immediatamente
raggiungibile. Sempre Polya (1963): Il saper fare in matematica è l’abilità nel
risolvere problemi, nel trovare prove, nel criticare argomenti a favore, nell’usare il
linguaggio matematico con una certa fluidità e nel riconoscere concetti matematici in
situazioni concrete.
Secondo K. Duncker (1969): Un problema sorge quando un essere vivente ha una
meta ma non sa come raggiungerla. Credo...che certi tratti essenziali del processo di
ricerca della soluzione siano indipendenti dal particolare materiale su cui opera il
pensiero.
Come si vede, si tratta più che altro di precisazioni, puntualizzazioni, chiarificazioni:
non c’è problema se non c’è situazione problematica che crea una domanda,
rispondere alla quale sia, per qualche motivo, causa di difficoltà (D’Amore, 1993b).
I problemi, quindi, hanno dei dati, un obiettivo, degli ostacoli (Davidson, Deuser &
Sternberg, 1994). I dati sono gli elementi, le loro relazioni e le condizioni che formano
lo stato iniziale della situazione problematica. L’obiettivo è la risoluzione. Gli ostacoli,
naturalmente, sono caratterizzati da ciò che rende difficile trasformare il problema
dallo stato iniziale a quello desiderato. A questo proposito è importante anche
considerare quale metodo utilizzi chi deve (vuole) risolvere un problema, quali siano le
strategie messe in atto. Da tale punto di vista un'interessante sintesi del processo di
risoluzione dei problemi matematici è quella offerta da Leone Burton, John Mason e
Kaje Stacey (1982). Secondo questi autori, le fasi essenziali lungo cui si dispiega il
processo di soluzione di un problema sono quattro: fase di inizio, fase di attacco, fase
di revisione, fase di estensione.
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